Cass. pen., sez. IV 22-09-2006 (26-05-2006), n. 31462 REATO – ELEMENTO SOGGETTIVO – COLPA- Responsabilità – Condizioni – Prevedibilità dell’evento – Accertamento – Principio dell’affidamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Alle ore 3 circa del 16 dic. 1998 crollava interamente in Roma il fabbricato ubicato in via di Vigna Jacobini n. 65; il personale del VV.FF. prontamente intervenuto (assieme forze di polizia, dei CC e dei Vigili urbani) estraeva dalle macerie i corpi di 27 persone abitanti negli appartamenti collocati ai piani superiori dello stabile; data l’ora notturna, non si trova invece, fortunatamente, alcuna persona nei locali del seminterrato e del pianterreno del fabbricato adibiti all’esercizio dell’attività della S, Paolo tipografia editoriale srl.

Nel corso delle indagini preliminari venivano disposte dal PM consulenze tecniche, ed all’esito la Procura della repubblica chiedeva il rinvio a giudizio di C.M. e M.V (amministratori della tipografia) e di D.B. M. (amministratore del condominio dello stabile) in ordine ai delitti di disastro colposo edomicidio colposo plurimo.

Nei confronti di un quarto indagato, c.c., architetto di fiducia della tipografia, veniva chiesta (e accolta dal GIP) archiviazione per morte dell’indagato medesimo.

Incardinatasi l’udienza preliminare, si costituivano parte civile i parenti delle vittime non che la Banca nazionale del lavoro, quale titolare del diritto reale di garanzia su alcuni appartamenti dello stabile distrutto.

Nel contesto dell’udienza preliminare il GUP disponeva una perizia tecnica nelle forme dell’incidente probatorio, e, all’esito, con decisione in data 18 ott. 2001, dichiarava non luogo a procedere nei confronti del D.B. per non aver commesso il fatto, mentre disponeva il rinvio a giudizio dinanzi al tribunale di Roma, in composizione collegiale, del C. e del M. in ordine ai delitti contestati.

Peraltro il tribunale di Roma nella sua composizione collegiale, all’udienza del 23 genn. 2002, rilevava la propria incompetenza e trasmetteva gli atti al tribunale della stessa sede ma nella sua composizione monocratica.

Nel dibattimento svoltosi dinanzi a detto tribunale si costituiva parte civile anche il Comune di Roma; nel corso dell’istruzione dibattimentale si procedeva all’audizione, oltre che dei testi, anche dei consulenti delle parti e del perito, in contraddittorio tra loro, nonché all’acquisizione di documentazione e, ancora, all’esame degli imputati.

All’udienza del 23 ott. 2002 il PM precisava il capo di imputazione a carico del M. e del C. secondo la seguente contestazione: reati di cui agli artt. 113,81, 434- 4449, 589, co. 3, c.p. perché, per colpa cooperavano a causare il crollo dello stabile di via Vigna Jacobini n. 65 a seguito del quale trovavano la morte D.M. E., T.E., G.G. G, L.V., P.A., G.G., F.S., F.M., M.R., R.G., c.c., D.A. F., G.G. J., M.M. S., F.S., M.I., L.M. F., D.G., G.E., P.G., F.G., G.V., F.A., B.F., c.c., D.R., D.I., colpa consistita in particolare: perché quali amministratori della S. Paolo tipografia editoriale srl, il M. sino al 20 mar. 1997 ed il C. dal 20 mar. 1997, trasformavano l’originaria attività tipografica a carattere artigianale realizzando nel piano interrato un ambiente industriale che, per effetto delle vibrazioni, dei cicli termici di umidità e della dell’eliminazione dell’intonaco dei pilastri, determinava un decadimento dei materiali e delle strutture, destinavano i locali del piano terra a lavorazioni industriali leggere (rilegatoria, fotocomposizione, piccole lavorazioni) e deposito (stoccaggio e stampati) con un aumento dei sovraccarichi dei solai ed installavano un nuovo impianto di areazione, all’interno della tipografia, di potenza tale da determinare una rilevante variazione di umidità interna del conglomerato dei pilastri e l’erosione della loro capacità portante, omettendo inoltre ogni controllo o intervento in ordine all’attività svolta dal C.; in Roma, evento del 16 dic. 1998.

Alla stessa udienza del 23 ott. 2002, il giudice emetteva quindi la sua sentenza con la quale dichiarava entrambi gli imputati colpevoli dei reati contestati (disastro colposo ed omicidio colposo) condannandoli, con la concessione delle attenuanti generiche, ad anni due e mesi otto di reclusione ciascuno, nonché al risarcimento del danno alle parti civili da liquidarsi in separata sede (fatta eccezione per P.L. e P.C.), liquidando alle stesse provvisionali diversamente quantificate.

Disponeva poi il tribunale la trasmissione degli atti del dibattimento al PM i sede per le determinazioni di competenza nei confronti del costruttore, del progettista direttore dei lavori, dei pp. uu. intervenuti in sede di collaudo dell’edificio nonché nei confronti dei funzionari che avevano rilasciato l’autorizzazione di PS all’esercizio della tipografia nei locali di via Vigna Jacobini e che avevano eventualmente autorizzato il cambio di destinazione dei locali.

SENTENZA DI I GRADO

Il tribunale, affermata la legittimità della costituzione di parte civile del Comune di Roma, motivava il proprio convincimento, circa la ritenuta colpevolezza egli imputati, con articolate e diffuse argomentazioni, caratterizzate dal costante richiamo alle risultanze processuali, con particolare riferimento alle osservazioni del perito e dei consulenti, argomentazioni che possono riassumersi come segue.

Il giudice sottolineava che, non essendovi dubbi di sorta circa la causa del decesso delle 27 vittime, avvenuto in conseguenza del crollo del fabbricato, la questione nodale del processo era rappresentata dall’individuazione delle cause del crollo stesso, verificatosi indubbiamente con patologia cd silente, cioè prima di segni premonitori manifesti, sulla cui genesi nel corso del processo si era sviluppato un ampio contraddittorio tra consulenti e periti. Al riguardo il tribunale evidenziava come, esclusi sulla base degli accertamenti tecnici compiuti nell’immediatezza, nell’ambito delle consulenze disposte dalla Procura della repubblica, fattori quali fughe di gas e correlative esplosioni, o difetti della conformazione geo- morfologica del terreno, la cinematica del crollo deponesse per una implosione verso la spina centrale dei pilastri dell’edificio, determinata dal cedimento dei piani del seminterrato, e con un processo a domino riferito al sistema strutturale in parallelo dei pilastri, ormai privi di riserve di resistenza.

Significativo riscontro a tal ricostruzione cinematica sarebbe stato il rinvenimento delle macerie della facciata solo all’interno del perimetro del fabbricato, laddove macerie non erano state rinvenute nei luoghi circostanti, ne erano state rilevate tracce di urto negli edifici di contorno.

Rilevava altresì il giudice di prime cure come fosse stata esclusa con certezza, da periti e consulenti, l’incidenza sul verificarsi dell’evento della recente costruzione di un ascensore esterno al palazzo, mentre del tutto destituito di fondamento si era rivelato il sospetto, inizialmente adombrato, di una eliminazione di un pilastro (il n. 26 della planimetria in atti) dal seminterrato.

La sentenza del tribunale prendeva quindi in esame la tesi accusatoria, così come cristallizzatasi nell’imputazione riportata in rubrica dopo la contestazione integrativa effettuata dal PM nel corso del dibattimento, tesi che individuava nell’abusivo ed irregolare ampliamento dell’attività tipografica, collocata nei locali del seminterrato e del pianterreno dell’edificio, la causa del crollo: e ciò in quanto siffatto ampliamento dell’attività (che da artigianale si sarebbe sostanzialmente trasformata in industriale) avrebbe determinato, tramite le vibrazioni causate dalle grandi macchine stampanti, l’alterazione dei valori della temperatura e dell’umidità, l’aumento del sovraccarico sui solai e l’eliminazione degli intonaci sui pilastri, un lento ma fatale deterioramento delle strutture edilizie portanti che avrebbe causato l’implosione dello stabile.

A tal e proposito la sentenza riteneva certa la trasformazione, nel corso di circa un ventennio, dell’attività ella tipografia, rilevando come nel corso egli anni l’impresa tipografica avesse occupato sempre più estesi locali dello stabile ed ampliato il numero dei dipendenti, le ore di lavoro ed il fatturato, acquistando sino a cinque grandi macchine stampanti da una che ve ne era inizialmente), si che, al di la del dato formale delle dizioni usate nelle autorizzazioni amministrative relative alla società tipografica, realmente essa aveva acquistato la qualifica di industriale anziché artigianale.

Il giudicante escludeva tuttavia che sulla cinematica del crollo potessero aver influito il presunto sovraccarico di carta collocata sul solaio delle stanze della tipografia site nel pianterreno, la altrettanto presunta presenza, in un locale sempre del pianterreno, della macchina stampante FUJI (macchina che il tribunale riteneva invece si trovasse, al pari delle altre quattro, sul pavimento del seminterrato) e l’eliminazione di un soppalco sito all’interno del seminterrato.

Analoga esclusione dell’incidenza causale valeva per le vibrazioni prodotte dalle macchine della tipografia e dai compressori, se non fosse (avuto riguardo alle conclusioni della perizia del prof. d’Asdia) per l’ultimissimo periodo ed in misura comunque trascurabile.

Riteneva invece il tribunale che sulla determinazione dell’implosione del fabbricato avessero influito le variazioni dei cicli termici e di umidità all’interno del locale seminterrato occupato dalla tipografia, ma solo come concause incidenti su pregresse patologie originatesi sin dal mo?mento della costruzione dell’edificio.

Il giudice condivideva l’analisi del perito prof. d’Asdia, secondo cui la prima causa del crollo era da identificarsi nel sotto- dimensionamento, in sede di progetto, della maggior parte dei pilastri dei primi tre ordini ed in particolare di quelli interni del piano interrato (che non potevano neanche giovarsi del sostegno di tompagnature interne, non esistenti al piano interrato, a differenza che ai piani superiori, in quanto eliminate in occasione della terza variante), pilastri che raggiungevano valori di tensione e di compromissione dell’ordine del doppio di quanto previsto dalla normativa vigente all’epoca di costruzione dell’edificio, si che l’azione dei carichi protrattasi nel tempo, di valore troppo vicino alla resistenza del calcestruzzo medesimo ed una graduale formazione di micro- fessure nella malta cementizia si da pervenire infine al collasso della struttura.

Il tribunale motivava la propria adesione a siffatta analisi del perito, rilevando che non erano state mosse contestazioni in ordine alle m0isure delle sezioni di pilastri, ad avviso del perito pari alla metà di quelle necessarie e la e la cui armatura era parimenti inadeguata alle prescrizioni vigenti all’epoca, e che, con riguardo alla sussistenza di un sovraccarico permanente, andava presa in considerazioni la presenza, tra le macerie, di un considerevole numero di mattoni pieni: non determinanti, ad avviso del tribunale, apparivano i provini effettuati sul calcestruzzo dovendosi tener conto, all’epoca di costruzione dello stabile, come riconosciuto dallo stesso consulente delle parti civili prof. Collepardi, della scarsa cura di compattazione effettuata i cantiere, con conseguente caduta di resistenza del 50%.

l’effetto disgregante, altresì, appariva essersi verificato non soltanto sui pilastri del piano interrato, ma anche nei pilastri dei primi ordini di elevazione; ed anche per i pilastri del basamento, benché protetti da ambiente umido, era risultato un valore di resistenza inferiore rispetto ai pilastri laterali, inglobati nella muratura.

E solo suggestivo, a giudizio del tribunale, era il rilievo dei consulenti del PM e delle parti civili secondo cui tanti altri fabbricati edificati nella stessa poca e con caratteristiche similari di costruzione non erano crollati.

La costruzione del palazzo, individuata dal perito d’Asdia come altra causa determinante del crollo; le caratteristiche del calcestruzzo, infatti, prescindono dalle poco attendibili attestazioni del la, conico verbale di collaudo del 25 mag. 1959, non erano risultate corrispondenti alla normativa vigente al momento dell’edificazione del palazzo, avuto riguardo alla presenza di inerti di dimensioni massima di molto superiore a quella prevista dalla legge (3 cm.), alla quantificazione di un dosaggio di cemento inferiore a quello previsto dalla norma (300Kg./metro cubo) ed alla ulteriore quantificazione del rapporto acqua- cemento in misura inferire, quasi del doppio (0, 9- 1, 0 a seconda dei consulenti), a quella fissata dalla prassi del buon costruire dell’epoca (0, 5- 0, 6) ed infine ai risultati dei test di resistenza operati sui campioni prelevati dalle macerie, test sull’attendibilità dei quali non si ritiene potesse aver influito il crollo.

Tutti elementi, quelli appena illustrati, dai quali, conclusivamente, poteva individuarsi un iniziale valore di resistenza, di almeno parte del calcestruzzo, inferiore ai 120 Kg/ cm. quadrato (tenendo sempre presente che il calcestruzzo adoperato era di resistenza minore di quello dei cubetti, pe le condizioni disagiate della posa in opera, avuto anche riguardo alla mancanza di particolari capacità tecniche da parte degli operai ed all’utilizzazione di una piattaforma in legno, tanto è vero che la normativa più recente ha tenuto conto di siffatti condizionamenti prevedendo che la resistenza del calcestruzzo in opera sia una volta e mezza più piccola di quella misurata sui cubetti).

Di tale che, anche la modesta qualità del calcestruzzo aveva contribuito alla propagazione delle micro- fratture atteso che il degrado del conglomerato è tanto più veloce quanto peggiore è la sua qualità iniziale.

Esaurita l’illustrazione delle cause primarie del crollo, individuate nei difetti di progettazione e nella scadente qualità del calcestruzzo impiegato, il tribunale passava quindi ad esaminare la possibile incidenza delle concause, riferibili all’attività della tipografia, che riteneva avessero comunque influito sulla determinazione del crollo.

Al riguardo anzitutto sottolineava, quale dato acquisito in atti, che i pilastri del piano interrato erano risultati sprovvisti dell’intonaco protettivo, intonaco che rispetto ad un calcestruzzo poroso e di modesta qualità, quale quello in esame, avrebbe potuto svolgere una funzione protettiva delle deformazioni conseguenti alle variazioni dei cicli termici ed idrometrici: tuttavia, rilevava il tribunale, non era stato accertato se la mancanza dell’intonaco fosse coeva alla costruzione del fabbricato o se l’intonaco fosse stato rimosso in seguito per aumentare i ristretti spazi all’interno della tipografia.

