Cass. pen., sez. I 03-10-2006 (12-07-2006), n. 32678TERMINI PROCESSUALI – RESTITUZIONE NEL TERMINE – SENTENZA CONTUMACIALE- Sentenza della CEDU – Riconoscimento del carattere non equo del processo – Notifica al difensore d’ufficio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Osserva

1. Con sentenza 22 giugno 1999 il Tribunale di Rimini procedeva in contumacia nei confronti di S.T., cittadino ungherese residente in Ungheria, e lo dichiarava responsabile del delitto di cui agli artt. 9,10 e 12 della l. 497/1974 e all’art. 23 della l. 110/1975, condannandolo alla pena di anni otto di reclusione e Lire 2.000.000 di multa, per avere importato e venduto in Italia, tra l’agosto e il dicembre 1993, una partita di armi.

Nel corso del procedimento il S. veniva assistito da un difensore nominato d’ufficio. La sentenza del Tribunale di Rimini, non essendo stato interposto appello, diveniva irrevocabile il 16 ottobre 1999.

Diramate le ricerche in campo internazionale, S. veniva arrestato in Austria in data 15 agosto 2000. Le autorità austriache informavano le autorità italiane facendo presente che le generalità esatte dell’arrestato erano S.T., nato a Budapest il 19 ottobre 1951 e non già, come risultava agli atti del procedimento italiano, S.T., nato a Miskolc il 23 ottobre 1953. Le autorità italiane, eseguiti gli accertamenti ritenuti opportuni, concludevano che il soggetto arrestato si identificava con quello condannato. Pertanto, con provvedimento del 17 agosto 2000, il Tribunale di Rimini faceva apporre in calce alla sentenza la rettifica delle generalità nel senso sopra indicato.

S. veniva estradato in Italia in data 15 settembre 2000 e in pari data gli veniva notificato l’ordine di esecuzione della pena.

In data 18 settembre 2000 S. faceva pervenire al Tribunale di Rimini un’istanza a sua firma con la quale, affermando di non avere avuto effettiva conoscenza del procedimento penale, chiedeva la remissione in termini per poter proporre impugnazione avverso la sentenza di condanna. Contestualmente egli nominava, per la prima volta dall’inizio del procedimento, un proprio difensore di fiducia.

Nei giorni immediatamente successivi, il nominato difensore di fiducia faceva pervenire al Tribunale una memoria difensiva insistendo per l’accoglimento dell’incidente d’esecuzione proposto dal suo assistito. Il difensore sosteneva che non era stato identificato in modo certo il soggetto dell’azione penale e aggiungeva che comunque il suo assistito non aveva ricevuto l’avviso spedito a suo tempo in vista dell’udienza preliminare fissata per il 23 aprile 1998, avviso che (tradotto in ungherese e accompagnato dall’invito a nominare un difensore) risultava essere stato spedito a un indirizzo ungherese. In particolare si sosteneva nella memoria: a) che non era stato il S. a firmare la cartolina di ricevimento del predetto avviso, cartolina che si trova agli atti del procedimento e che reca la sottoscrizione (disconosciuta dal S.) della persona che il giorno 16 gennaio 1998 avrebbe ricevuto l’avviso; b) che l’indirizzo che compare sulla cartolina non corrisponde all’effettivo indirizzo ungherese del S. (indicando la cartolina "via Erdo 16, Szigethalhom di Budapest" anziché "via Erdö 16, Szigethalom"); c) che da tutto ciò conseguiva l’inesistenza della notifica del decreto di citazione a giudizio con conseguente nullità di tutti gli atti successivi, ivi compresa la notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di condanna pronunciata in primo grado.

Con ordinanza del 24 ottobre 2000 il Tribunale di Rimini, in veste di giudice dell’esecuzione, respingeva l’incidente di esecuzione, argomentando che il giudice dell’esecuzione non può attribuire rilievo alle nullità asseritamente verificatesi durante il processo di cognizione, nullità che possono farsi valere solo con i normali mezzi di impugnazione previsti dalla legge, risultando altrimenti sanate e coperte dalla formazione del giudicato. Il Tribunale rilevava, in particolare, che la sentenza di primo grado risultava ritualmente notificata a norma dell’art. 169 c.p.p. al difensore d’ufficio (in data 18 agosto 1999) con conseguente piena validità del titolo esecutivo, per modo che la restituzione in termini non era ammessa; e concludeva che, secondo la giurisprudenza in materia, qualora il difensore, come nel caso di specie, deduca la nullità della notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di primo grado, può solo proporre un’impugnazione tardiva sorretta dalla prova della dedotta nullità.

Con atto depositato in cancelleria il 27 novembre 2000, indirizzato alla Corte d’appello di Bologna, il difensore di fiducia del S. proponeva appello tardivo avverso la sentenza 22 giugno 1999 del Tribunale di Rimini, di cui chiedeva l’annullamento, riproponendo le medesime argomentazioni di cui sopra; chiedeva inoltre l’esperimento di una perizia grafica sulla firma apposta sulla cartolina in atti.

Con sentenza 24 maggio 2001 la Corte d’appello di Bologna dichiarava inammissibile l’appello perché, non essendo nulla la sentenza appellata, "l’impugnazione contro di essa è pacificamente tardiva". Nella motivazione la Corte di merito affermava che non vi era alcun dubbio sul fatto che l’appellante fosse effettivamente la persona ricercata. La sentenza contestava poi la tesi dell’appellante circa l’asserita inesistenza di una notifica nei confronti del S., argomentando e sostenendo che faceva stato la cartolina di ritorno in atti, a firma del destinatario, attestante la ricezione in data 16 gennaio 1998 dell’avviso ex art. 169 c.p.p., ed affermando che l’indirizzo era sostanzialmente preciso, nonostante una «h» di troppo nel nome della località e una dieresi in meno nel nome della via.

Avverso questa sentenza la difesa S. proponeva ricorso per cassazione che veniva rigettato da questa Corte con sentenza 23 aprile 2002.

2. Già in data 5 marzo 2001 S.T., assistito dal proprio difensore di fiducia, aveva proposto ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo contro la Repubblica italiana, ai sensi dell’art. 34 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), lamentando di essere stato condannato in contumacia senza avere avuto la possibilità di difendersi davanti all’autorità giudiziaria italiana, in violazione dell’art. 6 della Convenzione stessa (ricorso n. 67972/01). Nel ricorso la difesa del S. riproponeva le stesse argomentazioni già prospettate all’autorità giudiziaria italiana.

Con sentenza 18 maggio 2004 la Corte di Strasburgo decideva che vi era stata effettivamente una violazione dell’art. 6 CEDU ai danni di S.T. In particolare la Corte (§§ 65-76) argomentava nei termini che qui di seguito si riportano.

