Cass. pen., sez. III 29-09-2006 (07-06-2006), n. 32542 BELLEZZE NATURALI – Zone di rimboschimento – Tutela – Condizionata alla esistenza dei requisiti di bosco

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 7 gennaio 2003 il giudice del tribunale di Teramo dichiarò D? N? F? colpevole del reato di cui agli artt. 146, lett. c) e g), 151 e 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, in relazione agli artt. 2, comma 6, e 4, commi 1 e 2, d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, per avere, quale proprietario, proceduto all’aratura di un terreno di circa 5.000 mq. precedentemente rimboschito con piantine di roverella in esecuzione di un progetto ripristino cava, provocando l’estirpazione completa delle essenze e così effettuando la trasformazione della destinazione d’uso del suolo in zona sottoposta a vincolo paesaggistico senza autorizzazione, e lo condannò alla pena di mesi uno e giorni 15 di arresto ed ? 5.000,00 di ammenda, con i doppi benefici e la condanna al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile comune di Campli.

La corte d’appello de L’Aquila, con la sentenza in epigrafe, confermò la sentenza di primo grado.

L’ imputato propone ricorso per cassazione deducendo:

a) mancanza della motivazione per non avere la corte d’appello esaminato la questione riguardante l’applicazione al caso di specie degli artt. 26 r.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267 e 1 legge 9 ottobre 1967, n. 950;

b) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale non avendo la corte d’appello applicato al caso di specie gli artt. 26 e 54 r.d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267 e 1 legge 9 ottobre 1967, n. 950, che per le infrazioni alle prescrizioni concernenti i terreni rimboschiti (come nella specie) prevedono la sanzione amministrativa;

c) inosservanza ed erronea applicazione dell’art. 146, lett. c) e g) d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490; insussistenza del vincolo paesaggistico; difetto di motivazione per non avere la corte d’appello giustificato la riconducibilità della fattispecie sub art. 146, lett. g) d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490. Lamenta che la corte d’appello, dopo aver omesso qualsiasi esame sulla presunta violazione dell’art. 146, lett. c), cit., si è limitata ad affermare che la fattispecie rientra certamente tra quelle previste dalla lett. g), ma senza fornire sul punto alcuna motivazione. Nella specie, infatti, le piccole piantine di roverella, alte non più di 20 cm., e del costo di 200 lire ciascuna, non potevano integrare concetto di bosco, sia ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, sia ai sensi degli artt. 423 e 425 cod. pen.;

d) inosservanza ed erronea applicazione della legge penale non avendo la corte d’appello esaminato la sussistenza dei requisiti di cui all’art. 2 d.lgs. 227/2001, che trovavano applicazione non avendo la regione Abruzzo definito normativamente la nozione di bosco;

e) mancanza o manifesta illogicità della motivazione; travisamento del fatto per non avere la corte d’appello considerato che l’estirpazione delle piantine era stata determinata da un gregge di pecore e non dalle operazioni di aratura del terreno su cui le piantine insistevano; violazione dell’art. 42 cod. pen. in ordine alla affermazione di responsabilità non sussistendo lo elemento psicologico del reato.

Motivi della decisione

Va preliminarmente osservato che il ricorso non può ritenersi manifestamente infondato ed è quindi ammissibile, con la conseguenza che il rapporto processuale di impugnazione in questo grado si è validamente instaurato e che questa Corte può quindi rilevare e dichiarare le cause di estinzione del reato verificatesi successivamente alla pronuncia della sentenza impugnata.

Nella specie il reato è stato contestato come commesso il 17 settembre 2001 e si è pertanto prescritto (in mancanza di sospensioni) il 17 marzo 2006.

Poiché dagli atti non emergono in modo evidente cause di proscioglimento nel merito, la sentenza impugnata, per quanto concerne le statuizioni penali, deve essere annullata senza rinvio per essere il reato estinto per prescrizione.

Essendovi però stata condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile, il ricorso deve essere ugualmente esaminato nel merito al solo fine della decisione sulle statuizioni civili ai sensi dell’art. 578 cod. proc. pen.

Ciò posto, il primo motivo è inammissibile perché, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, non sono denunciabili in cassazione i vizi della motivazione nelle questioni di diritto affrontate dal giudice di merito allorquando sia corretta la soluzione sotto il profilo strettamente giuridico, poiché l’interesse alla impugnazione nasce solo dall’errata soluzione della detta questione (Sez. V, 22 febbraio 1994, Marzola, m. 197.993). Il primo motivo è appunto relativo ad una questione di diritto (concernente la sussistenza o meno di un rapporto di specialità tra una norma che prevede una sanzione penale ed altra che prevede una sanzione amministrativa), questione che, come subito si vedrà, la corte d’appello ha risolto esattamente, di modo che sono irrilevanti i vizi o le carenze della motivazione, che ben può essere corretta o integrata da questa Corte.