Prescindendo comunque dalla problematica relativa alla mancata azione protettiva dell’intonaco sui pilastri, osservava il primo giudice, concordemente a quanto ritenuto dal perito d’ufficio, che l’attività della tipografia aveva apprezzabilmente alterato i normali cicli termici ed igrometrici quotidiani, causa l’emissione di calore dovuta ai macchinari, e la conseguente variazione, dal giorno alla notte, dei valori dell’umidità relativa. In particolare, quanto ai cicli termici, il tribunale evidenziava che la variazione di temperatura, specie in presenza di calcestruzzo con inerti di notevoli dimensioni, determina la dilatazione e/o l’accorciamento del volume dell’aggregato rispetto alla massa inerte, facilitando così la creazione di microfratture; e pur tenendo conto del fatto che gli studi scientifici compiuti in tale materia fanno riferimento a variazioni termiche molto elevate, le conclusioni cui pervengono tali studi ben potrebbero riproporsi anche in presenza di sbalzi di temperatura molto più contenuti ma rapportati ad un numero di cicli molto maggiore e prolungato nel tempo (come nel caso in esame in cui il crollo si era verificato dopo circa quarant?anni dalla costruzione dell’edificio ed oltre quindici dall’inizio dell’attività della tipografia).

Il giudicante riconosceva che risultava indubbiamente problematica la quantificazione della differenza di temperatura tra l’interno della tipografia e l’esterno, posto che le sole misurazioni oggettive risultavano essere state effettuate una dall’ing. Soprano ed altra dall’ing. Unisci (5 gradi, fatta eccezione per il locale compressori ove la differenza saliva a 35), misurazioni che non risultava fossero state ripetute o monitorizzate. Riteneva pertanto il primo giudice più affidabile ed oggettivo, come parametro di riferimento, quello ricavabile dalla potenza energetica installata (180 Kw): posto infatti che tutta l’energia delle macchine tipografiche si trasformava in calore, con conseguente riscaldamento dell’aria all’interno del locale, nonché delle pareti e dei pilastri, doveva ritenersi che all’interno del piano interrato vi fosse una temperatura non esattamente quantificabile ma certamente superiore a quella delle normali abitazioni, anche a voler tener conto di un qualche effetto riducente prodotto dall’impianto di ventilazione; la conferma indiretta di un elevato sbalzo di temperatura era poi data dal basso grado di umidità relativa (46%) rilevato dall’ing. Soprano, in considerazione del fatto che proprio l’elevata temperatura rendeva più secca e meno umida l’aria.

Quanto poi ai cicli igrometrici, osservava il tribunale che il valore di umidità relativa rilevato dall’ing. Soprano era più basso di quello normalmente presente a Roma (in relazione anche alle misurazioni effettuate dall’ENEA) come del reato desumibile dalla dimostrata temperatura più alta e dall’influenza esercitata dalla proprietà igroscopica della carta, tenuta in notevoli quantità nel seminterrato: a tale basso livello di umidità relativa, favorendo l’eliminazione dell’acqua tra le particelle di cemento idratato e, per l’effetto, il loro avvicinamento, avrebbe così causato fessurazioni cd da ritiro.

Secondo le stime del consulente di parte civile prof. Collepardi il grado di umidità relativa ideale per prevenire siffatto fenomeno di degrado (suscettibile d’interessare non solo lo strato superficiale delle strutture, ma di entrare in profondità) doveva aggirarsi sul 70- 80%: lo stesso impianto di ventilazione, rendendo più agevole l’evaporazione tramite il ricambio dell’aria, aveva favorito la diminuzione del tasso di umidità relativa.

Osservava ancora il giudicante che ulteriore riscontro all’esistenza all’interno della tipografia di un basso grado di umidità era dato dalla constatata mancanza di segni di corrosione nelle armature in ferro dei pilastri, nonché dal parimenti basso valore di umidità rinvenuto nei campioni di calcestruzzo prelevati dalle macerie (solo il 50% a fronte d’un valore normale dell’ordine dell’80-90 %).

Ulteriore riscontro all’influenza avuta, quale concausa dell’implosione dell’edificio, dagli abnormi sbalzi delle variazioni della temperatura e dell’umidità relativa nei locali della tipografia collocati al seminterrato, veniva infine individuato dal tribunale nello stato dei materiali e dei pilastri quali rinvenuti subito dopo il crollo: infatti la parte di struttura verticale ed i pilastri che si trovavano nel seminterrato erano risultati sbriciolati (significativamente nel seminterrato era rimasto integro il solo pilastro inserito nel terreno, che fruiva quindi maggiore umidità), mentre i pilastri collocati nei piani superiori erano apparsi rotti soltanto a causa della caduta; inoltre le prove di resistenza effettuate sui campioni prelevati avevano evidenziato valori più alti nei piani superiori rispetto a quelli prelevati in corrispondenza dei locali della tipografia.

Un qualche rilievo, ma solo nello stadio finale del degrado del calcestruzzo doveva poi attribuirsi, secondo il tribunale, alle vibrazioni causate dalle macchine stampanti.

Dopo aver risolto, nei termini appena illustrati, la problematica relativa al nesso di causalità, la sentenza (pag. 27) affrontava quella relativa alla sussistenza dell’elemento psicologico dei delitti colposi contestati; elemento soggettivo che il giudicante riteneva sussistere quanto alla colpa generica, sul rilievo che questa, per costante giurisprudenza, può essere individuata e ritenuta anche sotto profili non contestati, non comportando alcuna violazione del principio di immodificabilità dell’imputazione.

Il giudice di prime cure (cfr. pagg. 27,28 e 29 della sentenza) si prospettava anzitutto il problema della configurabilità di una colpa dei responsabili della tipografia, una volta accertato che l’attività della tipografia aveva inciso nella dinamica del crollo solo come concausa rispetto a patologie primarie preesistenti, senza le quali il crollo non sarebbe avvenuto ed alla determinazione delle quali (difetti di progettazione, impiego calcestruzzo scadente) gli imputati erano rimasti ovviamente estranei.

Il tribunale, nel porsi la questione della prevedibilità dell’evento da parte degli imputati, quale presupposto essenziale per la configurabilità della colpa, rilevava che in ogni caso i due amministratori pro- tempore della tipografia avevano omesso di adottare talune misure precauzionali volte a prevenire effetti negativi di minore incidenza rispetto a quelli letali verificatisi ma comunque ad essi propedeutici.

E tali cautele precauzionali, che si ritenevano non osservate, la sentenza le individuava proprio ricollegandosi a quel carattere industriale che, col passare del tempo, la tipografia aveva man mano assunto, carattere industriale che avrebbe comportato per gli amministratori l’obbligo di verificare la compatibilità dell’attività prodotta con l’ambiente circostante, ivi comprese le strutture edilizie.

Osservava in merito il giudicante che se in linea di massima può di certo considerarsi consentito esercitare l’attività tipografica in scantinati, ove si tratti soltanto di lavorazioni artigianali, nel caso in cui l’attività assuma caratteristiche industriali occorre porsi il problema di come l’attività possa essere proseguita in edifici di civile abitazione, i cui seminterrati, nel progetto iniziale, erano desinati a magazzini o, al più, a garage; laddove le attività tipografiche industriali insistono in veri e propri capannoni che non sono più ampi e spaziosi ma appaiono strutturalmente destinati a durare, nel tempo, molto meno delle civili abitazioni: in altri termini sarebbe configurabile, in via generale, un obbligo di diligenza, ragguagliato al rispetto dell’igiene, dell’ordine, della sicurezza nell’uso degli immobili, obbligo tanto più che gli amministratori della tipografia avessero sacrificato qualsiasi altra esigenza alla massimizzazione del profitto (sfruttando ogni spazio disponibile ed addirittura intasandolo con le macchine tipografiche, rimuovendo una trave dalla rampa d’accesso, tenendo a luogo un impianto di ventilazione non funzionante) si da subire ispezioni e rilievi critici reiterati da parte della USL.

Ciò che rilevava, quindi, anche in assenza di violazioni di specifiche norme, era l’inosservanza di quei normali criteri di prudenza e negligenza che nulla hanno a vedere con la conoscenza di leggi scientifiche; sottolineava il tribunale che ai fini del giudizio di prevedibilità dell’evento delittuoso doveva aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso quale poui concretamente verificatosi in tutta la sua gravità ed estensione.

MOTIVI DI APPELLO

Avverso detta sentenza proponevano gravame gli imputati, con articolate deduzioni tendenti in particolare a contestare, per un verso, che la natura industriale dell’attività svolta dalla tipografia avesse potuto danneggiare le strutture edilizie del fabbricato e, per altro verso, avuto riguardo anche a quanto precisato dal primo giudice circa la sussistenza di cause primarie del tragico evento, che sulla dinamica del crollo avessero potuto incidere, sia pure come concausa, le variazioni dei cicli termici ed idrometrici all’interno del seminterrato.

La difesa degli appellanti, al fine di rafforzare e rendere ancor più convincente la tesi sostenuta, sottolineava come la stessa sentenza di primo grado avesse escluso la sussistenza di quei profili di responsabilità indicati nel capo d’imputazione attinenti al presunto sovraccarico derivante da macchinari e dalla carta, d avesse dato un rilievo molto marginale (e comunque contraddittorio) all’incidenza delle vibrazioni prodotte dalle macchine, nonché alla mancanza di intonaco sui pilastri del seminterrato (mancanza che, secondo la difesa degli appellanti, non poteva ritenersi ascrivibile agli imputati, ed a prescindere dal rilievo che nessuna legge o regolamento prescriverebbe l’uso dell’intonaco al fine di proteggere le strutture dei fabbricati).

Quanto ai valori della temperatura, la difesa osservava che la differenza, riscontrata all’ing. Soprano, di 5 gradi tra l’interno e l’esterno, appariva del tutto fisiologica, e che invece risultava infondato, per erronea valutazione dei presupposti, il calcolo eseguito dal consulente del PM Calzona, e recepito dal tribunale, dall’aumento di temperatura desunto alla potenza di energia elettrica impiegata nella tipografia.

In realtà, secondo gli appellanti, i Kw impiegati nel seminterrato non erano 180, bensì 100 (e di questi, come di norma, effettivamente impiegati solo il 50%) dovendo defalcarsi dal totale dei 180 in carico alla tipografia i Kw in uso al locale compressori (del tutto separato dal resto del seminterrato) e quelli utilizzati nel pianterreno (ove operavano altre macchine ad alimentazione elettrica, tipo tagliatrice) e negli altri appartamenti ai piani superiori, nonché comunque i Kw occorrenti per l’illuminazione; in realtà, proseguiva la difesa degli imputati, non si era tenuto conto che le macchine tipografiche hanno bisogno di molta energia solo nella fase di avvio ma, una volta in funzione, consumano ben poca elettricità e, di riflesso, producono ben poco calore.

Con riferimento poi ai valori dell’umidità relativa, osservava ancora la difesa che, una volta ritenuta modestissima la differenza termica tra seminterrato ed esterno, ne conseguiva una altrettanto modesta variazione dei valori igrometrici.

Ad avviso della difesa la misurazione di umidità relativa rilevata dall’ing. Soprano (46%) risultava di pochi gradi percentuali inferiore al valore medio riscontrabile a Roma (circa il 50%): non poteva invero ritenersi attendibile, ad avviso degli appellanti, il calcolo compiuto dai consulenti di parte avversa, secondo cui doveva identificarsi nell’80% il livello di umidità relativa ideale per proteggere il calcestruzzo, posto che in base a tali calcoli bisognerebbe considerare normale per Roma un?umidità relativa quale si riscontra in climi equatoriali.

La difesa aveva prodotto al dibattimento il testo della norma UNI EN 206 che assegna alla classe XO, definita come assenza di rischio, proprio quel calcestruzzo posto all’interno di edifici aventi un?umidità relativa piuttosto bassa (quale, nella sentenza di primo grado, si assumeva essere quella del seminterrato dell’edificio crollato); e non appariva alla difesa pertinente l’obiezione mossa, nella motivazione della sentenza stessa, alla su indicata deduzione difensiva, obiezione che si sostanziava nella individuazione, nell’ambito della stessa normativa prodotta dalla difesa, della classe XC1 (corrosione indotta da carbonatazione), classe che fa riferimento al calcestruzzo sito all’interno di edifici co bassa umidità sulla corrosione delle armature, evento che nella circostanza non si era verificato (ne tanto meno era stato comunque contestato agli imputati).

Concludendo in merito alla presunta sussistenza di un nesso di causalità tra l’attività della tipografia ed il crollo dell’edificio, i motivi d’appello rilevavano che, in via di principio ed anche sulla base di quanto affermato in materia dalle sezioni unite della Cassazione, una condotta può essere considerata come condizione necessaria dell’evento solo se essa rientri nel novero di quelle che, sulla base di una successione regolare conforme ad una generalizzata regola di esperienza o ad una legge dotata di validità scientifica (cd legge di copertura), conducano ad eventi del tipo di quello verificatosi in concreto: e nel concetto di legge di copertura non potrebbe rientrare la ricerca caso per caso alimentata da opinabili certezze o arbitrarie intuizioni personali.

In ogni caso, anche a voler, in denegata ipotesi, ritenere sussistente il nesso di causalità, ad avviso della difesa degli imputati, non appariva riscontrabile, nel comportamento di questi ultimi, l’elemento soggettivo dei reati loro ascritti, e che la stessa sentenza di primo grado aveva caratterizzato come colpa solo generica, non avendo potuto individuare alcuna violazione di specifiche norme di legge o regolamento.

Secondo gli appellanti, non era dato ravvisabile la prevedibilità del crollo dell’edificio, stante il carattere silente del degrado ed il necessario corredo di particolari cognizioni tecniche e specialistiche, come affermato dal perito prof. d’Asdia, per individuare un qualche segno premonitore; risultavano significative del resto, come prova dell’apparente buona tenuta dell’immobile, le deposizioni dell’ing. Soprano e dell’arch. Diana e degli stessi parenti delle vittime fratelli F. (al di la di un riferimento ad una porta di casa che non si chiudeva bene).

In siffatto contesto appariva arduo, a giudizio della difesa, configurare un dovere, per gli esercenti l’attività tipografica, di verificare la stabilità delle strutture edilizie e l’esistenza di eventuali vizi pregressi, tanto più che è pacifico che a Roma ed in Italia numerosissime sono le tipografie che operano in scantinati o seminterrati.

Quanto poi all’obbligo che, secondo il primo giudice, incomberebbe ad ogni imprenditore di prevedere e prevenire i pericoli che possono derivare all’ambiente dall’impatto con la sua attività produttiva, tale obbligo sarebbe configurabile in materia di tutela del lavoro, della salute ed in genere dei beni cd ambientali, ma non potrebbe assolutamente rapportarsi, nel caso in esame, all’evento del crollo; tanto più che la tipografia aveva chiesto ed ottenuto, contrariamente a quanto affermato in sentenza, il mutamento della destinazione d’uso della parte del fabbricato di sua pertinenza.