A) Se è vero che un processo celebrato in assenza del prevenuto non è di per sé incompatibile con l’art. 6 della Convenzione, è altrettanto vero, tuttavia, che si verifica una denegata giustizia allorché un individuo condannato in absentia non possa ottenere che un’autorità giudiziaria statuisca nuovamente, dopo averlo sentito, circa la fondatezza dell’accusa sia in fatto che in diritto, ogniqualvolta non sia accertato in maniera inequivoca che egli ha rinunziato al suo diritto a comparire e a difendersi («Si une procédure se déroulant en l’absence du prévenu n’est pas en soi incompatible avec l’article 6 de la Convention, il en demeure néanmoins qùun déni de justice est constitué lorsqu ‘un individu condamné in absentia ne peut obtenir ultérieurement qu ‘une juridiction statue à nouveau, après l’avoir entendu, sur le bien-fondé de l’accusation en fait comme en droit, alors qùil n’est pas établi de maniere non équivoque qùil a renoncé à son droit de comparaître et de se défendre»).

B) ÿ necessario che gli strumenti offerti dal diritto interno corrispondano effettivamente alle esigenze sottese dall’art. 6 nel caso in cui l’accusato non abbia né rinunciato a comparire e a difendersi né avuto l’intenzione di sottrarsi alla giustizia («[?] il faut que les ressources offertes par le droit interne se révèlent effectives si l’accusé n’a ni renoncé à comparaître et à se défendre ni eu l’intention de se soustraire à la justice»).

C) Nel caso di specie, le circostanze attinenti al recapito della comunicazione inoltrata dal Gip di Rimini (spiccata il 30 ottobre 1997 in vista dell’udienza preliminare del 23 aprile 1998) rimangono incerte. Sulla base degli elementi portati davanti ad essa, la Corte non è in condizione di poter determinare se la suddetta comunicazione sia stata ricevuta dal ricorrente («Sur la base des éléments produits devant elle, la Cour n’est pas en mesure de déterminer si ladite communication a été reçue par le requérant»).

D) Il ricorrente ha contestato a più riprese l’autenticità della firma che gli si attribuiva e che costituiva il solo elemento suscettibile di provare che l’accusato era stato informato dell’apertura del procedimento. La Corte non ritiene di poter asserire che le affermazioni del ricorrente fossero palesemente destituite di fondamento, tenuto conto, segnatamente, della differenza tra le firme da lui prodotte e quella che figura sulla cartolina di ricevimento, nonché della differenza esistente tra il nome del ricorrente (T.) e quello del firmatario (T.). Inoltre, le imprecisioni nell’indicazione dell’indirizzo del destinatario erano tali da sollevare dei seri dubbi circa il luogo nel quale la lettera era stata recapitata («On ne saurait considérer que les allègations du requérant étaient de prime abord dénuées de fondement, compte tenu, notamment, de la différence entre les signatures produites par le requérant et celle figurant sur l’accusé de réception, ainsi que de la différence existante entre le prénom du requérant [?] et celui du signataire [?]. De plus, les imprécisions dans l’indication de l’adresse du destinataire étaient de nature à soulever des doutes sérieux quant à l’endroit auquel la lettre avait été deliverée»).

E) L’autorità giudiziaria italiana ha respinto ogni ricorso interno senza prendere in esame l’elemento che, agli occhi della Corte, costituiva il nocciolo della questione, vale a dire la paternità della firma figurante sulla cartolina di ritorno. In particolare, non è stata disposta nessuna indagine per investigare la versione controversa e, malgrado le richieste reiterate dell’interessato, non è stata disposta nessuna perizia grafologica per confrontare le firme («Face aux allégations de l’intéressé, les juridictions italiennes ont rejeté tout recours interne et refusé de rouvrir le procès ou le délai pour interjeter appel sans examiner l’élément qui, aux yeux de la Cour, était au coeur de l’affaire, à savoir la paternité de la signature figurant sur l’accusé de réception. En particulier, aucune enquéte n’a été ordonnée pour vérifier le fait litigieux, et, malgré les demandes réitérées de l’intéressé, aucune expertise graphologique n’a été accomplie pour comparer les signatures»).

F) L’art. 6 della Convenzione implica per ogni giurisdizione nazionale l’obbligo di verificare se l’accusato abbia avuto la possibilità di avere conoscenza del procedimento a suo carico allorquando, come nel caso di specie, sorga su questo punto una contestazione che non appaia immediatamente e manifestamente infondata («[?] l’obligation de vérifier si l’accusé a eu la possibilité d’avoir connaissance des poursuites à son encontre lorsque, comme en l’espèce, surgit sur ce point une contestation qui n’apparait pas d’emblée manifestement dépourvue de sérieux»).

G) Nella presente vicenda processuale gli organi giudiziari interni non hanno proceduto a una siffatta verifica, privando il ricorrente della possibilità di rimediare, all’occorrenza, a una situazione contraria ai principi della Convenzione («[?] n’ont pas procédé à une telle vérification, privant le requérant de la possibilité de remédier, le cas échéant, à une situation contraire aux exigences de la Convention»).

Al termine delle argomentazioni sopra riportate, la Corte di Strasburgo precisava (§ 82) che nel caso di specie si era verificata una violazione al comma 1 dell’art 6 della Convenzione, nella misura in cui le autorità italiane non avevano preso le misure necessarie per assicurarsi che il diritto del ricorrente a partecipare al suo processo fosse stato rispettato. La qual cosa non implica necessariamente – tiene ad aggiungere la Corte – che la condanna del ricorrente fosse infondata nel merito («En l’espèce, la Cour a constaté une violation de l’article 6 § 1 de la Convention, dans la mesure où les autorités italiennes n’ont pas entamé les démarches nécessaires pour s’assurer que le droit du requérant à participer à son procès avait été respecté. Cette constatation n’implique pas nécessairement que la condamnation du requérant ait été mal fondée»).

Sottolineava infine la Corte di Strasburgo, (§ 86), richiamando la sua giurisprudenza consolidata (Piersack c/ Belgio, 26 ottobre 1984; Gençel c/ Turchia, 23 ottobre 2003; Tahir Duran c/ Turchia, 29 gennaio 2004), che, in caso di violazione dell’art. 6 comma 1 della Convenzione, è necessario mettere il ricorrente, il più possibile, in una situazione equivalente a quella nella quale egli si sarebbe trovato se tale disposizione non fosse stata violata («en cas de violation de l’article 6 § 1 de la Convention il faut placer le requérant, le plus possible, dans une situation équivalant à celle dans laquelle il se trouverait s’il n’y avait pas eu manquement aux exigences de cette disposition»). Ancor più esplicitamente, i giudici europei concludevano che, quando la Corte di Strasburgo accerta che la condanna di un ricorrente è stata pronunciata malgrado l’esistenza di un "potenziale attentato" al suo diritto di partecipare al suo processo, il rimedio più appropriato sarebbe, in linea di principio, quello di rinnovare il processo a carico dell’interessato ovvero di riaprire la procedura in tempo utile e nel rispetto delle condizioni previste dall’art. 6 della Convenzione («La Cour estime que lorsqùelle conclut que la condamnation d’un requérant a été prononcée malgré l’existence d’une atteinte potentielle à son droit à participer à son proces le redressement le plus approprié serait en principe de faire rejuger l’intéressé ou de rouvrir la procédure en temps utile et dans le respect des exigences de l’article 6 de la Convention»).

