Corte Suprema di Cassazione – Penale Sezione V Sentenza n. 32016 del 2006 deposito del 28 settembre 2006

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Investito dall’impugnazione di I. B., il Tribunale Imerese, con sentenza emessa in data 4 nov. 2004, assolveva B. I. dal reato scrittogli perché il fatto non costituisce reato sia perché i due testimoni M.G. e B.A., direttore dell’ufficio postale, erano inattendibili quando escludevano l’apposizione della dicitura introvabile o sconosciuto, sia perché il fatto era scriminato dall’art. 51 c.p., sia infine, perché il mancato recapito della corrispondenza era dovuto al mancato rispetto del codice postale (art. 88).

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione ai sensi degli artt. 576 e 577 c.p.p. la parte civile M.G. che deduceva i seguenti motivi di impugnazione: violazione di legge in relazione agli artt. 51 e 59 c.p. perché, tra l’altro, il Tribunale aveva assolto l’imputato escludendo l’offensività delle frasi pronunciate, nonostante il motivo di appello concernesse la sussistenza di una causa di giustificazione; inoltre il giudice di appello aveva invertito l’onere della prova nelle cause di giustificazione; vizio di motivazione e travisamento del fatto. Il ricorrente illustrava ampliamente la disciplina del codice postale concernente la corrispondenza con destinatario non sicuramente individuabile per la presenza di omonimi nella stessa strada; contraddittorietà della motivazione in ordine alla pretesa apposizione dei termini introvabile e sconosciuto; manifesta illogicità della motivazione in ordine alla ritenuta inattendibilità del teste, persona offesa fondata sul mancato rispetto della disciplina in caso di omonima, normativa che però era stata abrogata da una legge del 2001.

La parte civile ha proposto ricorso sia agli effetti civili che a quelli penali, possibilità quest?ultima consentita dall’art. 577 c.p.p. alle parti lese costituitesi parti civili per i reati dio ingiuria e diffamazione.

Sennonché l’art. 9 della legge 20 feb. 2006 n. 46 ha abrogato l’art. 577 c.p.p. ed ha escluso, pertanto, che le parti civili nei processi di ingiuria e diffamazione potessero proporre impugnazione, appello e ricorso per cassazione, agli effetti penali.

Tale disposizione in virtù dell’art. 10 co. I della legge predetta è immediatamente applicabile ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della medesima; essa, pertanto, risulta applicabile anche nel caso di specie.

La parte civile può, invece, proporre impugnazione agli effetti civili ai sensi dell’art. 576 c.p.p., così come novellato dall’art. 6 della legge n. 46 del 2006, e, quindi, il ricorso in esame può essere preso in considerazione esclusivamente per gli effetti civili.

I motivi di ricorso sono fondati perché in effetti il ragionamento del tribunale, quale giudice di appello, risulta non facilmente comprensibile e, comunque, manifestamente errato, corretta essendo, invece, la sentenza i primo grado.

Alcuni dati sono specifici: B.I. ha inviato una lettera di reclamo all’ente Poste Italiane sostenendo che il portalettere M., agendo in mala fede e con premeditazione restituiva la posta a lui indirizzata al mittente con la dicitura introvabile o sconosciuto.

Sulla portata offensiva di siffatte espressioni non vi possono essere dubbi, come correttamente ha sostenuto il giudice di pace, perché non è lecito attribuire a taluno di essere venuto meno ai doveri d’ufficio per mala fede; anzi a ben vedere si tratta di un?offesa di indubbia gravità.

Il giudice di secondo grado sembra aver assolto l’imputato per la presenza della scriminante dell’esercizio del diritto di critica di cui all’art. 51 c.p.

Il testo della motivazione non è del tutto chiaro e tuttavia la conclusione di assoluzione con la formula perché il fatto non costituisce reato sembra legittimare siffatta interpretazione.

La soluzione adottata dal tribunale non ha giuridico fondamento.

ÿ noto, invero, che debbono ricorrere alcuni presupposti perché la critica possa essere ritenuta legittima.

In primo luogo il fatto presupposto deve essere vero nel senso che non si può attribuire un comportamento non vero ad una persona e poi criticarla.

Ebbene nel caso di specie non vi è alcun elemento per ritenere che i fatti denunciati dal B. ed attribuiti al M. siano veri.

Non vi è, invero, alcuna prova che il portalettere abbia agito in mala fede e con premeditazione e non vi è alcuna prova che le lettere senza indirizzo venissero restituite al mittente con la dicitura introvabile o sconosciuto.

Intanto l’imputato non ha soddisfatto un onere di allegazione che spetta a chi invochi una causa di esclusione della responsabilità e di ciò il tribunale non ha tenuto conto, come ha correttamente osservato la ricorrente parte civile.