In conclusione, secondo gli appellanti, il contenuto degli obblighi di diligenza e prudenza non potrebbe spingersi sino al punto da richiedere un controllo totale sull’attività illecita perpetrata da terzi, in forza del cd principio di affidamento: diversamente opinando, si finirebbe per svilire di contenuto il carattere personale della responsabilità penale.

Infine, e solo in via subordinata, la difesa sollecitava la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale tramite l’affidamento d’una perizia volta ad accertare quale fosse la condizione ambientale, sotto il profilo termico, del seminterrato, ritenendo non supportate da adeguata competenza specifica nel settore le conclusioni cui era pervenuto il consulente del PM prof. Calzola, riprese dalla sentenza impugnata.

La sentenza di primo grado veniva sottoposta a critica anche da talune parti civili, con memoria depositata nell’imminenza del giudizio di secondo grado, ma da un?ottica del tutto opposta a quella della difesa degli imputati, con argomentazioni finalizzate, per un verso, ad escludere la prevalenza, affermata invece nella sentenza di primo grado, nella genesi dell’evento, di iniziali errori di progettazione e di costruzione, e, per altro verso, a sostenere la tesi secondo cui causa determinante del crollo dell’edificio sarebbe stata solo l’irresponsabile condotta degli amministratori della tipografia.

In particolare si contestava che la qualità del calcestruzzo adoperato per la costruzione fosse modesta e che i valori di resistenza fossero inferiori a quelli regolamentari: si osservava in proposito che le analisi effettuate dai consulenti di parte (le prove di resistenza iniziale sui cubetti) avevano indicato per le strutture non collocate al seminterrato, e quindi non soggette al degrado derivante dall’esercizio dell’attività tipografica, un valore medio di 180 Kg/cm quadrato, mentre ottimi valori di resistenza erano stati rinvenuti nel calcestruzzo interrato nel sotterraneo; e, come ulteriore riscontro, venivano richiamate le immagini, proiettate al dibattimento, registrate dai vigili del fuoco su videocassette in occasione dei lavori di sgombero delle macerie, immagini che avrebbero evidenziato la particolare resistenza opposta alla demolizione dagli elementi strutturali appartenenti ai piani superiori rispetto a quelli del piano interrato.

Ancora, nella memoria delle parti civili si affermava che non esisteva prova alcuna che all’epoca della costruzione del palazzo fosse prassi del buon costruire confezionare calcestruzzo con rapporto acqua- cemento intorno a 0, 5- 0, 6: più in generale, mal si concilierebbe la asserita scadente qualità del calcestruzzo impiegato con l’accuratezza del progetto e della sua realizzazione, documentata dalla realizzazione di cordoli di collegamento tra i vari plinti delle fondazioni, pur non essendo tale ulteriore accorgimento previsto dalla normativa all’epoca vigente ne da quella attuale.

Quanto poi al ritenuto sottodimensionamento dei pilastri (per i quali non esisterebbero misure standard, avendo rilievo solo il rapporto tra il valore di compressione e i valori di resistenza del calcestruzzo), di cui aveva parlato il perito prof. d’Asdia, le parti civili osservavano che a voler ritenere esatti i calcoli effettuati dal perito, il palazzo sarebbe dovuto crollare subito dopo la sua costruzione e non sarebbe rimasto in piedi per quarant?anni.

La memoria esaminava infine le valutazioni critiche formulate nei motivi di appello presentati dalla difesa, rilevando che proprio sulla base dei dati elencati nella pubblicazione dell’ENEA citati dalla difesa per sostenere che la percentuale di umidità relativa nell’interno era molto vicina ai valori medi della capitale, risultava invece che la media in Roma sarebbe del 79% e quindi di molto superiore alla percentuale del 46% riscontrata nella tipografia.

Ribadivano poi le parti civili che, a loro avviso, sia la macchina tipografica FUJI, che ingenti quantità di carta, erano collocate al pianterreno, con le pesanti conseguenze sul sovraccarico accidentale del solaio del locale (dato che la sola macchina tipografica aveva un peso di cinque volte superiore al sovraccarico tollerabile dal solaio del piano terra).

Si contestava, al riguardo, l’affermazione della sentenza di primo grado secondo la quale, sulla base delle fotografie riprese subito dopo il crollo, al di sotto della macchina Fuji, rovesciata, era visibili un pezzo di solaio con piastrelle appartenente al piano superiore all’interrato, circostanza ricollegabile, secondo il tribunale, ad un successivo capovolgimento, derivato dall’utilizzo della ruspa da parte dei VV.FF.: osservava la memoria delle parti civili che, invece, proprio la presenza di quel pezzo di pavimento costituiva la prova che la Fuji era appoggiata sul pavimento del piano terra; quanto alla presenza di carta al piano terra, essa risultava provata, secondo la difesa delle parti civili, dalle deposizioni di numerosi testi, i quali avevano affermato di avere visto dei bancali ivi accatastati, e dai filmati che avevano evidenziato la presenza dei frammenti di solaio al di sotto di materiale cartaceo.

Siffatti elementi, concludeva la memoria delle parti civili, deponevano per un crollo iniziale del pilastro n. 17 (proprio quello presso cui insistevano, secondo la ricostruzione così effettuata, l’abnorme quantità di carta e la macchina tipografica Fuji): il che spiegava (trovandosi il pilastro n. 17 nella parte sinistra del palazzo) come mai buona parte delle macerie si era raccolta sulla parte sinistra del fabbricato (visto da via vigna Jacobini).

Nell’insistere per la conferma della sentenza impugnata, la memoria delle parti civili sollecitava comunque, in subordine, la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale onde procedere ad una nuova visione dei già citati filmati realizzati dai Vigili del Fuoco.

LA SENTENZA DI II GRADO

La Corte di appello di Roma confermava l’affermazione di colpevolezza pronunciata dal primo giudice nei confronti degli imputati, ridimensionando peraltro il trattamento sanzionatorio entro limiti che consentivano la concessione, ad entrambi i pervenuti, dei benefici di legge.

La corte di merito motivava il proprio convincimento seguendo un percorso argo, tentativo diffuso ed articolato, nonché caratterizzato da ampi richiami e riferimenti agli elementi probatori acquisiti ed alle argomentazioni già svolte dal primo giudice in quanto ritenute condivisibili ed ancorate alle risultanze processuali, disattendendo, quindi, sia le deduzioni degli imputati appellanti, sia quelle contenute nella memoria delle parti civili, sul rilievo che le stesse non apparivano idonee a scalfie le conclusioni cui era pervenuto il tribunale.

I giudici di seconda istanza ritenevano dunque di dover condividere, nella sentenza, le argomentazioni addotte dalla sentenza di primo grado in quanto riscontrate dalle risultanze processuali ed in particolare dall’ampia, penetrante ed esaustiva disamina espletata in ordine alle cause del crollo, tale da indurre a considerare superfluo un ulteriore accertamento, sollecitata dal PG (il quale nel merito aveva concluso per l’assoluzione degli imputati per insussistenza del fatto ai sensi del capoverso dell’art. 530 c.p.p.), e, in via subordinata, anche dalla difesa, nonché da alcuni difensori di parte civile, disamina articolatasi (dopo l’espletamento, nella fase dell’indagini preliminari, di consulenze tecniche, . E nel corso dell’udienza preliminare, di una perizia) nel dibattimento di primo grado, in un serrato ed approfondito contraddittorio tra il perito ed i consulenti di tutte le parti, con corredo di memorie e di produzione documentale.

In particolare la Corte territoriale precisava quanto segue: per ciò che riguarda il primo profilo di responsabilità adombrato dall’impugnata sentenza nei confronti del progettista e del costruttore dello stabile, e cioè il sottodimensionamento dei pilastri, convincenti apparivano i rilievi del perito nominato in sede d’incidente probatorio: i calcoli effettuati dall’ing. d’Asdia indicavano per i pilastri stessi (sul presupposto che il calcestruzzo avesse una resistenza non inferiore a 120 Kg per cm quadrato) un rapporto tra i valori medi di compressione e valori medi di resistenza del calcestruzzo superiore, nei primi tre ordini, ai 60 Kg per cm quadrato)e per taluni pilastri prossimo o superiore agli 80Kg) a fronte di un valore massimo consentito, dalla normativa vigente all’epoca, di 35 Kg per cm quadrato: con la conseguenza che le dimensioni ei pilastri previsti nel progetto (le cui misure non risultavano contestate) erano nella maggior parte dei casi nell’ordine di grandezze della metà (o anche meno) di quanto consentito; ne apparivano decisive le censure mosse dai consulenti di parte civile ai calcoli di tale sovraccarico compiuti dal perito, tenuto anche conto della cura che il perito aveva avuto nell’individuare una forbice tra valori minimi e massimi nel calcolo dei pesi permanenti, stante l’incertezza della precisa quantificazione di talune componenti dei sovraccarichi medesimi: gli stessi calcoli controdedotti dai consulenti delle parti civili concordavano per un valore medio di compressione del calcestruzzo di 60- 65 Kg per cm quadrato, si che per ritenere rispettato il rapporto prescritto dalla normativa di 35 Kg per cm quadrato i consulenti di parte civile dovevano arrivare a ritenere un valore di resistenza del calcestruzzo estremamente elevato (288Kg/ cm quadrato), valore non sostenibile; il perito d’Asdia e la sentenza di primo grado avevano evidenziato altro difetto strutturale del progetto e/o della sua esecuzione sul quale non via era stata controdeduzioni da parte dei consulenti, e cioè la palese inadeguatezza delle armature dei pilastri del seminterrato (per quelli degli ordini superiori non essendo stato possibile effettuare un riscontro), come tali più esposti alle sollecitazioni dei carichi, rispetto alla normativa all’epoca vigente, sia per quanto riguardava l’entità delle barre verticali (in molti casi di area notevolmente inferiore allo 0, 8% previsto), sia relativamente al numero delle staffe, il cui interasse era risultato sempre uguale o superiore ai 30 cm e, quindi, ben maggiore delle prescrizioni di normativa, dell’ordine di 15- 20 cm; ne convincente appariva l’argomentazione addotta dai consulenti di parte civile secondo cui ove realmente vi fosse stato nell’edificio un così vistoso sottodimensionamento dei pilastri, lo stabile sarebbe crollato presto e non sarebbe durato quarant?anni: bastava replicare, infatti, che il perito aveva ben chiarito che l’azione del cd carico protratto e ciò l’effetto prolungato, nel tempo, di una compressione sulle strutture, superiore ai valori consentiti, dei sovraccarichi, che prima o poi porta al collasso delle strutture medesime; quanto poi all’ulteriore addebito mosso dal perito ai costruttori, e cioè quello di aver adoperato una qualità di calcestruzzo scadente o comunque no regolamentare, esso appariva più che ragionevolmente riscontrato sia dalla contestata (e non contestata) presenza nel calcestruzzo di numerosi inerti con dimensione nettamente superiore a quella di tre cm prescritta dalla normativa all’epoca vigente (arrivando sino a 9 cm), sia dal parimenti riscontrato rapporto acqua- cemento aggiratesi sullo 0, 9 e nettamente superiore a quello di 0, 5- 0, 6 previsto, signi0ficativamente, dalla buona prassi di costruire dell’epoca; tali dati apparivano certamente influenti in misura negativa sulla capacità di aggregazione della pasta cementizia, sulla sua porosità e sulla creazione di microfratture e, per l’effetto, sulla sua resistenza (come riconosciuto, specie quanto al rapporto acqua- cemento, nel suo manuale, dallo stesso consulente di parte civile prof. Collepardi); resistenza che, se, in condizioni ottimali di qualità del calcestruzzo, con particolare riguardo al rispetto delle dimensioni degli inerti e del rapporto acqua. Cemento, tende col tempo ad aumentare, per converso, in presenza di patologie, quali quelle sui indicate, fatalmente diminuisce col passare degli anni; conseguentemente il valore della resistenza stessa, se non per tutti, certamente per una parte dei pilastri non poteva certo raggiungere quei valori che gli avevano attribuito i calcoli dei consulenti di parte civile, : da un lato i carotaggi, effettuai con particolare cura dai consulenti del PM (e scartando pertanto i reperti più danneggiati dal crollo) evidenziavano valori di resistenza in genere non superiori, ed in taluni casi inferiori, al valore minimo di 120 Kg; d’altro lato, quanto al rilievo che le parti civili avevano attribuito al cd sistema dei cubetti (per cui il valore medio di resistenza del calcestruzzo era misurato su quattro cubetti scartando il valore più basso), non poteva trascurarsi (come era stato affermato anche dalla consulenza del PM e riconosciuto nel predetto manuale sul cemento armato del prof. Collepardi che, lavorandosi (all’epoca) il calcestruzzo in cantiere, ed in piccole quantità, era inevitabile, in difetto di particolari capacità tecniche da parte degli operai e per le condizioni più disagiate di lavoro, che si favorisse il determinarsi di diversi livelli di resistenza, tra i vari pilastri, del calcestruzzo medesimo; ne derivava che, proprio per le considerazioni sopra esposte, la resistenza del calcestruzzo concretamente messo in opera era inferiore a quella misurata, prima della lavorazione, col predetto sistema dei cubetti.

Affermato pertanto, conformemente a quanto ritenuto nella sentenza di primo grado, e3d in difformità da quanto sostenuto dalle parti civili, che le cause primarie del crollo dell’ed0ificio andavano individuiate nei sopra illustrati errori di progettazione e di costruzione (con particolare riguardo all’insufficiente armatura dei pilastri ed alla modestissima qualità del calcestruzzo anche in riferimento alla normativa all’epoca vigente), la Corte distrettuale non riteneva peraltro di poter condividere la tesi della difesa secondo la quale nessuna influenza sulla determinazione dell’evento delittuoso, neanche a livello di concausa, avrebbe avuto l’attività svolta dalla tipografia S. Paolo.