3. Dopo la decisione della Corte, di Strasburgo la difesa S., con atto depositato in cancelleria il 10 febbraio 2005, indirizzava alla Corte d’appello di Ancona istanza di revisione chiedendo la revoca della sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Rimini il 22 giugno 1999.

L’istanza prendeva le mosse dall’art. 46, comma 1, CEDU, il quale stabilisce la forza vincolante delle sentenze e delle decisioni emesse dalla Corte europea di Strasburgo. Su tale base la difesa chiedeva "il riesame del processo", ravvisando nell’istituto della revisione lo strumento idoneo per consentire al S. di ottenere quella restitutio in integrum che costituirebbe, secondo i giudici europei, il rimedio più appropriato ("le redressement le plus approprié") all’accertata violazione.

Con ordinanza 10 marzo 2005 la Corte d’appello di Ancona dichiarava inammissibile l’istanza di revisione argomentando che in realtà il rimedio idoneo, ai fini prospettati dal ricorrente, fosse non già l’istituto della revisione, bensì quello della remissione in termini di cui al secondo comma dell’art. 175 c.p.p., nella nuova formulazione introdotta una ventina di giorni prima dal decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17. L’ordinanza della Corte di Ancona verrà poi confermata dalla Corte di cassazione che, con provvedimento del 2 novembre 2005, dichiarerà inammissibile il ricorso proposto dalla difesa S., ribadendo che lo strumento normativo idoneo ai fini prospettati dal ricorrente fosse effettivamente il nuovo comma 2 dell’art. 175 c.p.p. modificato dal citato decreto legge (convertito poi nella legge 22 aprile 2005, n. 60) «proprio per garantire il diritto incondizionato alla impugnazione delle sentenze contumaciali [?] da parte delle persone condannate nei casi in cui esse non sono state informate in modo effettivo dell’esistenza di un procedimento a loro carico, così come richiesto allo Stato italiano [?] dalla Corte europea dei diritti dell’uomo».

4. Sulla base della nuova formulazione dell’art. 175 c.p.p. la difesa S., già nell’aprile del 2005, provvedeva a rivolgere alla Corte d’appello di Bologna istanza di restituzione nel termine al fine di impugnare la sentenza di condanna del Tribunale di Rimini, prospettando nuovamente tutte le argomentazioni già proposte negli atti precedenti e facendo leva sulla sentenza 18 maggio 2004 della Corte di Strasburgo. La richiesta di restituzione nel termine veniva dichiarata inammissibile dalla Corte d’appello di Bologna con l’ordinanza emessa in data 14 luglio 2005, provvedimento che costituisce l’oggetto del presente giudizio di legittimità. La Corte di Bologna motivava la propria ordinanza affermando che: A) sul punto della validità dell’avviso inviato all’imputato residente all’estero si è formato il giudicato; B) non è necessario compiere ulteriori verifiche oltre a quelle eseguite dal giudice d’appello, che hanno dimostrato non esserci dubbi sulla identità fisica della persona processata; C) il S. ha omesso di eleggere domicilio in Italia e si è volontariamente disinteressato del processo, per cui tutti gli atti successivi sono stati notificati regolarmente al difensore; D) l’istante non ha diritto alla restituzione nel termine per impugnare la sentenza di primo grado, perché il giudizio d’appello è già stato "consumato" dal difensore; E) la sentenza della Corte europea ha accordato un’equa soddisfazione alla parte lesa proprio perché il diritto interno dello Stato italiano non consente, di fronte a un giudicato, di rinnovare il giudizio.

5. Avverso l’ordinanza 14 luglio 2005 della Corte di appello di Bologna propone ricorso per cassazione S.T. deducendo violazione di legge e illogicità della motivazione. Il ricorrente ribadisce anzitutto come l’art. 46, comma 1, CEDU abbia stabilito la forza vincolante delle sentenze e delle decisioni emesse dalla Corte europea di Strasburgo

Il ricorrente prende poi atto che lo strumento giuridico più idoneo a consentire la restitutio in integrum prospettata dalla Corte Europea sarebbe quello della remissione in termini di cui alla nuova formulazione dell’art. 175 c.p.p.. Osserva, peraltro, che il decreto legge 17/2005 è entrato in vigore solo una decina di giorni dopo che S. aveva presentato la propria istanza di revisione alla Corte di Ancona ed afferma, quindi, che la stessa Corte di Ancona avrebbe dovuto rimettere l’istanza all’organo competente qualificandola come istanza di remissione in termini.

Afferma quindi il ricorrente che non possono essere condivise le argomentazioni sostenute dalla Corte di Bologna nell’ordinanza oggi impugnata, essendo tali argomentazioni drasticamente in contrasto con il principio stabilito dall’art. 46, comma 1, CEDU circa la forza vincolante delle sentenze emesse dalla Corte europea, principio che – sottolinea il ricorrente – è stato già confermato da alcune sentenze di questa Corte di cassazione.

6. Il ricorso è fondato.

7. La precettività in Italia delle norme della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, firmata a Roma il 4 novembre 1950 e resa esecutiva in Italia con la legge 4 agosto 1955, n. 848, è stata formalmente affermata da questa Corte di legittimità per la prima volta nel 1981 con una sentenza di questa Prima sezione penale. Il principio è poi divenuto giurisprudenza consolidata a seguito di una sentenza del 1988 delle Sezioni Unite penali: «Le norme della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, salvo quelle il cui contenuto sia da considerarsi così generico da non delineare specie sufficientemente puntualizzate, sono di immediata applicazione nel nostro Paese e vanno concretamente valutate nella loro incidenza sul più ampio complesso normativo che si è venuto a determinare in conseguenza del loro inserimento nell’ordinamento italiano. La "precettività" in Italia delle norme della Convenzione consegue dal principio di adattamento del diritto italiano al diritto internazionale convenzionale, per cui, ove l’atto o il fatto normativo internazionale contenga il modello di un atto interno completo nei suoi elementi essenziali, tale cioè da poter senz’altro creare obblighi e diritti, l’adozione interna del modello di origine internazionale è automatica (adattamento automatico), ove invece l’atto internazionale non contenga detto modello, le situazioni giuridiche interne da esso imposte abbisognano, per realizzarsi, di una specifica attività normativa dello Stato» (Cass., Sez. un., 23 novembre 1988, n. 15, dep. 8 maggio 1989, Polo Castro, CED-181288; conf.: Cass., Sez. I, 17 dicembre 1981, n. 6978, dep. 14 luglio 1982, Iaglietti, CED-154632).