II secondo motivo è infondato. Invero, secondo la giurisprudenza di questa Suprema Corte, per valutare la «medesimezza» del fatto ai sensi dell’art. 9 della legge 24 novembre 1981, n. 689, occorre considerare l’astratto profilo di una possibile uguaglianza tra le diverse fattispecie e, quindi, l’identità dei beni giuridici tutelati e degli elementi strutturali di tipo oggettivo, quali la condotta e l’oggetto materiale. Si è inoltre sottolineata la necessità di considerare anche il bene giuridico tutelato nelle fattispecie specifiche, la diversità del quale consentirebbe di escludere la sussistenza del rapporto di specialità (cfr. Sez. I, 31 gennaio 2002, Fantasia, m. 221.610). In particolare, si osserva che il concorso c.d. apparente di norme, che è previsto dall’art. 9 cit. e che è soggetto al principio di specialità, presuppone che le norme prendano in considerazione lo «stesso fatto», di modo che, in presenza di fattispecie che presentino un elemento di diversità, ancorché coincidenti in tutto o in parte con riguardo alla condotta del trasgressore, si deve ravvisare un concorso effettivo, e non apparente (Cass. civ., Sez. I, 10 settembre 1991, n. 9494, m. 473.801). In altre parole, l’operatività del principio di specialità postula che la violazione amministrativa in astratto contestabile costituisca un elemento del fatto-reato, essendone parte integrante (Cass. Civ., Sez. I, 10 dicembre 2003, n. 18811, m. 568.742; Cass. Civ., Sez. I, 6 aprile 2004, n. 6769, m. 571.896).

Ciò posto, è evidente come, in relazione al caso in esame, non sia ravvisabile alcun concorso apparente di norme tra la disposizione di cui all’art. 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490, esattamente applicata, e le altre disposizioni invocate dal ricorrente, soprattutto perché nessuna di queste sembra in astratto applicabile nella specie.

Quanto alla disposizione di cui all’art. 26 del d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, può osservarsi che essa è dettata a protezione del vincolo idrogeologico e di altri simili interessi (difesa dalla caduta di valanghe, sassi, furia dei venti, oltre che difesa delle condizioni igieniche locali e difesa militare) e sanziona il fatto di chi danneggi piante o comunque arrechi altri danni nei boschi vincolati per scopi idrogeologici o per gli altri scopi indicati e ciò in violazione delle prescrizioni impartite dalle competenti autorità.

L’art. 163 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (ora art. 181 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), invece, è dettato a tutela degli interessi paesaggistici ed ambientali, e segnatamente alla salvaguardia del bosco nel suo valore estetico-ambientale, e sanziona il fatto di chi esegua lavori di qualsiasi genere su beni ambientali senza la prescritta autorizzazione o in difformità di essa, a prescindere dal fatto che arrechi o meno un danno o un pregiudizio.

Quanto all’art. 54 del d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, anch’esso persegue la finalità di salvaguardare il vincolo idrogeologico (o gli altri interessi indicati) e sanziona proprietario dei terreni rimboschiti per effetto dello stesso decreto legge che effettui sugli stessi la coltura agraria o effettui il pascolo secondo modalità diverse da quelle previste o comunque compia le operazioni di governo boschivo in difformità del piano di coltura e conservazione approvato.

Quanto all’art. 1 della legge 9 ottobre 1956, n. 950, infine, esso sanziona la violazione delle norme di polizia forestale contenute nei regolamenti di cui all’art. 10 del d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267.

Pertanto, almeno secondo quanto risulta dalle sentenze di merito, non si ravvisano nel fatto come contestato gli elementi per sussumerlo nelle fattispecie di cui agli artt. 26 o 54 d.l. 30 dicembre 1923, n. 3267, o all’art. 1 legge 9 ottobre 1956, n. 950.

E’ quindi esclusa ogni possibilità di concorso apparente di norme e di applicazione del principio di specialità.

Il terzo ed il quarto motivo – che possono essere congiuntamente esaminati – sono anch’essi infondati. Va innanzitutto osservato che sono irrilevanti tutte le considerazioni relative alla nozione naturalistica o normativa di bosco, alla sua mancata definizione legislativa da parte della regione Abruzzo, e alla qualificabilità come bosco del terreno in questione. Nel caso di specie, infatti, i giudici del merito hanno ravvisato la sussistenza del vincolo ambientale non perché si trattasse di un bosco bensì perché si trattava di terreno sottoposto a vincolo di rimboschimento. L’art. 146 del d.lgs. 29 ottobre 1999, n. 490 (ora art. 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42), infatti, alla lett. G), inserisce tra i beni ambientali tutelati per legge, oltre i territori coperti da foreste e da boschi, anche quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento. L’art. 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42, specifica ora alla lett. G) che sono soggetti a tutela ambientale «i territori coperti da foreste e da boschi, ancorché percorsi o danneggiati dal fuoco, e quelli sottoposti a vincolo di rimboschimento, come definiti dall’articolo 2, commi 2 e 6, del decreto legislativo 18 maggio 2001, n. 227». L’art. 2 del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, poi, prevede nel comma 2 che entro dodici mesi le regioni stabiliscano per il territorio di loro competenza la definizione di bosco (ed in particolare i valori minimi di larghezza, estensione e copertura), e nel comma 3 che sono assimilati al bosco, tra gli altri, «i fondi gravati dall’obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell’aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell’ambiente in generale». Il successivo comma 6 del medesimo art. 2, peraltro, stabilisce quali sono le caratteristiche che devono presentare i terreni per essere qualificati come bosco nelle more della emanazione delle norme regionali di cui al comma 2, e ribadisce che «sono altresì assimilati a bosco i fondi gravati dall’obbligo di rimboschimento per le finalità di difesa idrogeologica del territorio, qualità dell’aria, salvaguardia del patrimonio idrico, conservazione della biodiversità, protezione del paesaggio e dell’ambiente in generale».