Di certo ben poteva convenirsi con la difesa che non per tutti i segmenti di condotta attribuiti dal capo di imputazione ai responsabili della tipografia era risultata dimostrata, con la necessaria certezza, la loro incidenza, come concausa, sul verificarsi del crollo; in particolare non vi era prova (come del resto rilevato già dalla sentenza di primo grado) che i responsabili della tipografia avessero rimosso l’intonaco dai pilastri del seminterrato, potendo più ragionevolmente ritenersi che sin dall’atto della costruzione del fabbricato i pilastri fossero rimasti privi di intonaco (la questione della funzione protettiva dell’intonaco poteva acquisire un qualche rilievo nell’ambito dell’incidenza sull’evento del fattore umidità); parimenti doveva plausibilmente escludersi un?incidenza delle vibrazioni causate dai macchinari della tipografia (che la stessa perizia del prof. d’Asdia aveva circoscritto, comunque, ed in misura trascurabile, agli ultimi giorni di vita dello stabile) in quanto appariva assorbente la considerazione che vibrazioni, in misura appena apprezzabile, dei macchinari avrebbero anzitutto prodotto effetti negativi sulla carta stampata dai macchinari medesimi; ed, ancora, non risultava provato il sovraccarico dei solai del piano terreno, non potendosi ritenere certe ne la collocazione della macchina tipografica Fuji in predetto piano (non univoca essendo l’interpretazione ricavabile dalle immagini riprese alle video cassetta dato che la macchina, pur essendo stata, dopo il crollo, ripresa adiacente ad un palazzo di pavimento del pian terreno, non trovatasi nella posizione originaria ma era capovolta), ne la presenza per un tempo apprezzabile e per quantitativi consistenti di bacali di carta nei predetti locali del piano terra (laddove poteva invece ritenersi esaustivamente provata la presenza quasi costante di notevoli quantitativi di carta nel piano interrato). Infine, poteva anche ritenersi dubbia l’incidenza, valutata in se stessa, della temperatura all’interno del seminterrato, che, pur se superiore a quella degli atri locali dello stabile (sia per il calore comunque prodotto dai macchinari, sia per il sovraffollamenti di cose e di persone determinatosi specie dopo l’evoluzione a livelli industriali dell’attività della tipografia), non poteva comunque ritenersi estremamente elevata dovendosi sul punto i calcoli effettuati sulla base dei consumi dell’energia elettrica, citati in sentenza, parzialmente ridimensionarsi alla luce delle considerazioni, documentate, avanzate sul punto dalla difesa nei motivi di appello; e, del resto, lo stesso consulente delle parti civili, prof. Collepardi, aveva riconosciuto, in dibattimento, che più che la variazione termica aveva inciso la scarsa umidità.

Riteneva la Corte di appello che, appunto, proprio il segmento di condotta attinente del seminterrato, aveva inciso, sia pur solo come concausa, nella determinazione del tragico evento.

In proposito la corte stessa evidenziava che: in via generale non appariva fondata la considerazione della difesa secondo la quale non sarebbero riscontrabili generalizzate regole d’esperienza secondo cui un basso indice di umidità relativa influisce sul degrado delle strutture del cemento armato; plurime risultanze processuali evidenziavano invece, con adeguata concordanza, come sul degrado per ritiro e micro- fessurazione incida, in via di principio, indubbiamente la permanenza delle strutture di cemento armato in ambiente secco e comunque poco umido specie ove la qualità del calcestruzzo (e, per l’effetto la quantità della pasta cementizia) siano tutt?altro che ottimali; non solo, infatti, siffatta regola d’esperienza era stata affermata, con richiamo a letteratura scientifica (testi del Turrizani e del Neville) dal consulente del PM prof. Calzona ed era stata fatta propria anche nelle conclusioni del perito prof. d’Asdia; ma soprattutto appariva significativa, al riguardo, la convergenza, sul punto, di pubblicazione sia del consulente di parte civile prof. Collepardi che di quello della difesa prof. Rossetti: infatti secondo il Collepardi (cfr. pag. 141 del testo prodotto agli atti) in aria non satura di umidità, cioè umidità relativa inferire al 95%, il calcestruzzo tende a cedere acqua all’ambiente e si osserva così il ritiro igrometrico, fenomeno da ritenere particolarmente pericoloso?possono generarsi ritiri differenziati che, a loro volta, sono causa di tensioni e quindi della comparsa di fessurazioni da ritiro? l’entità del ritiro dipende dalla quantità doi pasta di cemento?; secondo il Rossetti (cfr. pag. 230 del testo prodotto in atti) il ritiro da essiccamento o ritiro igrometrico del calcestruzzo indurito dovuto al ritiro della cementizia è un fenomeno che si manifesta in tutti gli elementi costruttivi mantenuti ad umidità relativa minore del 95%? tale ritiro può causare fessurazioni? esso si sviluppa lentamente e per tempi molto lunghi .. l’entità del ritiro dipende dalla quantità della pasta di cemento?; per converso, non appariva pertinente, alla confutazione di quanto esposto, il dato, citato dalla difesa, emergente dal testo della norma UNI EN 206 che assegnava alla classe XO, definita come assenza di rischio, il calcestruzzo posto all’interno di edifici aventi umidità relativa molto bassa; dal cennato testo si rilevava infatti che il rischio paventato in siffatte classi di esposizione non era quello del ritiro igrometrico e dalla conseguente fessurazioni dell’agglomerato cementizia, bensì quello della corrosione delle armature; conseguentemente, non poteva condividersi l’assunto della difesa secondo il quale nella concreta fattispecie non sarebbe individuabile la legge di copertura ma ci si troverebbe di fronte soltanto a opinabili certezze o arbitrarie intuizioni personali; precisava la Corte territoriale al riguardo che, quanto alla specifica situazione oggetto del presente processo, non appariva contestabile che nel seminterrato adibito a tipografia fosse rilevabile un tasso di umidità relativa nettamente inferiore a quello usuale nella città e comunque agli standard previsti dalla succitata regola d’esperienza illustrata: invero era pacifico che l’ing. Soprano aveva rilevato, in tempi di poco antecedenti il crollo, un valore di umidità relativa pari al 46%, il quale (e sul punto venivano richiamate le misurazioni effettuate dall’ENEA e prodotte in atti) appariva nettamente inferiore ai valori medi dell’umidità relativa riscontrabili nella capitale (a Roma Fiumicino da un valore minimo del 72% nel mese di luglio ad un valore massimo del 77% nei mesi di novembre e dicembre; a Roma Urbe da un valore minimo del 68% a luglio ad un valore massimo dell’80% a dicembre); ne pertinente appariva l’osservazione della difesa secondo cui considerare normale a Roma un?umidità intorno al 75- 80% significherebbe ritenere normale un clima equatoriale, palesandosi corretti sul punto, i rilievi mossi in sede di memoria dalle parti civili secondo cui non bisogna confondere tra il dato attinente all’umidità assoluta (o specifica) e quello (che qui interessa) concernente l’umidità relativa; e riscontri alla fondatezza del dato rilevato dall’ing. Soprano si rinvenivano, altresì, in quelìi dati acquisiti dai consulenti del PM (e non contestati), secondo i quali le armature in ferro dei pilastri non presentavano segni di corrosione (effetto tipico di un alto grado di umidità specie nei confronti di un calcestruzzo poroso e soggetto a micro fessurazioni quale quello messo in opera per lo stabile in questione), ed i reperti del piano seminterrato non conglobati nel terreno avevano valori di umidità notevolmente inferiori a quelli dei piani superiori (consulenza del prof. Calzona: 50% a fronte di un valore normale dell’80%), nonché, ancora, nella considerazione che la presenza nel seminterrato (per evidenti esigenze inerenti la lavorazione, col passar degli anni sempre più cospicua e comunque dimostrata dalle riprese effettuate dai VV.FF. nonché dalle deposizioni testimoniali assunte) di notevoli quantità di carta (la quale, come noto, ha incontestabili proprietà igroscopiche) aveva necessariamente influito sul regime secco (cioè con modesti valori di umidità relativa dei locali predetti; e se potevano esprimersi riserve, in mancanza di più concrete evidenze, sulla rilevanza delle esposizioni dei testi G. e R., laddove costoro avevano parlato di un a scarsa resistenza opposta agli stop delle travi del seminterrato all’atto dell’installazione dell’impianto di ventilazione, non altrettanto poteva affermarsi quanto all’oggettiva constatazione per cui, all’atto della rimozione delle macerie, era stato riscontrato un vero e proprio sfarinamento elle strutture del solo piano interrato, non spiegabile soltanto col maggiore degrado subito dai pilastri del seminterrato a causa dei difetti di progettazione e costruzione evidenziati.

Ulteriormente non poteva negarsi, ad avviso della corte di appello, che sulla determinazione del predetto regime secco avessero in qualche modo influito sia i valori più elevati della temperatura esistenti in detti locali, conseguenti, come già osservato, calore comunque prodotto dai macchinari (anche a voler ritenere, come sostenuto dalla difesa, che la maggior quantità di calore si produce nella fase di avvio di detti macchinari) ed all’intasamento creato nell’ambiente dall’abnorme presenza di persone e macchine, sia, negli ultimi tempi, anche se in dimensione certamente più contenuta di quella contestata nel capo di imputazione, l’installazione del nuovo impianto di ventilazione, per la diminuzione dell’umidità derivante dal ricambio dell’aria (consulenza Collepardi).

Osserva infine la corte che la mancanza comunque di intonaco protettivo sui pilastri (anche se non poteva sostenersi che fosse stato rimosso uno strato preesistente) aveva favorito la capacità (accelerando i tempi) di disidratazione delle strutture.

Conclusivamente, valutati tutti i sopra illustrati fattori, presi in esame nel loro reciproco e globale concatenarsi, non appariva seriamente contestabile, ad avviso della corte di merito, che detti attori avevano determinato, nel seminterrato adibito a tipografia, un valore di umidità relativa nettamente inferiore rispetto a quello indispensabile per prevenire l’accentuazione del degrado e della micro fessurazione di un conglomerato cementizio, che, nel concreto, si presentava già poroso e non conforme alla normativa ed alla prassi del buon costruire vigente all’epoca della sua messa in opera; con la conseguenza che, in un contesto, quale quello già ampiamente evidenziato, in cui l’equilibrio statico dello stabile era già compromesso dal sottodimensionamento dei pilastri, dalla inadeguatezza dell’armatura dei pilastri stessi e dal lento degrado del calcestruzzo, il predetto valore di bassa umidità relativa determinatosi, quanto meno a partire dalla fine degli anni ?80, nei locali del seminterrato, aveva accelerato il verificarsi dell’evento crollo anticipato, anzi tempo, il precipitare di quella condizione di equilibrio precario.

Passando poi ad occuparsi dell’elemento psicologico (precisato nel capo di imputazione sotto il profilo della colpa generica) del reato contestato, la corte territoriale ne affermava la configurabilità muovendo dal presupposto della ritenuta sussistenza a carico dei titolari della tipografia, in base ad elementari criteri di diligenza e prudenza, di un onere di verifica della fattibilità della trasformazione dell’attività, da artigianale ed industriale, in quel, medesimo contesto spaziale sotto ogni possibile profilo: certamente di tutela dell’igiene, dell’ambiente, della salute dei lavoratori, ma anche della sicurezza, avuto riguardo alla possibile incidenza dell’attività industriale sulle strutture edilizie.

A supporto del convincimento così espresso, la corte di merito sottolineava che talune situazioni di fatto create dall’attività della tipografia, pur dovendo escludersi, sulla base degli accertamenti tecnici, una loro incidenza sulla determinazione dell’evento, apparivano emblematiche ed indicative di un atteggiamento di negligenza e trascuratezza da parte degli imputati in ordine alla problematica della stabilità delle strutture: la parziale demolizione di un trave in corrispondenza dell’accesso al seminterrato, onde far transitare l’automezzo che trasportava la carta e i prodotti lavorati, ed il progressivo abnorme intasamento di macchinari e di mezzi di manovra nel seminterrato stesso che finivano per collocarsi a pochi centimetri dai pilastri fino ad urtarli.

Quanto al trattamento sanzionatorio, pur non essendo stata la dosimetria della pena oggetto di specifico motivo di gravame, la corte, di ufficio, riteneva peraltro di dover rideterminare la pena inflitta dal primo giudice, riducendola, alla luce di una valutazione ponderata dei criteri indicati nell’art. 133 c.p. (tenuto in particolare conto dell’elevata e preponderante incidenza, nella determinazione causale dell’evento, di condotte di terzi non riferibili agli appellanti), a quella di anni due di reclusione che rendeva giuridicamente possibile la valutazione della concedibilità dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato penale: al riguardo la corte formulava un giudizio prognostico favorevole ritenendo gli imputati meritevoli di entrambi i benefici.

MOTIVI DI RICORSO

Ricorrono per cassazione gli imputati, tramite i difensori avvocati F.C. e F.M., deducendo, con unico atto di gravame, due motivi, entrambi sotto il profilo del vizio di motivazione, con articolate e diffuse argomentazioni svolte dopo un preliminare e sintetico richiamo al fatto ed alle sentenze di primo e secondo grado.

I ricorrenti focalizzano l’attenzione innanzi tutto sulla questione concernente il nesso di causalità tra la condotta, quale descritta e contestata con il capo di imputazione, e l’evento, ed affermano che la corte d’appello, dopo aver escluso che nei locali della tipografia vi fosse un?elevata temperatura, avrebbe fondato la sua convinzione, circa la ritenuta sussistenza del rapporto di causalità, fra l’attività della tipografia e il crollo, su un unico argomento: la presunta esistenza nella tipografia di un clima secco, caratterizzato cioè da un tasso di umidità relativa basso rispetto ai normali valori presenti a Roma, che avrebbe accelerato il processo di deterioramento del calcestruzzo, già di per se di scarsa qualità.

Ma, si sostiene nel ricorso, una volta escluso che nei locali della stamperia vi fosse un?alta temperatura, la motivazione della sentenza sembrerebbe palesemente illogica, posto che, secondo un principio noto in fisica, l’umidità relativa dipende essenzialmente dalla temperatura, ed i cicli di temperatura e quelli di umidità sono strettamente connessi: con la conseguenza che l’aumento della temperatura porterebbe ad una diminuzione rilevante dell’umidità relativa e viceversa: di tal che, affermano i ricorrenti, se non voi sono fonti di umidità ne anomali assorbimenti, cioè se l’umidità assoluta o specifica, che rappresenta il reale contenuto di vapore d’acqua disciolto in una certa quantità d’aria, rimane costante, l’umidità relativa varia esclusivamente in funzione della temperatura: dovrebbe conseguentemente dedursi, sotto il profilo logico, che l’umidità relativa nel locale della stamperia era normale, nel senso che le sue variazioni esclusivamente dai cicli termici naturali (inverno/estate, giorno/notte).

Affermando poi i ricorrenti che nei locali chiusi, protetti da porte, finestre o lucernari, com?era l’ampio locale della tipografia, la temperatura sarebbe sempre superiore di alcuni gradi rispetto a quella esterna, anche in assenza di riscaldamento: e, posto che la temperatura è inversamente proporzionale all’umidità (più alta è la temperatura e più basse è l’umidità relativa), ne discenderebbe che nei locali chiusi, come la stamperia, l’umidità dovrebbe essere più bassa rispetto all’esterno.

Secondo l’assunto dei ricorrenti, dunque, sul piano logico e scientifico, l’umidità del locale interrato non poteva essere diversa da quella tipica riscontrabile fra qualsiasi ambiente chiuso (privo di aria condizionata e riscaldamento) e l’esterno, così come erano tipici i cicli termici nel senso che rispecchiavano quelli naturali dipendenti dalla differenza di temperatura fra giorno e notte, inverno ed estate.