Il principio ha poi trovato applicazioni specifiche in alcune sentenze successive di questa Corte di legittimità sia in sede penale (cfr., tra le altre, Cass., Sez. I, 12 maggio 1993, n. 2194, dep. 10 luglio 1993, Medrano, CED-195661, la quale ha affermato l’immediata operatività della regola di cui all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che tende a premunire l’individuo contro ingerenze arbitrarie da parte dei pubblici poteri), sia in sede civile (cfr., tra le altre, Cass., Sez. un., 10 luglio 1991, n. 7662, CED-473064, la quale ha stabilito che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo trova immediata applicazione, nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati, anche per quanto attiene alla pubblicità delle udienze, con conseguente abrogazione tacita della norma interna che prevedeva la discussione sulle incolpazioni "a porte chiuse").

La precettività delle norme della Convenzione è stata altresì ribadita dalla Corte Costituzionale con la sentenza 10/1993, la quale ha affermato che, trattandosi di "norme derivanti da una fonte riconducibile a una competenza atipica" che sono state introdotte nell’ordinamento italiano "con la forza di legge propria degli atti contenenti i relativi ordini di esecuzione", esse sono "insuscettibili di abrogazione o di modificazione da parte di disposizioni di legge ordinaria".

Giustamente, del resto, è stato osservato in dottrina che la stessa legge delega per il nuovo c.p.p. prescriveva che il legislatore dovesse "adeguarsi alle norme delle convenzioni internazionali ratificate dall’Italia e relative ai diritti della persona e al processo penale". Il che comporta che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo costituisce parametro ermeneutico ineludibile nell’interpretazione delle disposizioni di diritto interno.

8. Molto più faticosamente, e solo in tempi molto più recenti, ha cominciato a farsi strada il principio secondo cui il giudice nazionale italiano, in materia di diritti dell’uomo, è tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte europea di Strasburgo (ancorché la "forza vincolante" delle sentenze fosse stata già da tempo espressamente stabilita dall’art. 46 della Convenzione),

Questo principio, per il momento, è stato definitivamente affermato dalle Sezioni unite civili di questa Corte con riferimento specifico alla legge 24 maggio 2001, n. 89, il cui art. 2 stabilisce quanto segue: «Chi ha subito un danno patrimoniale o non patrimoniale per effetto di violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art. 6, paragrafo 1, della Convenzione, ha diritto ad una equa riparazione».

Si tratta di quattro sentenze tutte emesse in data 26 gennaio 2004 (nn. 1338, 1339, 1340 e 1341) e di una quinta sentenza emessa in data 23 dicembre 2005 (n. 28507).

La sentenza 1338/2004 (Balsini c/ ministero Giustizia, CED-569675) può essere assunta come documento pilota, ragion per cui sembra opportuno riportarne i passaggi fondamentali:

«Come chiaramente si desume dall’art. 2, comma 1, della detta legge [n. 89/2001], il fatto giuridico che fa sorgere il diritto all’equa riparazione da essa prevista è costituito dalla "violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, ratificata ai sensi della legge 4 agosto 1955, n. 848, sotto il profilo del mancato rispetto del termine ragionevole di cui all’art 6, paragrafo 1, della Convenzione». La legge n. 89/2001, cioè, identifica il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo per relationem, riferendosi ad una specifica norma della CEDU. Questa Convenzione ha istituito un giudice (Corte europea dei diritti dell’uomo, con sede a Strasburgo) per il rispetto delle disposizioni in essa contenute (art. 19), onde non può che riconoscersi a detto giudice il potere di individuare il significato di dette disposizioni e perciò di interpretarle. Poiché il fatto costitutivo del diritto attribuito dalla legge 89/2001 consiste in una determinata violazione della CEDU, spetta al Giudice della CEDU individuare tutti gli elementi di tale fatto giuridico, che pertanto finisce con l’essere "conformato" dalla Corte di Strasburgo, la cui giurisprudenza si impone, per quanto attiene all’applicazione della legge n. 89/2001, ai giudici italiani. [?] [L]’applicazione diretta nell’ordinamento italiano di una norma della CEDU, sancita dalla legge n. 89/2001 (cioè dell’art. 6, par. 1, nella parte relativa al "termine ragionevole"), non può discostarsi dall’interpretazione che della stessa norma dà il giudice europeo. L’opposta tesi, diretta a consentire una sostanziale diversità tra l’applicazione che la legge n. 89/2001 riceve nell’ordinamento nazionale e l’interpretazione data dalla Corte di Strasburgo al diritto alla ragionevole durata del processo, renderebbe priva di giustificazione la detta legge n. 89/2001 e comporterebbe per lo Stato italiano la violazione dell’art. 1 della CEDU, secondo cui "le Parti Contraenti riconoscono ad ogni persona soggetta alla loro giurisdizione i diritti e le libertà definiti al titolo primo della presente Convenzione" (in cui è compreso il citato art. 6, che prevede il diritto alla definizione del processo entro un termine ragionevole). Le ragioni che hanno determinato l’approvazione della legge n. 89/2001 si individuano nella necessità di prevedere un rimedio giurisdizionale interno contro le violazioni relative alla durata dei processi, in modo da realizzare la sussidiarietà dell’intervento della Corte di Strasburgo, sancita espressamente dalla CEDU (art. 35: "la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne"). Sul detto principio di sussidiarietà si fonda il sistema europeo di protezione dei diritti dell’uomo. Da esso deriva il dovere degli Stati che hanno ratificato la CEDU di garantire agli individui la protezione dei diritti riconosciuti dalla CEDU innanzitutto nel proprio ordinamento interno e di fronte agli organi della giustizia nazionale.

Questo principio di diritto è stato ulteriormente sviluppato dalle stesse Sezioni unite con la sentenza n. 28507 del 23 dicembre 2005 (Centurione Scotto c/ Presidenza del consiglio dei ministri, CED-586701), che dichiara definitivamente superato l’orientamento secondo cui la fonte del riconoscimento del diritto all’equa riparazione deve essere ravvisata nella sola normativa nazionale, ed afferma che «il fatto costitutivo del diritto all’indennizzo attribuito dalla legge nazionale coincide con la violazione della norma contenuta nell’art. 6 della Convenzione, di immediata rilevanza nel diritto interno». In altri termini, questa sentenza chiarisce ulteriormente che la fattispecie prevista dalla norma interna (art. 2 della legge n. 89/2001) va considerata «non già costitutiva del diritto all’equa riparazione bensì unicamente istitutiva della via di ricorso interno, prima inesistente, diretta ad assicurare una tutela pronta ed efficace alla vittima della violazione del canone di ragionevole durata del processo in attuazione del disposto dell’art. 13 della Convenzione, il quale stabilisce il diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale». E i giudici del supremo consesso non mancano di sottolineare che «la tutela assicurata dal giudice nazionale non si discosta da quella precedentemente offerta dalla Corte di Strasburgo, alla cui giurisprudenza è tenuto a conformarsi il giudice nazionale».

