Cass. civ., sez. Unite 31-07-2006, n. 17289 AVVOCATO E PROCURATORE – GIUDIZI DISCIPLINARI – AZIONE DISCIPLINARE – Rilevanza probatoria nel giudizio disciplinare

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto

l’avv.to S.V. ricorre per Cassazione deducendo sette motivi avverso la sentenza 22 marzo 2006 R.G. 96/94 con cui il Consiglio Nazionale Forense rigettava l’impugnativa del professionista avverso la decisione con cui il COA di Chieti gli aveva inflitto la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per mesi otto.

Il procedimento aveva avuto inizio con la nota del 2 febbraio 1993, con cui il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Chieti comunicava al COA che il giorno precedente era stata emessa ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti dell’avvocato S. V., per ipotesi di reato di concussione continuata. Il successivo 21 aprile lo stesso Procuratore della Repubblica informava il Consiglio che, in relazione a detti reati, era stato chiesto il rinvio a giudizio del professionista.

Con Delib. 10 maggio 1993, il COA di Chieti disponeva l’apertura di procedimento disciplinare per gli stessi fatti oggetto del procedimento penale e disponeva contestualmente la sospensione del primo procedimento fino all’esito del secondo.

Divenuta irrevocabile la sentenza emessa dal GUP presso il Tribunale di Chieti in data 1 ottobre 1993, con la quale era stata applicata, su richiesta dell’imputato, la pena, condizionalmente sospesa, di anni uno, mesi sei a giorni venti di reclusione, con Delib. 18 novembre 1993, il COA di Chieti disponeva la prosecuzione del procedimento disciplinare, conclusosi con la condanna di cui si è riferito.

Il Procuratore Generale ha concluso per l’accoglimento del primo motivo di ricorso.

Diritto

Con il primo motivo di ricorso il professionista deduce violazione dell’art. 445 c.p.p., in relazione: al R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 47, comma 2. Violazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 54, comma 1, per carenza assoluta nell’indicazione dei fatti contestati a dei motivi. Difetto assoluto dell’individuazione dei fatti contestati ed assoluta carenza di motivazione, anche intesa come requisito di forma indispensabile con conseguente nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5.

Con il secondo motivo viene denunciata violazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 54, comma 1, per carenza nell’indicazione dei fatti contestati a dei motivi. Difetto, insufficienza, e, comunque, contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in ordine all’iter logico giuridico intrapreso dal C.N.F. nella decisione gravata in difetto dell’indicazione dei fatti ritenuti rilevanti ai fini disciplinari.

Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione del R.D. n. 37 del 1934, art. 54, comma 1, per carenza nell’indicazione dei motivi.

Carenza, insufficienza, contraddittorietà ed illogicità dei motivi ai sensi del R.D. n. 37 del 1934, art. 54, comma 1, e della motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, anche sotto il profilo della mancata individuazione della presunta offesa perpetrata alla dignità ed al prestigio della classe forense nonchè, circa la misura della stessa e la proporzione con la sanzione comminata.

Con il quarto motivo viene dedotta violazione del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 54, comma 1. Violazione del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51, e dell’art. 111 Cost.. Eccezione di prescrizione dell’azione disciplinare. In via subordinata, eccezione di manifesta illegittimità costituzionale per contrasto con gli artt. 3,24, 104, 105, 106, 108 e 111 Cost., del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 51.

Con il quinto motivo si deduce violazione del R.D. n. 37 del 1934, art. 54, comma 1. Violazione e/o falsa applicazione del R.D.L. n. 1578 del 1933, artt. 38,54,56, del R.D. n. 37 del 1934, artt. 47,50,51 e 63, dell’art. 111 Cost., commi 2 e 3. Illegittima commistione tra organo inquirente ed organo giudicante, con conseguente carenza di imparzialitàe terzietà di quest?ultimo. In via subordinata, incostituzionalità del R.D.L. n. 1578 del 1933, artt. 38,54 e 56, del R.D. n. 37 del 1934, artt. 47,50,51 e 63 nella parte in cui consentono tale commistione senza effettuare alcuna distinzione al riguardo. Nullità delle ordinanze istruttorie emesse dal C.N.F..

Con il sesto motivo il professionista deduce violazione e/o falsa applicazione dell’art. 6 della C.E.D.U., degli artt. 3,24 e 111 Cost., del R.D. n. 37 del 1934, art. 48, del R.D.L. n. 1578 del 1933, art. 63. Nullità" delle acquisizioni disposte in violazione del principio del contraddittorio nonostante la formulata richiesta di prove, anche testimoniali, dirette e contrarie (anche) sui medesimi elementi probatori oggetto di tali acquisizioni.

I motivi debbono essere globalmente respinti.

Occorre per altro preliminarmente ribadire i limiti del sindacato di queste Sezioni Unite sulle pronunce del Consiglio Nazionale Forense.

Questa Corte ha già avuto occasione di affermare che il R.D. n. 1578 del 1933, adeguandosi del resto ad una tradizione secolare, ha previsto e regolato una forma ai "governo autonomo" della classe forense in qualche misura analoga al regime istituito per la magistratura dalla Costituzione del 1948 in coordinato disposto con le leggi anteriori (ed ora modificato dalla L. n. 150 del 2005).