Evidenziano poi i ricorrenti che il ragionamento dei giudici dell’appello sarebbe inficiato da un errore di fatto di partenza, laddove nella sentenza impugnata risulta affermato che l’ing. Soprano aveva rilevato nei locali della tipografia, in tempi di poco precedenti il crollo, un valore di umidità relativa pari al 46%, nettamente inferiore ai valori medi di umidità relativa riscontrabili nella capitale.

Muovendo dal rilievo che il confronto tra due dati può avere un senso solo ove si tratti di due dati omogenei, i ricorrenti sostengono che l’errore della sentenza impugnata consisterebbe nell’aver confrontato l’umidità relativa (pari al 46%) misurata all’interno dei locali della tipografia dall’ing. Soprano, in ora diurna del mese di aprile, con quella media della città di Roma, calcolata però con riferimento al solo mese di aprile, che era l’unico dato omogeneo e quindi corretto, bensì su base annua e inglobando altresì i valori notturni notoriamente più alti, di quasi il doppio, di quelli diurni.

In tale modo, la sentenza impugnata avrebbe posto a confronto due dati disomogenei, posto che i valori di umidità sono notevolmente diversi nelle varie stagioni dell’anno e nelle ore diurne rispetto a quelle notturne.

In altri termini, si precisa nel ricorso, per stabilire se il valore di umidità relativa (46%) misurato dall’ing. Soprano fosse effettivamente inferiore a quello usuale nella città, come affermato nella sentenza impugnata, si sarebbe dovuto procedere al confronto tra detto valore ed il suo dato omologo, vale a dire il dato medio diurno di aprile che, sulla base della pubblicazione dell’ENEA, sarebbe pari al 51%: e ciò senza considerare che la temperatura al centro abitato di Roma è certamente maggiore di quella dell’aeroporto dell’urbe o di Fiumicino per la presenza in città di numerosissime fonti di calore.

Eliminato dunque l’errore in cui sarebbe incorsa la sentenza impugnata, ne deriverebbe, ad avviso dei ricorrenti, che l’umidità relativa all’interno della stamperia era perfettamente conforme alla norma, e che, conseguentemente, sarebbe del tutto apodittica l’affermazione dei giudici di appello secondo cui all’interno della tipografia vi era un tasso d’umidità inferiore a quello normale.

I ricorrenti si soffermano poi sull’illustrazione di un nuovo impianto di ventilazione che, secondo l’impugnata sentenza, avrebbe in qualche modo contribuito negli ultimi tempi, anche se in dimensione più contenuta di quella contestata nel capo d’imputazione, alla determinazione del clima secco all’interno dei locali della tipografia, e ciò per la diminuzione dell’umidità in conseguenza del ricambio dell’aria.

Tale ultima affermazione sarebbe, ad avviso dei ricorrenti, apodittica e scientificamente errata, atteso che: l’impianto di ventilazione, già esistente all’interno della tipografia, era stato potenziato per disposizione delle autorità preposte al controllo della salute dei lavoratori; detto impianto serviva esclusivamente ad allontanare dalla tipografia eventuali tracce di vapori di inchiostro, ritenuti nocivi per gli operai, raccolti poi da filtri in uscita; l’impianto, quindi, non serviva ad agitare l’aria all’interno dei locali, come i piccoli ventilatori casalinghi usati nella stagione calda, ma unicamente ad assicurare un ricambio efficiente mediante l’uso di pompe d’aria che aspiravano l’aria esterna, fresca ed umida, attraverso i condotti di entrata e spingevano fuori l’aria viziata attraverso i condotti di uscita; la funzione di un impianto di questo tipo è simile a quella di un?apertura della finestre di un normale appartamento per far cambiare l’aria: l’unica differenza consiste nel fatto che il ricambio naturale a finestre aperte è più lento perché si basa in gran parte sulla lenta diffusione delle molecole d’aria, mentre quello ottenuto con pompe per aria è più veloce; l’aria, in un impianto di questo tipo, non viene in alcun modo trattata o condizionata, cioè non è ne riscaldata, ne raffreddata, ne umidificata, ne resa più secca: per cui l’effetto dell’impianto è quello di rendere l’aria interna molto simile all’aria fresca esterna che affluisce continuamente scacciando l’aria viziata; di conseguenza anche l’umidità dell’aria interna diventa molto simile all’umidità dell’aria esterna, nel senso che rispecchia il ciclo dell’umidità naturale; donde la impossibilità che il ricambio dell’aria attraverso il sistema di ventilazione contribuisse a determinare un clima secco all’interno della tipografia: semmai sarebbe vero il contrario, posto che l’impianto di ventilazione, immettendo aria più fresca dall’esterno, abbassava la temperatura e quindi determinava il rialzo dell’umidità relativa nella tipografia; l’errore dei giudici dell’appello potrebbe trovare spiegazione solo supponendo che gli stesi abbiano confuso il concetto di ricambio dell’aria con quello di condizionamento: ciò in quanto solo attraverso il condizionamento l’aria può essere artificialmente raffreddata o riscaldata e quindi resa più secca o più umida mediante l’uso di apposite apparecchiature, inesistenti nel caso di specie.

Quanto poi alla presenza di notevoli quantità di carta all’interno della tipografia, annoverata dalla sentenza impugnata come altra possibile causa del clima secco, i ricorrenti sostengono che la tesi sostenuta al riguardo dai giudici di appello sarebbe priva di fondamento.

Si afferma nel ricorso, in proposito, che nel caso in esame non sarebbero in discussione la capacità igroscopiche della carta in relazione all’acqua liquida, di cui certamente la maggior parte dei tipi di carta si impregna facilmente, bensì le capacità igroscopiche della carta in relazione all’umidità disciolta nell’aria, di cui le normali carte da stampa non si impregnerebbero affatto.

Si ricorda nel ricorso che il più noto, a livello internazionale, manuale di ingegneria chimica e fisica (Chemical Enginering Handbook, ed. Mc Grow Hill, New York, sez. 16) non cita affatto la carta ta i materiali aventi specifiche capacità igroscopiche di particelle in fase gassosa, ovvero capacità di assorbire vapori all’aria aperta o in altri ambienti aeriformi; e ciò in virtù del fatto noto, almeno a livello scientifico, che la carta da stampa contiene già di per se una certa specifica percentuale di acqua, derivante dalla pasta semiliquida da cui la carta è stata ricavata.

Affermano quindi i ricorrenti, testualmente, che nelle condizioni ambientali normali l’acqua disciolta nella carta è di norma in equilibrio con l’umidità disciolta nell’aria, per cui la carta da stampa non assorbe e non cede molecole di acqua.

Anzi, se il clima è secco, è la stessa carta che cede acqua all’ambiente esterno.

Ammesso quindi, per mera ipotesi, che il clima nella tipografia fosse secco, cioè più basso di quello normale, la carta avrebbe avuto in quel caso una funzione di riequilibrio, cedendo particelle di acqua all’ambiente, e non certo assorbendole.

d’altra parte, che la carta non abbia capacità di assorbire umidità alla stato gassoso, è evidente anche sotto il profilo logico, .

Invero, se la carta da stampa fosse igroscopica, nel senso ritenuto in sentenza, si umidificherebbe, si gonfierebbe, si ammollerebbe, risultando inadatta allan lavorazione (così pag. 14 dell’atto di riorso).

Lamentando i ricorrentei che la corte d’appello di Roma sarebbe incorsa in evidenti errori di fatto, posto che, per un verso, avrebbe letto in modo difforme rispetto alla realtà i dati climatici prodotti dalla difesa degli imputati, e, per altro, avrebbe distorto, ovvero omesso di controllare, dati scientifici di riferimento: di tal che si verterebbe in ipotesi di errore percettivo in conseguenza di una svista o di un equivoco nella lettura degli atti e connotato dall’influenza esercitata nel processo formativo della volontà, viziato dall’inesatta percezione delle risultanze processuali, secondo quanto precisato dalle sezioni unite della Cassazione con la sentenza 27 marzo- 30 aprile 2001, Basile: e, continuano i ricorrenti, tale sentenza, nell’escludere che possa essere fatto valere, attraverso il ricorso straordinario previsto dall’art. 625 bis c.p.p., l’erore di fatto in cui sia incorso il giudice di merito, farebbe chiaramente intendere che in tal caso l’errore ben potrebbe essere denunciato, sotto il profilo del vizio della motivazione, attraverso le ordinarie impugnazioni: ed invero, dopo l’introduzione nel codice di rito dell’art. 625 bis, sarebbe assurdo che l’errore di fatto in cui sia incorsa la cassazione possa farsi valere con lo strumento del ricorso straordinario, mentre nessun rimedio potrebbe essere adottato per rilevare los tesso tipo di errore verificatosi nelle due precedenti fasi di merito (cfr. pag. 15 del ricorso).

Passando poi ad esaminare la questione concenente la legge di copertura, i ricorrenti icordano che la corte di appello, nell’affermare testualmente che plurime risultanze processuali evidenzierebbero come sul degrado per ritiro e micro fessurazione incida indubbiamente la permanenza delle struttura di cemente armato in ambiente secco o comunque poco umido (pag. 21 della sentenza), ha motivato il proprio convincimento sul punto richiamando la tesi e pubblicazioni in cui si trova affermato che il ritiro igrometrico del calcestruzzo indurito, dovuto al ritiro della pasta cementizia, è un fenomeno che si manifesta in tutti gli elementi costruttivi mantenuti ad umidità relativa minore del 95%.

Ma, si obitta con il ricorso, quella del 95% è una percentuale di umidità relativa ideale che non trova riscontro nella realtà: ad avviso dei ricorrenti, per come si legge testualmente nell’atto di gravame (pagg. 16,17), si tratterebbe di una percentuale riproducibile solo in laboratorio o nel caso di un?edificio di cemento armato, solo tenendo lo stesso edificio sotto una campana di vetro in atmosfera controllata e condizionata.

Persino in un clima umido equatoriale, dove certamente sono molto più frequenti valori di umidità relativa molto elevati anche nelle ore di luce e per molti messia all’anno, è comunque impossibile che si mantenga un livello costante del 95% per tutti i giorni e le ore dell’anno.

Pertanto, l’astratto confronto tra i valori reali di umidità relativa, in cui il calcestruzzo viene effettivamente impiegato, ed il valore oideale, riproducibile solo in laboratorio, è privo di qualsiasi senso logico.

Ed al riguard, nel ricorso si ricorda poi che: nella letteratura in materia sarebbero tutti d’accordo nel sostenere che il fenomeno dell’essiccamento non produrrebbe effetti rilevanti o comunque, secondo il pensiero espresso dallo stesso consulente delle parti civili, oggettivamente quantificabili; nel trattato Properties of concrete, del prof. Neville, massima autorità internazionale nel campo del calcestruzzo, non vi sarebbe alcun riferimento ai cicli di umidità quale causa di degrado e perdita di esistenza del calcestruzzo; il prof. Neville si arebbe piuttosto occupato dei cicli termici elevatissssimi, peraltro inesistenti nel caso di specie, secondo quanto riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata.

Dunque, anch in proposito, ad avviso dei ricorrenti, la corte di merito sarebbe incorsa in grave fraintendimento: la legge di copertura, invocata, in realtà non sussisterebbe; in sostanza, non esisterebbe una legge scientifica tale da consentire di ricondurre il fattop concreto considerato (l’umidità relativa all’interno della stamperia) nell0?ambito di una previsione pertinente e astratta di carattere generale: e ciò a prescindere dalla considerazione che all’interno della tipografia vi sarebbe stato un valore di umidità relativa tutt?altro che bassa, rispecchiando i limiti naturali del delta termico fra esterno e interno.

Ne, sottolineano i ricorrenti, nel caso di specie risulta evocata alcuna legge statistica o masima di esperienza generalizzata sotto cui ricondurre il fatto concreto.

E non avrebbe potuto essere diversamente, atteso che non vi sarebbe alcun dato in proposito tale da consentire di individuare l’umidità relativa come causa o concausa del deterioramento delle strutture in cemento armato di un edificio determinandone o anticipandone il crollo.

Ad avviso dei ricorrenti le sentenze di primo e secondo grado si fonderebbero su un equivoco, in ordine all’incidenza causale dell’attività della tipografia nel crollo, originato da un?affermazione del perito d’Asdia laddove questi, nella sua relazione, non ha escluso che l’attività della tipografia (riferendosi però, per come sottolineato nel ricorsoò, ai cicli termici e non già all’umidità relativa che per los tesso perito non avrebbe avuto alcuna incidenza causale) possa ver avuto qualche ruolo nell’accelerazione dell’evento.

Ed a questo punto nel ricorso si sottolinea come alla mera possibilità non possa attribuirsi diritto di cittadinanza nel processo penale e viene ricordato il pensiero del Carrara secondo cui poiché l’essenza del delitto sta nella causa, quando il giudice dichiara possibile la causa ammette che possa ancora non esservi stato delitto nessuno.

I ricorrenti riservano poi alcune considerazioni agli aspetti più specificamente umani ed emotivi della vicenda che, a loro avviso, potrebbero in qualche misura aver contribuito a delineare il modello di processo seguito da entrambi i giudici di merito per l’esigenza, di fronte ad una tragedia nazionale, di dare conforto e soddisfazione ai parenti di 27 persone, tra cui quattro bambini, vittime del crollo di via Vigna Jacobini.

Ad esasperare gli animi avrebbe contribuito in modo rilevante una forte campagna di stampa che indicava nell’attività della tipografia la causa del crollo, e si era giunti al punto di accusare i responsabili della tipografia di aver tagliato un pilastro per agevolare l’ingresso degli automezzi nella tipografia: circostanza questa, puntualizzano i ricorrenti, rivelatasi assolutamente falsa.

Nel ricorso viene evidenziato come, già nel corso delle indagini preliminari, fosse apparsop chiaro, attraverso la consulenza del PM e la successiva perizia svolta in sede di incidente probatorio, che le cause del crollo andavano individuate nei gravi difetti di progettazione e di costruzione dell’edificio: ma gli effettivi responsabili (il progettista e i costruttori) non sojno mai stati individuati forse perché già morti o perché, a distanza di 40 anni, sono ormai irreperibili.

Sostengono i ricorrenti che il decisionismo dei giudici di merito avrebbe finito con il far prevalere sulla verità l’opportunità di dare comunque una risposta positiva in favore dei parenti delle vittime, alla loro rabbia, alla loro sete di giustizia, sentimenti, questi, più che giustificati come sottolineato nel ricorso, nel quale, conclusivamente, sia afferma che i giudici del merito più che attenersi alla stretta legalità avrebbero fondato la condanna su un giudizio di valore che, come tuti i giudizi di valore, è un giudizio senza verità: non motivato, disancorato dai fatti e fondato su asserzioni non verificate e non verificabili (pag. 19 del ricorso).