9. Al fine di meglio inquadrare le problematiche sottese dall’art. 46 della CEDU ("Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze") è opportuno sottolineare che già con l’entrata in vigore del Protocollo n. 11 alla Convenzione, fatto a Strasburgo l’11 maggio 1994 e ratificato dall’Italia il 1° ottobre 1997 a seguito della legge di ratifica del 28 agosto 1997, n. 296, era stata prevista la creazione di una Corte Unica (con scomparsa della Commissione Europea e con eliminazione della competenza decisionale del Comitato dei Ministri) e si era proceduto alla ristrutturazione dell’originario meccanismo di controllo, realizzando così la piena giurisdizionalizzazione anche a livello sovranazionale dei diritti fondamentali. Ciò non poteva non comportare una certa limitazione di sovranità per gli Stati contraenti, riconducibile a un obbligo giuridico di conformarsi alle decisioni della Corte di Strasburgo.

A questa evoluzione della struttura e dei meccanismi di controllo aveva corrisposto analoga evoluzione della incisività della tutela e dell’individuazione dei rimedi, tant’è che le sentenze della Corte europea relative a violazioni dell’art. 6 CEDU sono passate da una generica condanna dello Stato soccombente al pagamento di una somma di denaro a titolo di equa soddisfazione (a norma dell’art. 41 CEDU) all’esplicita richiesta di una integrale "restitutio in integrum" – considerata come precisa obbligazione dello Stato inadempiente – realizzabile attraverso una nuova celebrazione del processo. Ed è precisamente questo ciò che è avvenuto con la sentenza emessa dalla Corte di Strasburgo il 18 maggio 2004 relativamente alla vicenda processuale dell’attuale ricorrente.

A quest’ultimo proposito, è il caso di sgomberare subito il campo da un evidente equivoco in cui cade l’ordinanza impugnata, laddove essa afferma che la Corte di Strasburgo avrebbe accordato "un’equa soddisfazione" al ricorrente S. perché il diritto interno italiano non consentirebbe di rimuovere le conseguenze della violazione e di rinnovare il giudizio. Questa affermazione non trova alcun riscontro nel testo della sentenza della Corte europea, la quale si è limitata a condannare lo Stato italiano al pagamento delle sole spese di lite (Euro 4.500), avendo espressamente precisato di non potersi esprimere in merito all’equo indennizzo richiesto dal S. per la detenzione da lui subita, non avendo la Corte potuto constatare che la privazione di libertà avesse costituito violazione della Convenzione, e non avendo essa potuto rilevare, allo stato degli atti, se la condanna del S. fosse stata giusta o ingiusta (§§ 82,84 e 89). Proprio per tale motivo la Corte di Strasburgo ha al contempo ritenuto che la riapertura del processo in Italia fosse l’unico strumento idoneo per poter rimediare alla rilevata violazione dell’art. 6 CEDU.

10. L’art. 46 della Convenzione, già nella formulazione di cui al Protocollo n. 11, stabilisce una precisa "obbligazione giuridica", per gli Stati contraenti, di conformarsi – sotto il controllo del Comitato dei Ministri – alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti. Tale obbligazione giuridica è stata successivamente resa ben più vincolante a seguito del Protocollo n. 14 alla Convenzione firmato a Strasburgo il 13 maggio 2004, il quale ha modificato l’art. 46 citato al fine di rendere ancor più effettiva l’esecuzione delle sentenze della Corte. Tale articolo, il cui titolo rimane invariato ("Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze") è ora composto dai seguenti cinque commi:

1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alla sentenza definitiva della Corte per le controversie di cui sono parti.

2. La sentenza definitiva della Corte viene trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione.

3. Se il Comitato dei Ministri ritiene che il controllo dell’esecuzione di una sentenza definitiva sia ostacolato da una difficoltà d’interpretazione di tale sentenza, può adire la Corte affinché essa si pronunci su tale questione d’interpretazione. La decisione di adire la Corte è presa a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto a sedere nel Comitato.

4. Se il Comitato dei Ministri ritiene che un’Alta Parte contraente rifiuti di conformarsi a una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, può, dopo aver ammonito detta Parte, deferire alla Corte, con decisione presa a maggioranza dei due terzi dei rappresentanti aventi diritto di sedere nel Comitato, la questione del rispetto da parte di tale Stato membro dell’obbligo di cui al paragrafo 1.

5. Se la Corte accerta una violazione del paragrafo 1, rinvia la causa al Comitato dei Ministri affinché esamini le misure da adottare. Se la Corte accerta che non vi è stata una violazione del paragrafo 1, rinvia la causa al Comitato dei Ministri, il quale dichiara concluso il suo esame.

ÿ di tutta evidenza che la nuova formulazione della norma prevede un meccanismo di infrazione che potrà costituire un’ulteriore pressione per l’esecuzione delle sentenze, dal momento che, quando lo Stato rifiuti di conformarsi a una sentenza definitiva in una controversia di cui è parte, il Comitato dei Ministri può avviare davanti alla Corte europea una procedura di infrazione onde sia la stessa Corte ad accertare la violazione e a rinviare il caso al Comitato dei Ministri "affinché esamini le misure da adottare".

Ebbene, questo meccanismo è stato accettato senza riserve dall’Italia, che ha ratificato il Protocollo n. 14 in data 7 marzo 2006 come da legge di ratifica del 15 dicembre 2005, n. 280. Il Protocollo non è ancora entrato in vigore, perché mancano ancora le ratifiche di quattro Stati su 46, tuttavia la ratifica senza riserve da parte dell’Italia di una norma pattizia di tale portata è chiaramente indicativa di una precisa volontà del legislatore di questo Paese di accettare incondizionatamente la forza vincolante delle sentenze della Corte di Strasburgo. La qual cosa non può che confortare l’indirizzo giurisprudenziale che sta facendosi strada, nel senso di un preciso obbligo giuridico del giudice nazionale italiano, in materia di diritti dell’uomo, a conformarsi alla giurisprudenza di quella Corte.

In un certo senso si potrebbe dire che l’auspicio, formulato da una parte della dottrina, che venga varato "uno strumento che, a livello nazionale, consenta, anzi imponga l’uniformarsi a una decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo" è stato realizzato proprio con l’approvazione della legge di ratifica del Protocollo n. 14, legge che, entrata in vigore il 6 gennaio 2006, prevede all’art. 2 che venga data "piena ed intera esecuzione" a tale Protocollo.

Tanto più che la volontà del legislatore italiano nel senso suddetto è ulteriormente confermata dall’approvazione di un altro recentissimo e assai rilevante testo di legge: si tratta della legge 9 gennaio 2006, n. 12 ("Disposizioni in materia di esecuzione delle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo"), la quale aggiunge una disposizione ad hoc all’interno della legge 23 agosto 1988, n. 400 ("Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei Ministri"), inserendo nell’art. 5, relativo alle attribuzioni del Presidente del Consiglio dei Ministri, la lettera a-bis) del comma 3, in virtù della quale il Presidente del Consiglio «promuove gli adempimenti di competenza governativa conseguenti alle pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo emanate nei confronti dello Stato italiano; comunica tempestivamente alle Camere le medesime pronunce ai fini dell’esame da parte delle competenti Commissioni parlamentari permanenti e presenta annualmente al Parlamento una relazione sullo stato di esecuzione delle suddette pronunce».