Ora i giudici del merito, con un apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, hanno accertato che terreno in questione era appunto gravato dall’obbligo di rimboschimento per le finalità di protezione dell’ambiente e del paesaggio in generale (ripristino cava). Del tutto esattamente, quindi, è stato ritenuto che il terreno in questione, in quanto gravato dal detto vincolo, rientrasse tra i beni soggetti a tutela ambientale di cui agli artt. 146 dlgs. 29 ottobre 1999, n. 490, e 142 del d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42.

Nemmeno ha pregio la censura secondo cui il terreno de quo non potrebbe ritenersi soggetto a vincolo di rimboschimento a norma delle disposizioni citate perché non presenterebbe i valori minimi di larghezza, estensione e copertura necessari affinché un’area sia considerata come bosco ai sensi del citato art. 2, comma 6, del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, ed in particolare non avrebbe una «estensione non inferiore a 2.000 metri quadrati e larghezza media non inferiore a 20 metri e copertura non inferiore al 20 per cento, con misurazione effettuata dalla base esterna dei fusti». E ciò per due ragioni. Innanzitutto, perché la disposizione in esame riferisce questi requisiti soltanto alle formazioni vegetali ed ai terreni su cui esse sorgono al fine della loro qualificazione come boschi e non anche ai fondi gravati dall’obbligo di rimboschimento, per la cui assimilazione ai boschi non occorre anche la presenza dei detti requisiti, essendo sufficiente la presenza del provvedimento amministrativo o della disposizione normativa che abbia imposto il vincolo di rimboschimento per una delle finalità indicate. In secondo luogo, perché, quand’anche dovesse ritenersi che i detti requisiti siano necessari anche per i terreni soggetti a vincolo di rimboschimento, i giudici del merito, anche qui con apprezzamento di fatto adeguatamente e congruamente motivato, e quindi non censurabile in questa sede, hanno accertato che i requisiti stessi nella specie erano presenti dal momento che il terreno aveva una superficie di circa 5.000 mq. ed una larghezza di 20 m.

II quinto motivo si risolve in una censura in punto di fatto della decisione impugnata, con la quale si richiede una nuova e diversa valutazione delle risultanze processuali riservata al giudice del merito e non consentita in questa sede di legittimità, ed è comunque infondato perché la corte d’appello ha fornito congrua, specifica ed adeguata motivazione, scevra da errori giuridici o salti logici, sulle ragioni per le quali ha ritenuto sussistente l’elemento psicologico del reato (essendo l’imputato ben consapevole del vincolo esistente sul terreno ed avendo egli ordinato l’aratura del terreno) ed ha ritenuto inverosimile la tesi difensiva secondo cui l’estirpazione delle piantine sarebbe stata determinata da un gregge di pecore e non dalle operazioni di aratura. Ha invero osservato la corte d’appello, da un lato, che in realtà non era stata acquisita nessuna prova concreta sulla effettiva preventiva distruzione delle piantine e, da un altro lato, che appare assolutamente inverosimile ed illogico il comportamento del proprietario di un terreno che, avvertito delle distruzione delle piantine di sua proprietà e pur a conoscenza del vincolo gravante sul terreno, non sporga immediatamente denuncia all’organo competente al quale sa bene di dover rendere conto della piantagione, così come era inverosimile che l’imputato (come accertato) non si fosse recato sui luoghi per accertare il danno o comunque nemmeno avesse inviato un suo incaricato rimanendo nella totale ignoranza dello stato dei luoghi.

In conclusione, sulla base delle considerazioni svolte, le statuizioni civili della sentenza impugnata devono essere confermate con condanna del ricorrente al rimborso delle spese processuali del grado in favore della parte civile, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte Suprema di Cassazione

annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.

Conferma le statuizioni civili e condanna il ricorrente alla refusione in favore della parte civile delle spese del grado, che liquida in complessivi ? 1.700,00, di cui 1.500,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di Legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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