Anche per quel che concerne la ritenuta sussistenza dell’elemento psicologico, la corte di merito avrebbe fondato il proprio convincimento su asserzioni dogmatiche prive di riscontro nella realtà, affermando che i due imputati non erano un quisque de populo, ma imprenditori esperti nell’arte tipografica per cui non potevano ignorare, ad esempio, la rilevante proprietà igroscopica della carta o l’incidenza esercitata, si valori dell’umidità nell’ambiente, dal calore sviluppato da ben cinque macchinari.

Si sostiene nel ricorso che proprio perché esperti di problemi tipografici, gli imputati ben sapevano che la carta non assorbe umidità, così come sapevano che la carta da stampa non puù essere utilizzata se umida, non fosse altro perché in tal caso rifiuta l’inchiostro; d’altra parte, osservano ancora i ricorrenti, le condizioni ambientali all’interno della tipografia venivano controllate periodicamente da un professionista, l’ing. Soprano, il quale aveva proceduto all’ultima misurazione dell’umidità relativa poco tempo prima del crollo, come riconosciuto dalla stessa sentenza impugnata: in quella occasione, come nelle precedenti, lo stesso Soprano aveva riscontrato che l’umidità relativa nella stamperia, pari a 46%, era normale, normalissima come da lui dichiarato nella testimonianza resa al dibattimento di primo grado.

Quanto al calore prodotto dalle macchine, i ricorrenti, richiamando motivi dedotti in appello, ribadiscono che le stampanti non cedevano calore e che la temperatura all’interno della tipografia non era certamente eccessive, così come riconosciuta dalla stessa sentenza della corte di appello.

Alcun rimprovero potrebbe dunque muoversi in proposito agli imputati.

Ciò posto, i ricorrenti passano a trattare l’argomento della colpa nei suoi caratteri giuridici generali, per rapportarli al caso di specie.

Si sottolinea nel ricorso che nei confronti degli imputati è stata affermata la penale responsabilità a titolo di colpa generica per la incidenza esercitata sulle strutture murarie dell’edificio del presunto basso tasso di umidità che si era venuto a determinare nei locali nei quali veniva svolta l’attività tipografica: secondo la sentenza impugnata, il basso tasso di umidità determinatosi nei locali a seguito dell’attività lavorativa in essa svolta si sarebbe aggiunto al sottodimensionamento dei pilastri ed alla cattiva qualità del calcestruzzo impiegato nella costruzione dell’edificio, ed avrebbe contribuito a determinare, seppure come semplice e non preponderante concausa, quel deterioramento e quello sgretolamento dei pilastri che avrebbe poi provocato per implosione il crollo dell’edificio.

La valutazione della sussistenza della colpa nella condotta di un soggetto, al quale viene attribuita sul piano causale la produzione di un evento, comporta, si afferma nel ricorso, la ricerca di criteri in base ai quali può essere formulato il giudizio di rimprovero nei suoi confronti: deve cioè verificarsi se il soggetto agente poteva e doveva prevedere la verificabilità di un evento e se poteva e doveva osservare determinate regole di condotta capaci di scongiurarlo.

Il giudizio sulla colpa, avendo natura soggettiva e dovendo quindi essere rapportato all’uomo modello, non potrebbe prescindere dalle qualità dell’uomo medio e non potrebbe svolgersi in termini assoluti ed astratti.

Muovendo da tali considerazioni, e richiamando anche il pensiero espresso in materia da esponenti della dottrina, nel ricorso si afferma che la prevedibilità dell’evento, che insieme alla sua evitabilità costituisce il fondamento della colpa, sarebbe dunque legata alla riconoscibilità della situazione pericolosa: il soggetto agente, confrontato con l’uomo modello, poteva e doveva riconoscere il pericolo conseguente alla propria condotta e poteva e doveva adottare le precauzioni necessarie per scongiurare l’evento (così testualmente a pag. 24 del ricorso).

Con la conseguente necessità di due ulteriori approfondimenti così evidenziati nel ricorso: in quali termini si configura la colpa di un soggetto in quei casi in cui la pericolosità di una situazione preesista alla condotta di tale soggetto e sia frutto di condotte colpose altrui; con riferimento al parametro della riconoscibilità della situazione di pericolo, quale ruolo giochi il criterio dell’affidamento.

Ed invero, secondo i ricorrenti, e con riferimento a tali problemi, potrebbe parlarsi di colpa di un soggetto in due casi: o nell’ipotesi in cui costui abbia agito nella consapevolezza della pericolosità della situazione sbagliando inescusabilmente nella valutazione della propria condotta e sulla capacità di questa di produrre l’evento, oppure nell’ipotesi in cui il soggetto abbia agito nell’ignoranza della situazione pericolosa avendo però il potere ed il dovere, secondo il modello dell’uomo medio, di riconoscere detta situazione.

Passando all’applicazione di tali principi alla concreta fattispecie, nel ricorso si ricordano i seguenti punti fermi emersi dalle sentenze dei giudici di merito: la sentenza impugnata condivide le valutazioni compiute da quella di primo grado e riconosce che la causa preponderante del disastro deve essere individuata in fatti colposi preesistenti alla condotta degli attuali imputati; dalle sentenze di merito risulta altresì che se le strutture dell’edificio fossero state costruite a regola d’arte l’evento non si sarebbe verificato in quanto la condotta degli imputati, da sola, non sarebbe stata idonea a produrlo.

Si sottolinea quindi nel ricorso che, ferme restando comunque tutte le argomentazioni precedentemente svolte per dimostrare la mancanza del nesso eziologico tra la condotta addebitata con la contestazione e l’evento, pur a voler in teoria ipotizzare la sussistenza di un rapporto di causalità tra tale condotta e l’evento stesso, resta poi da verificare se agli imputati possa essere mosso un rimprovero a titolo di colpa: bisogna cioè chiedersi cosa gli imputati dovevano e potevano riconoscere, quale evento avrebbero potuto e dovuto scongiurare, quali cautele avrebbero dovuto adottare.

Posto che la sentenza d’appello ha sostenuto che il basso tasso d’umidità avrebbe avuto efficacia causale nella produzione dell’evento, avendo inciso su micro fissazioni in atto e sulla inadeguata portanza dei pilastri, i ricorrenti sostengono che, dal punto di vista della valutazione della condotta degli imputati in termini di colpa, non è sufficiente dire, come invece ritiene la sentenza impugnata, che gli imputati, ampliando la loro attività, dovevano comp9iere accertamenti che invece non hanno compiuto.

Ci si deve invece chiedere, si precisa nel ricorso, con riferimento alle caratteristiche del caso concreto, se gli imputati avrebbero dovuto prevedere, riconoscere e prevenire una incidenza del tasso di umidità su pilastri costruiti con calcestruzzo di pessima qualità e di dimensioni inadeguate rispetto alla struttura dell’edificio: e ciò nell’ottica di poter individuare la regola cautelare che avrebbe dovuto essere rispettata e la cui inosservanza avrebbe poi determinato una responsabilità a titolo di colpa.

Il che rende poi evidente, precisano i ricorrenti, quale sia il presupposto che questo tipo di ragionamento implica: esso è costituito dalla conoscenza da parte degli imputati della inadeguatezza ab origine dei pilastri e della pessima qualità del calcestruzzo o, almeno, un dovere di conoscenza da parte degli stessi imputati della inadeguatezza dei pilastri e della qualità del calcestruzzo.

I ricorrenti affermano, quindi, che non sarebbe ragionevole sostenere che, in occasione del progressivo ampliamento dell’attività della tipografia (ampliamento in effetti consistito nell’acquisto di due nuove stampanti offset e nell’assunzione di quattro operai addetti alle nuove macchine), gli imputati avrebbero dovuto procedere ad un calcolo della portanza dei pilastri in un edificio costruito quaranta anni prima e che fino a quel momento non aveva manifestatao alcun segno premonitore di cedimento; parimenti dovrebbe escludersi che indagini particolari dovessero esere effettuate sulla qualità del calcestruzzo.

Proprio facendo richiamo al criterio ll’uomo medio e dell’uomo modello esercitante l medesima professione, ad avviso dei ricorrenti dovrebbe escludersi che in situazioni analoghe un soggetto di media diligenza avrebbe compiuto tutte quelle analisi che avrebbero dovuto portarlo ad ipotizzare una situazione di potenziale pericolo, sualla quale avrebbe potuto poi incidere un abbassamento del tasso di umidità determinato nei locali dell’attività lavorativa in essi svolta.

Contrariamente opinando, si finirebbe con dover affermare il principio secondo cui in situazioni analoghe e in ogni caso in cui una attività lavorativa originariamente di carattere artigianale assume più ampie proporzioni, il responsabile dell’attività dovrebbe addirittura rifare i calcoli dei pilastri o effettuare saggi su calcestruzzo nella consapevolezza dell’incidenza, . Sulla tenu9hta dell’edificio, di una modifica del tasso di umidità.

Dovendo a ciò aggiungere, come precisato nel ricorso, da un lato, il ragionevole affidamento, in situazioni di questo genere, sul fatto che un edificio sia stato costruito a regola d’arte, e dall’altro, che è fenomeno diffuso, riconosciuto dalla stessa sentenza, che attività identiche a quella svolta dagli imputati vengono poste in essere nei locali interrati o a piano terra degli edifici nella ittà di Roma.

Ad avviso dei ricorrenti, diverso sarebbe stato il discorso se fossero emersi nel tempo segni premo?niktori di quanto poteva avvenire e di essi non si fosse tenuto conto: ma, si sottolinea nel ricorso, la stessa sentenza impugnata, come quella di p+rimo grado, esclu8de che fossero emersi segni premonitori dell’evento poi verificatosi, e le prove raccolte (con particolare riferimento a talune testimonianze) conforterebbero tale tesi.

I ricorrenti così testualmente concludono (pag. 28): se questi sono i dati di fatto rilevabili dagli atti processuali, si deve escludere la possibilità di formulare un giudizio di rimprovero nei confronti degli attuali imputati e la mancanza della possibilità di prevedere l’evento nel caso concreto implica l’esclusione dell’elemento soggettivo del reato previsto dagli artt. 434, 449 c.p. e del conseguente reato previsto dall’art. 589 co. 3, c.p.

Il pensiero ci porta piuttosto a ricondurre il fatto nell’ambito di operatività dell’art. 45 c.p. che configura il fortuito come causa di esclusione della colpevolezza e che ricorre tutte le voltem in cui l’evento è frutto dell’incrocio tra fattori causali ed imprevedibilità dell’evento: questo, in altre parole, può esere ricollegato anche a condotte umane, ma la sua verificazione sfugge totalmente alle possibilità di previsione del soggetto agente, valutate secondo il parametro dell’uomo modello eiusdem professionis.

MOTIVI NUOVI DEI RICORRENTI

Sono stati depositati motivi nuovi dai ricorrenti, anche in virtù delle deposizioni introdotte con l’art. 98 della legge n. 46 del 20 feb. 2006 che ha modificato l’art. 606 del codice di rito, con argomentazioni, basate su atti del procedimento specificamente richiamati, che possono sintetizzarsi come segue: la corte territoriale, nel valorizzare la ritenuta presenza di un basso valore di umidità relativa quale fattore che avrebbe inciso sul degrado del calcestruzzo, avrebbe disatteso, senza indicarne le ragioni, quanto affermato dal perito di ufficio prof. d’Asdia nella relazione depositata nella cancelleria del GUP il 10 lug. 2001 laddove detto perito aveva affermato di ritenere poco credibile che avesse potuto apprezzabilmente incidere, sul danneggiamento del calcestruzzo, il contributo quotidiano della deumidificazione diurna; il perito delle parti civili, prof. Collepardi, aveva precisato, all’udienza del 22 mag. 2002 dinanzi al tribunale, che il tasso di umidità relativa pari al 46% doveva considerarsi al limite, pur avendo poi precisato di non poter escludere un?incidenza di tale fattore, senza poi peraltro spiegare in quale misura e di quale genere; quanto ai fattori che avrebbero determinato un basso valore di umidità relativa all’interno dei locali occupati dalla tipografia, la corte di merito, avendo essa stessa escluso la presenza di una temperatura molto elevata, causa questa certamente idonea a determinare una bassa umidità relativa, ha ritenuto di poter individuare la causa principale della bassa umidità nella presenza di notevoli quantitativi di carta nei locali della tipografia; si tratterebbe, ad avviso dei ricorrenti, di una valutazione apodittica, priva di qualsiasi supporto probatorio ed anzi, a parte quanto già argomentato al riguardo nei motivi di ricorso, smentita da consulente del PM, prof. Calzola, avendo questi precisato, nel corso dell’udienza del 14 mag. 2002, che la carta comporta umidificazione, in quanto è una miscela di acqua e cellulosa poi asciugata e, se riscaldata, manda vapore; la corte territoriale, nell’affermare che il sistema di ventilazione installato nella tipografia avrebbe influito sulla deumidificazione dei locali, non avrebbe tenuto conto delle caratteristiche dell’impianto, il quale comportava esclusivamente un ricambio forzato dell’aria interna con quella esterna, e non aveva quindi una funzione di condizionamento dell’aria (per raffreddarla o riscaldarla), e di quanto precisato dallo stesso consulente del PM nella nota aggiuntiva depositata all’udienza del 7 ott. 2002, laddove detto consulente, pur sostenendo la tesi secondo cui nei locali della tipografia vi erano cicli termici nocivi per il calcestruzzo, aveva riconosciuto che la ventilazione senza raffreddamento non potva variare il valore termico; la corte di appello sarebbe ancora incorsa nel vizio di motivazione, posto che, pur avendo escluso la presenza di una temperatura tale da nuocere al calcestruzzo, avrebbe ritenuto escluso la presenza di una temperatura tale da nuocere al calcestruzzo, avrebbe ritenuto poi di poter individuare, tra le cause idonee a determinare un rialzo della temperatura ed un conseguente abbassssamento del tasso di umidità relativa, l’intasamewnto creato nell’ambiente da una presenza abnorme di persone e macchine; al riguardo sostengono i ricorrenti che gli operai presenti in tipografia, in numero massimo di 10,12, mai avrebbero potuto alterare con la sola forza del respiro il microclima del seminterrato ampio 500 metri quadrati, e che non sarebbe possibile comprendere come la semplice presenza delle macchine avrebbe potuto terminare un rialzo della temperatura.

Memoria difensiva dell’avv. F. S. Fortuna per alcune parti civili.