11. In base alle argomentazioni sin qui svolte si deve ritenere che i precisi obblighi nascenti dalla Convenzione, e recepiti dalla più recente normativa interna, portino necessariamente a concludere che, in materia di violazione dei diritti umani (e in particolare in presenza di gravi violazioni dei diritti della difesa), il giudice nazionale italiano sia tenuto a conformarsi alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, anche se ciò comporta la necessità di mettere in discussione, attraverso il riesame o la riapertura dei procedimenti penali, l’intangibilità del giudicato.

Non si può condividere, pertanto, quanto si legge nell’ordinanza impugnata, laddove, disattendendo radicalmente la sentenza S. emessa dalla Corte europea, si nega che si possa rimettere in discussione la regolarità dell’avviso inviato all’imputato residente all’estero, "poiché su questo punto si è formato il giudicato". e si nega che vi sia necessità di compiere perizie grafiche o comunque ulteriori verifiche, "dal momento che tali verifiche vennero eseguite con la massima attenzione dal giudice d’appello".

A questo proposito, va invece decisamente affermato che, una volta accertata da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo la violazione dei principi sanciti dall’art. 6 della CEDU, con il conseguente riconoscimento del carattere non equo del processo celebrato in absentia, la richiesta di restitutio in integrum (nel caso di specie, di restituzione nel termine ai sensi del novellato art. 175, comma 2, .p.p.) non può essere rigettata semplicemente affermando che l’autorità del giudicato, formatosi precedentemente alla predetta decisione, precluderebbe di rimettere in discussione le questioni relative alla validità della notificazione dell’avviso di udienza e alla ritualità della dichiarazione di contumacia. Al contrario, si deve ritenere che la richiesta di restitutio in integrum (avanzata dopo l’accoglimento del ricorso alla Corte europea e dopo che quest’ultima ha riconosciuto il diritto a tale restitutio) tragga origine e legittimazione, anzitutto, dalla violazione dell’art. 6 CEDU riconosciuta dalla sentenza della Corte medesima, di immediata precettività nell’ordinamento interno. Fermo restando che, sul punto, la decisione di detta Corte non potrà essere disattesa, dal giudice chiamato a verificare l’esistenza del diritto al nuovo processo, con argomenti contrastanti con la pronuncia che ha accertato quella violazione (in altri termini, non spetterà al giudice nazionale rimettere in discussione l’accertamento della violazione stessa).

Va detto, del resto, che l’argomento speso nell’ordinanza impugnata, secondo cui l’autorità del giudicato nazionale renderebbe inaccoglibile la richiesta di restitutio in integrum, è un argomento inconferente. Infatti, il comma 1 dell’art. 35 della Convenzione stabilisce che «la Corte non può essere adita se non dopo l’esaurimento delle vie di ricorso interne, quale è inteso secondo i principi di diritto internazionale generalmente riconosciuti ed entro un periodo di sei mesi a partire dalla data della decisione interna definitiva». Il che significa che qualsiasi sentenza della Corte di Strasburgo che accerti una violazione dell’art. 6 CEDU posta in essere dall’autorità giudiziaria nazionale verrà sempre, inevitabilmente, fisiologicamente (e quindi "istituzionalmente") a collidere con un giudicato nazionale. Ed è appena il caso di aggiungere che il principio di intangibilità del giudicato, nel nostro ordinamento giuridico, non è poi così assoluto (basti pensare all’istituto della revisione ovvero al più recente istituto del ricorso straordinario ex art. 625-bis c.p.p.).

Pertanto, sulla base di quanto sin qui argomentato, questa corte di legittimità ritiene di dover formulare il seguente principio di diritto: «nel pronunciare su una richiesta di restituzione nel termine per appellare proposta da un condannato dopo che il suo ricorso è stato accolto dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, il giudice è tenuto a conformarsi alla decisione di detta Corte, con cui è stato riconosciuto che il processo celebrato "in absentia" è stato non equo: di talché il diritto al nuovo processo non può essere negato escludendo la violazione dell’art. 6 della Convenzione europea, ratificata con legge 4 agosto 1955, n. 848, né invocando l’autorità del pregresso giudicato formatosi in ordine alla ritualità del giudizio contumaciale in base alla normativa del codice di procedura penale».

12. Si passerà ora ad esaminare le ulteriori argomentazioni sulla cui base la Corte d’appello di Bologna, nell’ordinanza oggi impugnata, ha dichiarato inammissibile la richiesta di restituzione nel termine per impugnare la sentenza emessa dal Tribunale di Rimini in data 22 giugno 1999, richiesta avanzata ai sensi dell’art. 175, comma 2, c.p.p., così come novellato dal decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17, convertito nella legge 22 aprile 2005, n. 60.

Va detto che nessuna questione è stata sollevata, né potrebbe essere sollevata, circa l’osservanza, da parte del ricorrente, del termine di trenta giorni previsto dal comma 2-bis dello stesso art. 175 c.p.p. per la presentazione di tale richiesta, termine che per il ricorrente scadeva trenta giorni dopo l’entrata in vigore del decreto legge, vale a dire il 24 marzo 2005. Correttamente, infatti, rileva il ricorrente che il decreto legge n. 17/2005 (che ha modificato l’art. 175) è entrato in vigore una decina di giorni dopo che il S. aveva presentato la propria istanza di revisione alla Corte di Ancona. Ed aggiunge che, «proprio in considerazione della successiva emanazione della legge e sulla base dei principi della successione delle leggi nel tempo, della conservazione degli atti e del favor rei che muovono e sorreggono il giudizio penale», avrebbe dovuto la Corte di Ancona rimettere l’istanza alla Corte di Bologna qualificandola come istanza di remissione in termini ai sensi della nuova normativa, «stante la tutela che, prescindendo dal nomen iuris, il ricorrente ha inteso promuovere, ovvero la celebrazione di un giusto processo con la riapertura necessaria dello stesso». Nulla impedisce, pertanto, di riqualificare l’istanza di revisione avanzata dal ricorrente in data 10 febbraio 2005 come istanza di restituzione nel termine per impugnare, a far tempo dal 23 febbraio 2005, data di entrata in vigore del decreto legge 17/2005 (cfr. Cass., Sez. I, 2 febbraio 2006, n. 7403, dep. 1° marzo 2006, Russo, CED-233137).