Inoltre il tribunale ha ritenuto inattendibile il M. ed il B. in ordine all’affermazione che non risultava che lettere dirette a B. I. fossero state restituite con la dicitura sopra detta perché entrambi interessati a non rispettare la specifica normativa di osservare in caso di corrispondenza inviata senza indicazione del numero civico a destinatari omonimi.

La soluzione appare davvero singolare sia perché un principio di prova poteva e doveva essere fornito dall’accusa mediante la produzione di alcune lettere con la dicitura incriminata, essendo davvero impossibile difendersi da una accusa generica e sfornita di qualsiasi principio di prova, l’imputato, pertanto, non si è nemmeno voluto sottoporre ad interrogatorio, sia perché l’interpretazione degli artt. 88 del codice postale e 12 del regolamento non legittimano le conclusioni alle quali è pervenuto il tribunale, sia, infine, perché il giudice ha fatto riferimento ad una normativa del codice postale superata perché abrogata dall’art. 35 del decreto del 9 apr. 2001 del Ministero delle comunicazioni emanato in base al decreto legislativo del 22 lug. 1999, che aveva dato attuazione della direttiva 97/67/CE.

Ebbene in base a tale ultima normativa il portalettere che rilevi un indirizzo insufficiente o che risulti comune a più persone restituisce la corrispondenza all’ufficio con le ragioni della mancata consegna; quindi la dicitura sconosciuto o anche introvabile con la nuova normativa appare certamente utilizzabile per i casi di omonimia e di impossibilità di accertare il reale destinatario nel caso di indirizzi incompleti.

Da quanto detto si desume che l’unico argomento posto a sostegno della ritenuta inattendibilità dei due testimoni e destituito di fondamento, tanto più che proprio il direttore B., come riferito dallo stesso giudice di appello, nel corso dell’interrogatorio ebbe a fare riferimento all’art. 35 del decreto del 200 che detta la nuova disciplina in materia.

Quindi i due testi non erano attendibili, come erroneamente ritenuto dal tribunale, e di conseguenza quanto da loro affermato, si trattava di un problema di omonimia e le diciture incriminate non sono state utilizzate, non può essere considerato infondato; manca del tutto, pertanto, la prova della verità del fatto che costituiva il presupposto della critica.

Ma anche se per avventura si dovessero ritenere non errate le considerazioni del tribunale non si riesce a comprendere in base a quali elementi è possibile ritenere che il M. abbia gito in mala fede e con premeditazione; sul punto non vi è, infatti, alcuna prova.

Infatti anche a volere seguire, per semplice amore di discussione, la non corretta interpretazione della disciplina degli omonimi fornita dal giudice di appello, non si riesce a comprendere, per effetto di un evidente salto logico nella motivazione, in base a quali elementi si è ritenuto che il M. avesse gito in mala fede e non per errore interpretativo della direzione della normativa da applicare.

Si può concludere, pertanto, affermando che manca qualsiasi prova della verità del fatto presupposto.

Ma anche il requisito della cd continenza espressiva non è stato rispettato dall’imputato; di tale argomento il tribunale non ha ritenuto di doversi occupare.

Affermare che un pubblico dipendente agisca in mala fede e non fornire nessun elemento per provare un?affermazione così grave non è invero ammissibile.

Si può benissimo fare un reclamo, ed anzi è giusto farlo perché le critiche degli utenti possono aiutare a migliorare i servizi, che stigmatizzi un presunto disservizio, ma non è consentito a nessuno utilizzare un mezzo in se lecito per attaccare la sfera morale delle persone, come la giurisprudenza di legittimità ha più volte stabilito.

La sicura offensività delle espressioni utilizzate e la mancanza della scriminante di cui all’art. 51 c.p. rendono la fondatezza delle conclusioni del giudice di primo grado e la errata decisione del tribunale.

Le conclusioni raggiunte impongono, pertanto, l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente, per quanto detto in precedenza, alle statuizioni civili.

Secondo l’art. 622 c.p.p. l’annullamento delle statuizioni civili dovrebbe comportare, anche quando venga accolto il ricorso dalla parte civile avverso una sentenza di proscioglimento dell’imputato, o evidentemente di assoluzione, quando occorre, il rinvio al giudice civile competente per l’appello.

Ma nel caso di specie non occorre rinviare, nel senso che non è necessario perché la sentenza di appello è macroscopicamente errata, mentre del tutto fondata è quella di condanna dell’imputato emessa dal giudice di pace; anche le conseguenti statuizioni civili della sentenza i primo grado sono, pertanto, da condividere e vanno perciò integralmente confermate, previo annullamento senza rinvio della sentenza impugnata.

l’imputato, inoltre, deve essere condannato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, spese che si liquidano in complessivi euro 2.000,00.

P.Q.M.

La corte annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili, confermando quelle di primo grado; condanna, inoltre, l’imputato alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 2.000,00.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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