La legge indica perciò in termini molto generici gli estremi dell’illecito disciplinare affermando (art. 38) che i professionisti i quali "si rendano colpevoli di abusi o mancanze nell’esercizio della loro professione o comunque di fatti non conformi alla dignità e al decoro professionale sono sottoposti a procedimento disciplinare" (a sua volta l’art. 17 parla di condotta "specchiata ed illibata"). E nel contempo prevede che la valutazione di questi illeciti avvenga davanti ai Consigli territoriali e quindi, in sede di impugnazione, ad opera del Consiglio Nazionale Forense. Le decisioni del Consiglio Nazionale Forense, in materia disciplinare, sono impugnabili dinanzi alle sezioni unite della corte di cassazione, ai sensi del R.D.L. 27 novembre 1933, n. 1578, art. 56, comma 3, convertito, con modificazioni, dalla L. 22 gennaio 1934, n. 36, soltanto per incompetenza, eccesso di potere e violazione di legge.

Le disposizioni di carattere sostanziale, lette in connessione con quelle di carattere procedurale e processuale, demandano dunque al "governo autonomo" (anche attraverso il "codice deontologico") la individuazione degli illeciti.

Il sindacato di questa Corte si svolge poi in un ambito ristretto; in quanto in tema di ricorso per Cassazione avverso le decisioni emanate dal consiglio nazionale forense in materia disciplinare, l’inosservanza dell’obbligo di motivazione su questioni di fatto integra violazione di legge, denunciatole con ricorso alle sezioni unite della Corte di Cassazione, solo ove si traduca in motivazione completamente assente o puramente apparente, vale a dire non ricostruibile logicamente ovvero priva di riferibilità ai fatti di causa (Cass., sez. un., 2 aprile 2003, n. 5072). Mentre le sentenze disciplinari del CSM sono censurabili anche sotto i profili di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5.

In questo quadro compete alla Corte di Cassazione valutare soltanto se la sentenza del Consiglio Nazionale Forense sia incorsa in violazione di legge anche sotto il profilo del difetto assoluto di motivazione.

Così circoscritti i limiti del proprio sindacato, il Collegio osserva che la pronuncia impugnata (in cui è esclusa la applicazione della L. n. 97 del 2001) regge sul seguente impalco motivazionale.

l’avv.to S. ha definiti mediante patteggiamento ex art. 444 c.p.p., un?accusa per concussione continuata (pag. 2 della sentenza impugnata); e questi fatti hanno formato oggetto di procedimento disciplinare. Non appare quindi fondato il primo motivo di ricorso nella parte in cui afferma "non è consentito desumere quale sia stato, in concreto, l’oggetto della contestazione disciplinare" (pag. 9 del ricorso).

l’avv.to S. ha poi contestato l’efficacia vincolante per il giudice disciplinale della sentenza di applicazione di pena "patteggiata". Per altro il Consiglio Nazionale Forense ha constatato che la responsabilità dell’incolpato per i fatti dedotti in sede penale emergeva anche dagli atti istruttori e dal fatto che gli accertamenti compiuti nel processo penale " non sono stati oggetto di alcuna contestazione da parte dell’incolpato" (pag. 8).

Così elaborato un "accertamento in fatto", il CNF ha soggiunto "in diritto" che "l’illecito commesso dall’avv.to S. per quanto non attenga all’attività forense, per la rilevanza e la notorietà dello stesso e clamore suscitato, ha senza dubbio offeso gravemente il prestigio e la dignità della classe forense".

Questa motivazione appare sufficiente ed è priva di errori rilevabili in questa sede.

Il CNF non si è infatti limitato a recepire acriticamente le emergenze della sentenza di patteggiamento (il che avrebbe potuto costituire una violazione di legge); ma le ha correttamente considerate come un rilevante elemento indiziario, utile a giustificare l’accertamento disciplinare in concorrenza di due ulteriori elementi (l’esame degli atti processuali e le mancate contestazioni dell’interessato). E queste considerazioni costituiscono motivazione in fatto priva di vizi logici o incongruenze tali da determinarne l’inesistenza; quindi appaiono infondate le considerazione svolte nel primo motivo di ricorso alle pagine 10,11,12 e 13.

ÿ del resto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte che la sentenza penale emessa a seguito di patteggiamento ai sensi dell’art. 444 c.p.p., costituisce un importante elemento di prova nel processo civile (la richiesta di patteggiamento dell’imputato implica pur sempre il riconoscimento del fatto-reato); il Giudice, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l’imputato avrebbe ammesso una sua responsabilità non sussistente e il Giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (cfr. le sentenze di questa Corte n. 2213 del 1 febbraio 2006 e n. 19251 30 settembre 2005). Infatti, la sentenza di applicazione di pena patteggiata "pur non potendosi tecnicamente configurare come sentenza di condanna, anche se è a questa equiparabile a determinati fini)?, presuppone "pur sempre una ammissione di colpevolezza che esonera la controparte dall’onere della prova" (Cass. 5 maggio 2005, n. 9358).