Del resto, è appena il caso di rammentare che, nell’esame di una censura di violazione di norme processuali, la Corte di Cassazione è giudice anche del fatto e, ai fini dell’accertamento dell’error in procedendo, può accedere all’esame diretto dei relativi atti processuali (Cass., Sez. un., 31 ottobre 2001, n. 42792, dep. 28 novembre 2001, Policastro, CED-220092). Pertanto questa Corte di legittimità può e deve essa stessa procedere direttamente a qualificare quella richiesta di revisione come richiesta di restituzione nel termine interpretando il contenuto della domanda, il cui effettivo oggetto è costituito dall’istanza di un nuovo giudizio.

Ciò detto, l’ordinanza impugnata merita censura laddove sostiene che il ricorrente non avrebbe diritto di ottenere la restituzione nel termine per impugnare la sentenza di primo grado, perché "il giudizio d’appello" sarebbe "già stato ‘consumatò dal difensore" e perché si sarebbe "formato il giudicato con la conferma della sentenza di secondo grado da parte della Corte suprema".

Ciò è errato in punto di diritto, dal momento che il giudicato, come risulta correttamente dal certificato penale in atti, è costituito esclusivamente dalla sentenza 22 giugno 1999 del Tribunale di Rimini, divenuta irrevocabile il 16 ottobre 1999, in quanto non appellata nei termini di legge né dall’imputato né dal difensore d’ufficio che all’epoca lo assisteva. L’appello tardivo, successivamente proposto dal difensore di fiducia nel novembre 2000, è stato dichiarato inammissibile (appunto perché tardivo) dalla sentenza 24 maggio 2001 della Corte bolognese e il successivo ricorso per cassazione è stato rigettato con sentenza 23 aprile 2002. Ma ciò non significa affatto che il giudicato si sia "spostato" dalla data del 16 ottobre 1999 alla data del 23 aprile 2002. In realtà non vi è stato un "giudizio d’appello" con conseguente passaggio in giudicato della relativa sentenza, ma vi è stata soltanto una delibera di inammissibilità (poi confermata dalla Corte di cassazione) circa un atto d’appello proposto tardivamente. In altre parole, la sentenza 24 maggio 2001 della Corte bolognese si è limitata a dichiarare la tardività, e quindi l’inammissibilità, dell’atto d’appello (sulla base della normativa vigente a quel tempo e prima che intervenisse la sentenza della Corte di Strasburgo circa la violazione dell’art. 6 CEDU), senza in nulla modificare la posizione giuridica del S., che era e rimaneva condannato con sentenza 22 giugno 1999 del Tribunale di Rimini, divenuta irrevocabile il 16 ottobre 1999.

Da ciò consegue che del tutto illogicamente l’ordinanza impugnata argomenta che la sentenza 24 maggio 2001 della Corte d’appello di Bologna e la sentenza 23 aprile 2002 della Corte di cassazione costituirebbero un ostacolo insormontabile all’accoglimento della richiesta di restituzione nel termine avanzata dal ricorrente nel 2005, dopo la sentenza pronunciata sul caso S. dalla Corte di Strasburgo e dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 175 c.p.p. A ben vedere, non avrebbe molto senso neppure chiedersi se l’eventuale accoglimento della richiesta di restituzione nel termine, nel caso che ne occupa, debba comportare la revoca o la perdita di efficacia delle due predette sentenze: infatti, proprio perché esse non hanno comportato alcuna modifica nella posizione giuridica del S. e non hanno conseguenze giuridiche che si riflettano nell’attualità, deve ritenersi che sarebbe superfluo disporne una revoca esplicita.

13. Che il nuovo art. 175 c.p.p. costituisca, nel caso di specie, strumento idoneo per consentire quella restitutio in integrum invocata dalla Corte di Strasburgo non può essere seriamente revocato in dubbio, sol che ci si soffermi sul tenore della Relazione che accompagna il disegno di legge per la conversione del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17. Nel documento, non a caso richiamato dal ricorrente, si afferma la necessità della modifica normativa al fine di adeguare il nostro ordinamento alla giurisprudenza della Corte europea, citando espressamente, tra l’altro, proprio il caso "S. contro l’Italia" concluso con la sentenza 18 maggio 2004.

L’attuale formulazione dell’art. 175, comma 2, c.p.p. stabilisce che, «se è stata pronunciata sentenza contumaciale [?], l’imputato è restituito, a sua richiesta, nel termine per proporre impugnazione [?], salvo che lo stesso abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento [?] e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione [?]. A tale fine l’autorità giudiziaria compie ogni necessaria verifica».

Nel caso di specie, per le ragioni e le argomentazioni ampiamente sviluppate nei paragrafi precedenti, è d’uopo attenersi alle conclusioni raggiunte dalla Corte di Strasburgo nel caso S., e convenire che dagli atti non è dato desumere alcun elemento in base al quale si possa ritenere che il S. abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento e abbia volontariamente rinunciato a comparire ovvero a proporre impugnazione.

In particolare, non può che considerarsi arbitraria l’affermazione contenuta nell’ordinanza impugnata, secondo la quale S.T. avrebbe avuto "tempestiva notizia del procedimento a suo carico" e avrebbe volontariamente "omesso di dichiarare o eleggere domicilio nello Stato italiano" dal momento che tale affermazione contrasta radicalmente con le conclusioni raggiunte dalla Corte di Strasburgo nella sentenza 18 maggio 2004 sulla cui precettività ci si è già abbondantemente soffermati nei paragrafi precedenti.

Si sostiene ancora nell’ordinanza impugnata che la notifica dell’estratto contumaciale della sentenza 22 giugno 1999 del Tribunale di Rimini, ex art. 169 c.p.p., a mani del difensore (d’ufficio) del S. avrebbe potuto consentire al ricorrente la conoscenza del provvedimento e quindi l’impugnativa dello stesso. Anche questa argomentazione non merita di essere condivisa, ma essa richiede, tuttavia, un certo approfondimento.

14. Osserva il Collegio che la occasio legis ed i "considerata" costituenti la premessa del decreto legge 21 febbraio 2005, n. 17 costituiscono elementi fondamentali per la interpretazione della disposizione, la quale è stata emanata a causa della urgenza di adeguare il nuovo regime di impugnazione tardiva dei provvedimenti contumaciali ai principi di cui all’art. 6 CEDU e, conseguentemente, di introdurre anche nuove disposizioni in materia di notificazione e di elezione di domicilio.

In tale ambito il legislatore ha introdotto anzitutto un allargamento delle ipotesi in cui è ammessa l’impugnazione tardiva della sentenza contumaciale, sostituendo alla prova della non conoscenza del procedimento – che in precedenza doveva essere fornita dal condannato – una sorta di presunzione juris tantum di non conoscenza, ponendo a carico del giudice l’onere di reperire negli atti l’eventuale prova in contrario e, più in generale, l’onere di effettuare tutte le verifiche occorrenti al fine di accertare se il condannato avesse avuto effettiva conoscenza del procedimento e avesse volontariamente rinunciato a comparire.