Hanno depositato memoria difensiva alcune parti civili tramite il difensore avv. F.S.Fortuna, contestando quanto dedotto dai ricorrenti 8sia con il ricorso che con i nuovi motivi) e svolgendo al riguardo considerazioni quali di seguito riassunte: i ricorrenti hanno affermato che il tasso di umidità relativa del 46% sarebbe stato solo di poco inferiore a quello del 51% risultante dalla tabella dell’ENEA per il mese di aprile, senza però considerare che quest?ultimo dato era solo quello minimo doi una forbice tra il 51% ed il 92% la cui meia era pari al 71, 5%; i circorrenti hanno contestato la ricostruzione dell’evento effettuata dalla corte di merito circa la ritenuta influenza di un baso indice di umidità relativa sul degrado del calcestruzzo: la cortev distrettuale avrebbe invece dato piena contezza del proprio convincimento al riguardo, ad avviso dell’avv. Fortuna, laddove ha individuato dette regole di esperienza facendo riferimento a plurime risultanze processuali quali la letteratura scientifica in, materia nonché gli elaborati e le conclusioni del perito d’Asdia e dei consulenti di parte Calzona, Rossetti e Collepardi; ne quest?ultimo avrebbe concordato sulla circostanza dell’irrilevante effetto dell’essiccamento sul cemento armato (ed in proposito viene ichiamata la pag. 37 della consulenza tecnica di parte civile); il riscontrato sfarinamento nelle strutture del solo piano interrato non potrebbe spiegarsi con il solo degrado subito dai pilastri per i difetti di progettazione e costruzione, ma troverebbe la sua spiegazione anche nell’infulenza patita dal calcestruzzo a causa della bassa umidità e delle variazioni termiche determinate dall’attività della tipografia; parimenti adeguata e logicamente corretta sarebbe la ricostruzione delle risultanze processuali effettuate dalla corte distrettuale circa la ritenuta sussistenza dell’elemnto soggettivo del reato, apparendo non illogico, e rispondente a criteri di diligenza e prudenza, l’esigere dai titolari della tipografia un onere di verifica della fattibilità della trasformazione della stessa (da attività artigianale ed industriale interessante quasi l’intero palazzo) sotto ogni possibile profilo: da quello della tutela dell’igiene, a quello della tutela dell’ambiente e della salute degli operai, ma anche della sicurezza, con riguardo alla possibile oincidenza dell’attività industriale sulla struttura dell’immobile nel quale essa si svolgeva (per come si legge testualmente nella memoria redatta dall’avv. Fortuna), avuto anche riguardo all’esperienza acquisita dagli imputati nella loro veste di imprenditori; non sarebbero riscontrabili nell’impugnata sentenza quei vizi motivazionali suscettibili di censura nel giudizio di legittimità, dovendo questo limitarsi, secondo i consolidati principi enunciati dalla cassazione, a rilievi sulla contraddittorietà ed illogicità della pronuncia di macroscopica ovvietà, senza possibilità alcuna di censurare la pronuncia stessa per non aver questa operato una diversa ricostruzione dei fatti altrettanto logica ma più favorevole agli imputati, rientrando siffatta valutazione nell’ambito del giudizio di merito; la corte territoriale avrebbe motivato su ogni questione sottoposta al suo vaglio dalla difesa degli imputati e le valutazioni da esssa espresse in ordine alla susssiatenza del nesso di causalità intercorrente tra la condotta degli imputati e l’evento, nonché in oridne alla sussistenza di pèrofili di colpa nel comportamento degli imputati stessi, risulterebbero del tutto compatibili con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, e prive di connotazioni di quell’illogicità che, onde poter formare oggetto di censura nel giudizio in cassazione, deve esere di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi.

Motivi della decisione

I ricorsi meritano accoglimento, nei temini che di seguito saranno precisati.

Le censure dedotte si concretizzano ostanzialmente nella denuncia di profili di vizi di motivazione con riferimento, per un verso, alla prevedibilità dell’evento, in stretta relazione con il principio di affidamento, e, per altro verso, all’accertament del nesso di causalità tra la condotta degli imputati (nella loro veste di titolari dell’attività della tipografia esercitata all’interno dell’edificio poi crollato) e l’evento.

Va subito detto che le doglianze dei ricorrenti consentono di cogliere nella motivazione della sentenza impugnata vizi di illogicità e contraddittorietà, di significativo spessore, sotto entrambi gli aspetti sopra delineati.

Appare opportuno ricordare, innanzi tutto, queli che sono i punti fermi della vicenda, e cioè gli elementi fattuali compiutamente accertati dai giudici di merito: il fabbricato di via di Vigna Jacobini 65 poggiava su pilastri sottodimensionati, e realizzati con l’impiego di calcestruzzo di scarsa qualità (presenza di inerti di dimensioni superiori, e non di poco, a quelle previste per legge; dcaduta di resistenza del 50%; rapporto acqua- cemento inferiore a quello richiesto dalle norme in materia); i difetti di costruzione non erano apparenti, non essendo mai emersi inequivoci e significativi segnali premonitori, tali da indurre ad ipotizzare fondatamente un pericolo di crollo dell’edificio in conseguenza di siffatta patologia (definita, perciò, silente); oil crollo avvenne per implosione verso la spina cenrale dei pilastri; le indagini permisero di accertare come destituito di fondamento l’iniziale sospetto dell’eliminazione di un pilastro: fu appurato che era stata eliminata invece una trave, onde consentire l’accessso ed il transito di automezzi, ed i giudici di merito hanno tuttavia escluso qualsiasi incidenza causale di tale modifica sull’evento- crollo.

Muovendo da tali presupposti fattuali, e sulla scorta degli accertamenti tecnici esguiti e dalle perizie espletate, i giudici di merito, in presenza di una contestazione di colpa generica mossa agli imputati, ed esplicitamente riferita a circoscritta al periodo successivo all’ampliamento dell’attività della tipografia, hanno dunque ritenuto di poter trarre le seguenti conclusioni: i difetti di costruzione eano di tale rilevanza che l’edificio stesso, . Nel tempo, sarebbe comunque certamente crollato: ed invero, secondo i giudici del merito, il basso grado di umidità relativa (46%) all’interno dei locali della tipografia, quale conseguenza dell’incremento dell’attività della tipografia stessa, avrebbe contribuito alla determinazione dell’evento, nel senso di aver solo accelerato cronologicamente il crollo (pag. 28 della sentenza di primo grado ew pagg. 11 e 24 della sentenza d’appello).

Tutto ciò premesso, una corretta e compiuta disamina della vicenda, ai fini che in questa sede di legittimità rilevano, non può prescindere dal rigoroso riferimento a quelli che, all’esito di una complessa evoluizione della giurisprudenza e di un approfondito dibattito in dottrina, sono stati individuati come i fondamentali principi che devono giudare ogni indagine in tema di reato colposo: regola cautelare e conseguente obbligo di garanzia, affidamento, prevedibilità, nesso di causalità.

La corte di merito ha preliminarmente osservato che, sulla scorta ella formulazione del capo di impugnazione, agli appelanti l’elemtno psicologico del reato era strato contestato solo sotto il profilo della colpa generica; donde la necessità di stabilire se potesse ritenersi concretamente configurabile a carico degli imputati un atteggiamento di negligenza o imprudenza in una situazione, quale quella in esame, in cui, ve l’edificio fosse stato costruito senza i denunciati vizi di progettazione di edificazione, l’evento dannoso non si sarebbe verificato: bisognava affrontare la questione concernente la prevedibilità dell’evento da parte del M. e del C., posto che la condotta ascrita a costoro, quali responsabili della tipografia, avrebbe inciso sulla determinazione dell’evento solo come concausa, cronologicamente sopravvenuta, rispetto a pregresse e più gravi patologie non certo ascrivibili ai medesimi.

La difesa degli appellanti aveva sostenuto che il pericolo non sarebbe stato riconoscibile dagli imputati stante la mancanza ddi segnali premonitori, e che non sarebbe stato possibile esigere dai responsabili della tipografia comportamenti diretti a prevedere e prevenire l’incidenza dei valori dell’umidità e dei cicli termici sulla tenuta dei pilastri e del calcestruzzo, quali, ad esempio, un calcolo periodico della capacità portante dei pilastri o l’estrazione di saggi di calcestruzzo, non potendo risultare agi imputati che dette strutture fossero già di per se stesse deficitarie.

In risposta a tali osservazioni difensive, la corte territoriale ha precisato che ove, come nella fattispecie in esame, un?attività tipografia meramente artigianale lecitamente avviatasi nel seminterrato di una civile abitazione, venga a trasformarsi in una attività con caratteristiche industriali, come incontetabilmente verificatosi per la S. Paolo Tipografia Editoriale srl, sarebbe ravvisabile a carico dei responsabili dell’impresa, in base ad elementari criteri di diligenza e prudenza, un onere di verifica della fattibilità della trasformazione stessa in quel medesimo contesto spaziale sotto ogni possibile profilo: certamente di tutela dell’igiene, dell’ambiente, della salute dei lavoratori, ma anche della sicurezza, avuto riguardo alla possibile incidenza dell’attività industriale sulle strutture edilizie; con specifico riferimento al caso del quo, la corte di merito ha sottolineato che detto onere appariva tanto più esigibile tenuto conto che, in concreto, quell’attività industriale veniva ad essere esercitata in un edificio destinato a civile abitazione (nel quale gli scantinati erano originariamente adibiti solo a magazzini) per di più costruito numerosi anni addietro.

Sul punto, la corte ha poi precisato chje agli imputati non era stato mosso l’addebito di non aver controllato la condotta di terzi (comportamento certamene nella specie non esigibile) ma quello di non aver controllato, rispettando i massimi limiti di prudenza e di diligenza funzionali alla loro personale sicurezza, nonché a quella dei dipendenti e degli abitanti dello stabile, le possibili conseguenze della propria condotta.

Una previa verifica della compatibilità, a tutti i livelli, della trasformazione dell’attività della tipografia da meramente artigianale in industriale, avrebbe consentito ai responsabili della tipografia, ad avviso della corte distrettuale, di rendersi conto, oltre che degli effetti dannosi e/o fastidiosi che dall’esercizio così potenziato dell’attività tipografica potevano derivare agli altri condomini ed agli stessi lavoratori, anche della reale consistenza delle strutture edilizie e delle loro patologie e, per l’effetto, di prevedere, a prescindere a quei segni premonitori cui aveva fatto riferimento la difesa, gli eventi dannosi che dalla cennata trasformazione potevano conseguire; ed i giudici di seconda istanza hanno ritenuto senz?altro pertinente il richiamo che la sentenza di primo grado aveva fatto alla giurisprudenza della suprema corte secondo cui ai fini della prevedibilità dell’evento delittuoso deve aversi riguardo alla potenziale idoneità della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione ex ante dell’evento dannoso quale poi si è concretamene realizzato in tutta la sua gravità ed estensione.

La corte territoriale ha altresì ritenuto non condivisibile quanto in proposito affermato dalla difesa, e cioè che, essendo la colpa un criterio di imputazine soggettivo, sarebbe necessario utilizzare come parametro di riferimento il cd modello di uomo medio per cui dai responsabili ella tipografia, che altro non erano che lavoratori tipografi che si erano posti a capo della società tipografia stesa, non poteva esigersi il posssessso di quelle particolari cognizioni tecnico- specialistiche soltanto tramite le quali si sarebbero potuti prevedere possibili riflesssi dell’attività industriale posta in essere sulle strutture dello stabile: la corte di merito ha osssservato al riguardo che i responsabili della tipografia, nel caso concreto, non erano quisque de populo, ma degli imprenditori i quali, oltre che essere in possesso, proprio grazie alla loro pregressa esperienza lavorativa specialistica nel settore, di cognizioni su taluni effetti dell’attività tipografica sul contesto ambientale (quali, ad esempio, la rilevante proprietà igroscopica della carta o l’incidenza, sui valori dell’umnidità nll’ambiente, del calore sviluppato da ben inque macchine), potevano disporre (come in concreto era avvenuto, avuto riguardo al ruolo dell’arch. Di loro fiducia C. Conti, anch?egli indagato e successivamente deceduto) della collaborazione di professionisti senz?altro in grado di operare, ove fosse ìstato loro richiesto, quella verifica di compatibilità dell’attività tipografica, nella nuova dimensione assunta, con le strutture edilizie.

Ad avviso della corte di appello, il M. ed il C. ben avrebbero potuto, grazie alla collaborazione tecnica di cui disponevano, far effettuare controlli sulle strutture di cui etrano proprietari (ad es., effettuando carotaggi sui pilastri del seminterrato, di proprietà integrale della tipografia, che avrebbero tempestivamente rilevato quelle pregresse patologiesilenti purtroppo manifestatesi nella loro evidenza solo dopo il tragico evento).

La corte territoriale, conclusivamente, ha ritenuto configurabile l’elemento psicologico del reato contestato agli imputati, muovendo dal presupposto della sussistenza a carico di questi ultimi dell’onefre di verificare la sostanziale compatibilità del cambio di destinazione col contesto ambientale e spaziale in cui venivano ad operare.

Ciò posto, i pasaggi attraverso i quali si pè sviluppato il ragionamento seguito dalla corte distrettuale possono duque, in estrema sintesi, essere così individuati e precisati: regola di diligenza: i titolari della tipografia, avendo incrementato la loro attività lavorativa, con conseguente aumento di macchinari e numero dei dipendento, avrebbero dovuto verificare la compatibilità tra detta attività (anche per quel che riguarda le variazioni di temperatura e di umidità) con le strutture in cui erano ubicati i localiu della tipografia; donde l’obbligo di garanzia per l’incolumità degli abitanti dell’edificio (oltre che, ovviamente, per quella dei loro dipendenti e per la propria); se avessero condotto tale indagine, dunque, se avessero rispettato la regola di diligenza coì individuata, gli imputati avrebbero pouto prendere cognizione dei difetti (strutturali) di costruzione dell’edificio; il baso livello di umidità, determinatosi all’interno dei locali della tipografia a seguito dell’aumento dell’attività, aveva avuto negativa incidenza sulla (già precaria)resistenza dei pilastri, contribuendo al loro ulteriore indeboilimento, con conseguene accelerazione del processo di sfaldamento dei pilastri stessi che aveva portato al crollo dell’edificio (che si sarebbe comunque verificato, per come precisato dai giudici dell’appello sulla scorta delle risultanze peritali acquisite).

Orbene, la illogicità e contraddittorietà della motivazione, adotta dalla cote territoriale a sostegno del convincimento espresso, appare in tutta la sua evidenza, alla luce di quei fondamentali principi in matria di colpa innanzi ricordatoi, proprio dal raffronto tra i dati fattuali certi, da un lato, e le considerazioni argomentative svolte dalla corte d’appello, dall’altro.avuto riguardo a tutte le componenti della fattispecie in esame, e proprio tenendo presenti i principi sopra richiamati, la prijma considerazione da farsi è che, contrariamente a quanto sostenuto dalla corte distrettuale, un obbligo di verifica poteva sorgere in capo ai titolari della tipografia, a seguito della loro decisione di ampliare l’attività svolta, solo ove essssi avessssero avuto in qualche modo cognizione o percezione del deficit strutturale dell’edificio: con tutte le ulteriori conseguenze, sul piano logico giuridico, per quel che riguarda la prevedibilità dell’evento.