Pertanto appaiono infondate le considerazione contenute (sempre nell’ambito del primo motivo) alle pagine 14,15 e 16 e – nel secondo motivo – alle pagine 15 e 16. Era infatti onere del ricorrente indicare quali elementi probatori a suo favore avesse sottoposto al giudice di merito al fine di spiegare perchè avesse – pur innocente – accettato una pena patteggiata. E conseguentemente denunciare il mancato esame di questi elementi da parte del CNF. Mentre è inammissibile il quinto motivo con cui il ricorrente lamenta, sotto vari profili, il fatto che il CNF abbia disposto la acquisizione degli atti del processo penale.

Infatti tale acquisizione poteva se mai giovare all’incolpato su cui incombeva l’onere di dimostrare di avere – pur innocente – accettato la pena patteggiata; e la eventuale illegittimità di simile acquisizione non gioverebbe dunque all’avv.to S..

Ciò esime queste Sezioni Unite dalla necessità di affondare il delicatissimo problema dei limiti entro cui il principio di terzietà del giudice impedisca la acquisizione di prove d’ufficio da parte del giudice stesso. Si può tuttavia osservare come la giurisprudenza finora formatasi sull’argomento non escluda "in toto" la possibilità che il giudice acquisisca prove d’ufficio, ma richiede solo che tale acquisizione sia per così dire "imparziale" cioè non costituisca supporto ad una delle parti (il D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 18, relativo alla responsabilità disciplinare dei magistrati stabilisce che "la sezione disciplinare può: assumere, anche d’ufficio, tutte le prove che ritiene utili").

Mentre appare ovvio che il contraddittorio in ordine alla (avvenuta) acquisizione di documenti si esplica attraverso l’esame di tali atti da parte delle parti e la (possibile) formulazione di deduzione da parte di ciascuna di esse, prima della valutazione del Giudice. E di questo diritto non risulta il ricorrente sia stato privato. Deve perciò essere respinta la seconda parte del sesto motivo (pag. 36).

Rientra poi nella discrezionale valutazione degli illeciti, demandata all’autogoverno forense, la valutazione (certo non illogica o intrinsecamente censurabile) secondo cui comportamenti concessori costituiscono illecito disciplinare di una qualche gravità tanto da giustificare la sospensione temporanea dall’albo. E ciò appare sufficiente per il rigetto del terzo motivo.

Appare poi inammissibile il quarto motivo nella parte in cui il ricorrente genericamente lamenta la presunta illegittimità costituzionale del fatto che al procedimento disciplinare si applichino le norme del processo civile. Il ricorrente non indica infatti sotto quali profili il ricorso alle norme processuali penali avrebbe giovato alla posizione dell’Avv.to S..

Il quarto motivo è invece ammissibile nella parte in cui sostiene – con considerazione più ampiamente sviluppate nella prima parte del sesto motivo (pag. 34 e 35) – che non deve operare nella fase giurisdizionale davanti al consiglio nazionale forense l’effetto interruttivo permanente di cui al combinato disposto degli art. 2945 c.c., comma 2, e art. 2943 c.c.. Ed asserisce che la eventuale applicabilità degli art. 2945 c.c., comma 2, e art. 2943 c.c., porrebbe il sistema in contrasto con svariate norme costituzionali e con l’art. 6 della CEDU. Le tesi del ricorrente debbono essere – anche sotto questo profilo – disattese.

La giurisprudenza di questa Corte afferma infatti che nella fase giurisdizionale davanti al consiglio nazionale forense opera il principio dell’effetto interruttivo permanente di cui al combinato disposto dell’art. 2945, comma 2, e art. 2943 c.c., effetto che si protrae durante tutto il corso del giudizio e nelle eventuali fasi successive dell’impugnazione innanzi alle sezioni unite e del giudizio di rinvio fino al passaggio in giudicato della sentenza (Cass., sez. un., 26 febbraio 2004, n. 3891). Ed è manifestamente infondata, in riferimento agli artt. 3 e 111 Cost., la questione di legittimità costituzionale di questa disciplina in quanto ciascun ordinamento professionale reca in sè elementi differenziatori che giustificano razionalmente anche diversità di disciplina in tema di prescrizione dell’azione disciplinare, mentre i canoni adottati dal legislatore in materia penale in tema di prescrizione del reato, non possono essere assunti a tertium comparationis in fattispecie aventi natura diversa (Cass., sez. un., 11 marzo 2004, n. 5038).

Nè appare pertinente il richiamo all’art. 6 della CEDU circa l’esigenza di una "ragionevole durata" dei processi (recepita nell’art. 111 Cost.); infatti il diritto ad una sollecita definizione delle procedure giudiziarie non comporta un diritto ad ottenere una sentenza liberatoria dalle responsabilità, cioè alla applicazione della prescrizione.

Il rigetto dei primi sei motivi di ricorso determina il rigetto anche del settimo in cui si propone istanza di sospensione cautelare dell’esecuzione della sanzione; nonchè della analoga istanza presentata anche con separato ricorso.

Non vi è luogo a provvedere sulle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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