Inoltre il legislatore – al fine dichiarato di garantire la ragionevole durata del processo e quindi di accelerare i tempi di notifica degli atti – ha introdotto la notificazione obbligatoria presso il difensore di fiducia di tutti gli atti, destinati personalmente all’imputato, successivi alla nomina di tale difensore, anche se l’imputato non abbia eletto domicilio presso lo stesso, salvo che il difensore di fiducia non dichiari immediatamente all’autorità che procede di non accettare la notificazione. Ciò è stato stabilito introducendo il nuovo comma 8-bis nell’art. 157 c.p.p. L’allargamento delle ipotesi di notifica presso il difensore di fiducia anche indipendentemente dalla elezione di domicilio assume il significato di attribuire a tale difensore un preciso onere – già sussistente in base alla normativa pregressa ed in particolare agli obblighi di deontologia professionale – di portare effettivamente a conoscenza dell’assistito tutti gli atti processuali che lo riguardano, salva la possibilità di comunicare la non accettazione delle notificazioni.

Tutto ciò comporta che, sulla base di una presunzione juris tantum (vale a dire in assenza di una seria prova contraria, il cui onere grava ovviamente sull’interessato), la notificazione presso il difensore di fiducia è equiparabile, ai fini della conoscenza effettiva dell’atto, alla notifica fatta personalmente all’imputato: infatti, da un lato, rientra negli obblighi di deontologia professionale del difensore la consegna dell’atto al proprio assistito (ovvero di comunicare tempestivamente all’autorità giudiziaria la non accettazione per impossibilità di consegnare gli atti al destinatario); d’altro lato, è onere dell’imputato mantenersi in contatto con il proprio difensore di fiducia onde mantenersi al corrente degli sviluppi del procedimento.

Sennonché, nel caso di specie, la Corte d’appello di Bologna ha affermato la ritualità della notifica dell’estratto contumaciale della sentenza di condanna del S. effettuata ex art. 169 c.p.p. al difensore d’ufficio. Ebbene, questa tesi si pone in contrasto con la lettera e lo spirito della nuova normativa, la quale esige (perché si possa negare la restituzione nel termine prevista dall’art. 175, comma 2, c.p.p.) che il giudice abbia accertato la sussistenza della prova di una pregressa conoscenza effettiva del procedimento e del provvedimento da parte dell’interessato. In mancanza di tale prova la richiesta di restituzione nel termine non può essere respinta. Nel caso di specie, non appare ragionevole desumere una conoscenza effettiva, in capo al S., dell’estratto contumaciale notificato al difensore di ufficio ex art. 169 c.p.p., poiché nulla induce a ritenere né che il difensore di ufficio fosse in grado di mettersi in contatto con il suo assistito, né che il S. potesse avere contezza dell’identità di tale difensore e della stessa pendenza del procedimento.

Del resto, la nuova formulazione dell’art. 175, comma 2, c.p.p. va letta congiuntamente alla nuova norma di cui all’art. 157, comma 8-bis, c.p.p. Quest’ultima norma, come si è visto, comporta che la notificazione presso il difensore di fiducia sia equiparabile, ai fini della conoscenza effettiva dell’atto (e in base alla predetta presunzione juris tantum), alla notifica all’imputato personalmente. Ebbene, questa equiparazione, lungi dal ridursi a una mera fictio juris, è ampiamente giustificata dalla natura e dalla sostanza del rapporto professionale che intercorre tra l’avvocato difensore nominato di fiducia dall’imputato e l’imputato stesso, il quale, proprio nel momento in cui dà il mandato al professionista nel quadro di uno specifico procedimento penale, dimostra (o conferma) di essere effettivamente a conoscenza di tale procedimento (e ciò anche nel caso in cui egli risulti formalmente irreperibile all’autorità giudiziaria o, addirittura, sia dichiarato latitante dalla medesima). ÿ pertanto del tutto ragionevole presumere che, anche successivamente alla nomina, il perdurante rapporto professionale intercorrente tra l’imputato e il suo difensore di fiducia continuerà a consentire al primo di mantenersi informato sugli sviluppi del procedimento e di concordare con il difensore le scelte difensive ritenute più idonee (salva la possibilità di vincere tale presunzione attraverso un’idonea prova in contrario). Con la conseguenza che potrà ritenersi dimostrata la conoscenza effettiva, da parte dell’imputato, degli atti notificati a mani del difensore di fiducia a norma dell’art. 161, comma 4, c.p.p., 169 ovvero – in caso di latitanza – a norma dell’art. 165 c.p.p. E con la conseguenza ulteriore che la richiesta di restituzione nel termine avanzata ex art. 175, comma 2, c.p.p. dovrà essere, in quel caso (e in assenza di quella prova contraria), respinta (dovendosi altresì ritenere, relativamente all’imputato latitante, che la scelta della latitanza equivalga, in quel caso, a volontaria rinuncia a comparire).

In altri termini il legislatore, con la novella legislativa, oltre a introdurre un’esigenza di "conoscenza effettiva" ai fini dell’art. 175, comma 2, c.p.p., ha scelto di privilegiare il ruolo del difensore di fiducia accentuandone ulteriormente la valenza (rispetto alla difesa d’ufficio) e riconoscendo al relativo rapporto professionale ("fiduciario" nel senso più rigoroso del termine) un inedito rilievo specifico e concreto (nei limiti di cui sopra) sotto il profilo del soddisfacimento reale di tale esigenza di "conoscenza effettiva".

Tuttavia, operando tale scelta, il legislatore ha finito con il riconoscere implicitamente l’intrinseca debolezza delle cosiddette "presunzioni di conoscenza" legate alle notificazioni effettuate a norma degli artt. 161, comma 4, 169 e 165 c.p.p. a mani di un difensore nominato di ufficio all’imputato processato in contumacia in quanto irreperibile o latitante. Si deve pertanto concludere che tali notificazioni al difensore d’ufficio siano, di per sé, inidonee a dimostrare la "effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento" in capo all’imputato (a meno che, nel caso specifico, la conoscenza non emerga aliunde, ovvero non si dimostri che il difensore d’ufficio è riuscito a rintracciare il proprio assistito e a instaurare un effettivo rapporto professionale con lui, il che non è nel caso di specie) (Si veda, in questi termini, Cass., Sez. I, 6 aprile 2006, n. 16002, dep. 10 maggio 2006, Latovic, CED-233615; Id., 7 febbraio 2006, n. 8232, dep. 8 marzo 2006, Zine Ei, CED-233417; Id., 18 gennaio 2006, n. 3998, dep. 1° febbraio 2006, Velinov, CED-233351).

Si deve pertanto concludere che l’ordinanza impugnata debba essere annullata senza rinvio e che S.T. debba essere restituito nel termine per proporre appello avverso la sentenza di condanna pronunciata a suo carico dal Tribunale di Rimini.

P.Q.M.

Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata e restituisce il ricorrente nel termine per proporre appello avverso la sentenza 22 giugno 1999 del Tribunale di Rimini. Dispone la trasmissione degli atti alla Corte d’appello di Bologna per il giudizio di secondo grado.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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