Ed invero, accertato (sulla scorta di risultanze peritali che la coprte di merito ha motivatamente ritenuto di dover condividere) che l’edificio, se costruito nell’ossservanza delle disposizoioni di legge e con il rispetto delle regole dell’arte, non sarebbe crollato nemmeno in presenza del livello industriale raggiunto dall’attività della tipografia, come appunto evidenziato dalla stesss corte d’appello, ne deriva, quale logica conseguenza in virtù del principio dell’affidamento, che gli imputati avrebbero potuto prvedere l’altrui condotta inosservante (e quindi sospettare delle deficienze strutturali dell’edificio, con tutte le conseguenze per qual che riguarda la condotta da esssi esigibile) colo in presenza di concreti elementi.

La corte territoriale, invece, pur avendo escluso ch vi fossero circostanze idonee a destare allarme e sospetto nei titolari della tipografia, circa le condizioni dell’edificio, stante la natura silente della patologia del fabbricato, vale a dire asintomatica per la mancanza di segni premonitori, ha tuttavia affermato la violazione di un obbligo di diligenza da parte degli imputati stessi: così rendendo una motivazione connotata da illogicità e contraddittorietà con specifico riferimento alle questioni relative all’individuazione dell’obbligo di garanzia ed al principio dell’affidamento (principio che, come noto, è stato esteso anche a campi diversi da quello della circolazione stradale in relazione al quale aveva inizialemne trovato specifica applicazione):

giova in proposito, ancora una volta, sottolineare che: l’attività tipografica si svolgeva da tempo in quell’edificio, e ciò non rappresentava certo un?anomalia, e neppure un caso eccezionale, essendo noto che frequentissimi sono casi di esercizio di attività tipografica all’interno di edifici destinati a civili abitazioni; alcun inconveniente alle struttre portanti del fabbricato si era mai verificato, o era stato mai segnalato, come riconducibile all’attività tipografica; pur dopo l’ampliamento di tale attività, non vi erano stati segnali di pericolo e la stessa originaria patologia del fabbricato non si era mai manifestata essendo stata pacificamente definita silente; l’edificio non sarebbe crollato, neppure dopo la trasformazione dell’attività della tipografia, se fosse stato costruito a regola d’arte. Di tal che appare in tutta la sua evidenza la stridente contradizione in cui la corte di merito è incorsa: per un verso, infatti, ha ritenuto di individuare una regola cautelare secondo cui gli imputati, avendo deciso di incrementare l’attività della tipografia, avrebbero dovuto procedere ad opportune verifiche circa la compatibilità del maggior livello di attività con le strutture del fabbricato; per altro verso ha tuttavia affermato che l’edificio non sarebbe crollato, nonostante il livello industriale dell’attività della tipografia, se fosse stato edificato a regola d’arte e nel rispetto delle norme in materi.

Ma, se non vi era stato mai alcun campanello d’allarme (la originaria patologia del fabbricato è stata definita silente), per quale motivo gli imputati avrebbero dovuto nutrire timori e preoccupazioni, e non avrebbero potuto piuttosto fare affidamento sul buon operato di un fabbricato edificato a regola d’arte? Appare opportuno ricordare, in proposito, per la sua evidente rilevanza in relazione alla concreta fattispecie, la nozione del requisito della prevedibilità dell’evento elaborata dalla giurisprudenza di legittimità e consolidatasi attraverso plurime pronunce: la prevedibilità altro non significa che porsi il problema delle conseguenze di una certa condotta omissiva o commissiva avendo presente il cd modello d’agente, il modello dell’homo eiusdem condicionis et professionis, ossia il modello dell’uomo che svolge paradigmaticamente una determinata attività, che importa l’assunzione di certe responsabilità, nella comunità, la qual esige che l’operatore concreto si ispiri a quel modello e facci tutto ciò che da questo ci si aspetta (in termini, sez. IV, n. 1345/93, Boano ed al. Rv. 193035).

Così posta la questione, alla luce della nozione di prevedibilità enunciata dalla suprema corte, appare evidente che i giudici di seconda istanza, nell’affermare che gli imputati avrebbero violato una regola di diligenza nell’omettere di verificare le condizioni delle strutture del fabbricato, hanno del tutto tralasciato il principio dell’affidamento e le problematiche connesse alla questione concernente la prevedibilità dell’evento: la corte distrettuale infatti, è bene ribadirlo proprio alla luce el principio di diritto appena ricordato, ha ritenuto ravvisabile a carico del C. e del M. (i quali esercitavano già da anni la loro attività tipografica nei locali di quello stesso edificio in cui vi erano civili abitazioni), in mancanza di segnali di allarme o quanto meno di pericolo, e per il solo fatto di aver deciso di incrementare la loro attività, un onere di verifica e controllo sulle strutture dello stabile, pur essendo del tutto legittimo che essi facessero affidamento sulla buona posa in opera di quelle strutture (che, in tal caso, come sottolineato dalla corte territoriale, nn sarebbero mai venute meno nonostante l’incremento dell’attività tipografica) sulla cui tenuta non vi era mai stato motivo di nutrire sospetti.

Ed è bene ricordare che quanto fin qui detto in ordine al principio dell’affidamento, oltre a trovare fondamento nel consolidato orientamento delineatosi nella giurisprudenza di legittimità, risulta pienamente condiviso anche da autorevoli voci della dottrina: ciascun consociato può confidare nella circostanza che gli altri si comportino in conformità alle regole cautelari riferibili all’agente mo?dello proprio del contesto di attività che di volta in volta viene in considerazione; il principio dell’affidamento può valere a delimitare il dovere di diligenza degli altri consociati qualora nella situazione concreta non fossero riscontrabili circostanze particolari tali da far prevedere e, cioè, da rendere più probabile, il verificarsi di violazioni della diligenza da parte del terzo.

Non meno rilevanti sono poi le connotazioni di manifesta illogicità che il percorso motivazionale seguito dalla corte di appello presenta per quel che riguarda la ritenuta sussistenza del nesso di causalità tra la condotta degli imputati e l’evento.

l’elemento individuato dalla corte distrettuale quale concausa del crollo dell’edificio, riconducibile alla condotta degli imputati, è la bassa percentuale di umidità, accertata nel 46%, che, secondo la tesi accusatoria condivisa dai giudici del merito, si sarebbe creata, nei locali della tipografia, a seguito della trasformazione dell’attività della tipografia stessa da artigianale in industriale, e che avrebbe avuto negativa incidenza sul calcestruzzo (già originariamente inadeguato perché di scarsa qualità) dei pilastri (a loro volta sottodimensionati), accelerando il processo di rovina del fabbricato.

Come in precedenza già si è avuto modo di dire, la condotta degli imputati è stata ritenuta connotata da profili di colpa (generica) esclusivamente con riferimento al periodo successivo all’ampliamento dell’attività da essi esercitata nei locali dell’edificio poi crollato: la corte i merito ha affermato la penale responsabilità degli imputati per condotta omissiva, per non avere essi verificato la compatibilità tra l’ampliamento dell’attività e le strutture dell’edificio.

Della prevedibilità dell’evento, in relazione al principio dell’affidamento, si è appena detto.

Occorre esaminare adesso gli aspetti concernenti il nesso di causalità.

La corte distrettuale ha ritenuto che non per tutti i segmenti di condotta attribuiti dal capo d’imputazione ai responsabili della tipografia era risultata dimostrata, con la necessaria certezza, la loro incidenza, come concausa, sul verificarsi del crollo; ed ha ritenuto quindi che lo scarso tasso di umidità determinatosi nei locali utilizzati per l’attività della tipografia (in conseguenza delle variazioni climatiche scaturite dall’incremento dell’attività stessa) sarebbe l’unico elementi fattuale, tra quelli riconducibili all’attività tipografica ed oggetto della contestazione, che avrebbe inciso, quale concausa, sull’evento.

Ad avviso della corte di merito gli imputati avevano determinato, nel seminterrato adibito a tipografia, una percentuale di umidità relativa nettamente inferiore rispetto a quella indispensabile per prevenire l’accentuazione del degrado e della micro fessurazione di un conglomerato cementizio, che, nel caso concreto, si presentava già poroso e non conforme alla normativa ed alla prassi el buon costruire vigente all’epoca della sua messa in opera; con la conseguenza che, in un contesto, quale quello evidenziato, in cui l’equilibrio statico dello stabile era già compromesso dal sottodimensionamento dei pilastri, dalla inadeguatezza delle armature dei pilastri stessi e dal lento degrado del calcestruzzo, il predetto valore di bassa umidità relativa determinatosi, quantomeno a partire dalla fine degli anni ?80, nei locali del seminterrato, aveva accelerato il verificarsi dell’evento crollo anticipando, anzi tempo, il precipitare di quella condizione di equilibrio precario.

La corte d’appello, come prima ricordato, ha ritenuto che da parte degli imputati vi sarebbe stata la violazione della seguente regola di diligenza: mancanza di accertamenti preventivi e di verifiche nell’ottica della possibile incidenza dell’attività industriale (rispetto a quella precedente, artigianale), sulle strutture edilizie (onere tanto più esigibile, secondo la corte distrettuale, tenuto conto che, in concreto, quell’attività industriale veniva ad essere esercitata in un edificio destinato a civile abitazione).

ÿ stata dunque ritenuta configurabile a carico degli imputati una condotta colposa omissiva.

ÿ noto che il tema del nesso di causalità in relazione al reato colposo per condotta omissiva, oltre ad essere stato oggetto di un vivace dibattito in dottrina, aveva anche determinato un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, che, non avendo trovato spontanea composizione, aveva reso necessario, sia pure con specifico riferimento alla materia della colpa professionale del medico, l’intervento delle sezioni unite della corte di cassazione.

Queste ultime si sono quindi pronunciate nel 2002 con la sent. n. 27/2002 (ud. 10 lug. 2002, ric. Franzese) con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perché possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che, pur affermati, come detto, con specifico riferimento alla responsabilità colposa (per condotta omissiva) del medico chirurgo, valgono evidentemente in generale per qual che riguarda la ricostruzione del nesso causale, quale elemento costituivo del reato, in qualsiasi caso di reato colposo per condotta omissiva.

I principi enucleabili dalla sentenza Franzese possono così riassumersi: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di un legge scientifica, universale o statistica, si accerti che, ipotizzatosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditivi dell’evento hic et nunc, questo no si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; no è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poiché il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, cosi che, all’esito del ragionamento probatorio che abbi altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica; l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; alla corte di cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative, la cd giustificazione esterna, della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle interferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: no la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare.

Può dunque affermarsi che le sezioni unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini dell’individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi delineatisi nella giurisprudenza di questa suprema corte, maggiormente verso quello più rigoroso (favorevole all’accertamento del nesso causale in termini di certezza) delineatosi in tempi più recenti.

l’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a ritenere che le sezioni unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità, (quale condicio sine qua non di cui agli artt. 40 e 41 del c.p.) in termini di alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica, abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva, storica o scientifica, risultante da elementi probatori di per se altrettanto inconfutabili sul piano dell’oggettività, bensì alla certezza processuale che in quanto tale, no può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: certezza che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tute le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico, analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal co. 2 dell’art. 192 del cod. proc. pen., che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva al di la di ogni ragionevole dubbio (vale a dire, appunto, con alto grado di credibilità razionale o probabilità logica).

Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le sezioni unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica.

Ciò detto, non resto ora che verificare se nel caso che ne occupa, l’iter argomentativi seguito dai giudici di seconda istanza, posto a fondamento del convincimento della responsabilità del C. e del M., sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle sezioni unite.

La risposta è negativa.

Il primo punto fermo che le sezioni unite hanno inteso ribadire, che peraltro ha sempre rappresentato, a prescindere dall’indirizzo interpretativo di volta in volta seguito, il necessario presupposto fattuale di partenza, ai fini dell’accertamento della penale responsabilità colposa per condotta omissiva, è che, nella ricostruzione del nesso eziologico, no può assolutamente prescindersi dall’individuazione di tutti figli elementi concernenti la causa dell’evento: solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali la vicenda è poi possibile analizzare la condotta (omissiva) colposa addebitata al soggetto agente per effettuare il giudizio controfattuale e verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta, l’evento lesivo sarebbe stato evitato al di la di ogni ragionevole dubbio.

Orbene, la sentenza impugnata, all’esame retrospettivo demandato a questa corte circa la logicità e razionalità delle argomentazioni giustificative addotte dalla corte d’appello di Roma a fondamento della propria statuizione, si presenta frammentaria ed incoerente.

Ciò che inficia in radice il ragionamento seguito dai giudici dell’appello è la mancanza di qualsiasi elemento certo in ordine a quello che era il tasso di umidità, all’interno dei locali nei quali veniva svolta l’attività della tipografia, durante tutto il periodo precedente la trasformazione dell’attività da artigianale in industriale. Ed invero: gli imputati sono stati chiamati a rispondere per l’incidenza che l’attività da essi svolta avrebbe avuto sulle strutture dell’edificio, e solo con riferimento al periodo successivo all’ampliamento dell’attività; la corte d’appello ha ritenuto incontrovertibilmente acclarato che l’edificio presentava difetti di costruzione di tale entità, pur se silenti, che, nel tempo, sarebbe certamente crollato (a prescindere dall’attività della tipografia, che avrebbe determinato solo l’anticipazione dell’evento- crollo); la corte medesima, come si è già più volte avuto modo di dire, ha altresì dato per certo, sulla scorta dei dati tecnici acquisiti, che, nonostante l’incremento dell’attività della tipografia, con la trasformazione da artigianale in industriale, il fabbricato non sarebbe crollato se non avesse presentato quei difetti di progettazione e costruzione cui si è fatto ripetutamente ceno (pilastri sottodimensionati ed impiego di calcestruzzo di scarsa qualità).

In presenza di siffatte risultanze, ai fini della completa e corretta ricostruzione del nesso causale tra la condotta omissiva ipotizzata come colposa a carico degli imputati e l’evento, sarebbe stata necessaria un?approfondita indagine finalizzata ad individuare innanzi tutto la differenza tra l’umidità relativa presente nella tipografia nel periodo precedente all’incremento dell’attività a quella, pari al 46%, accertata prima che il tragico evento si verificasse.

Per poter affermare la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta (omissiva) addebitata agli imputati e l’evento, la corte di merito, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica (universale o statistica), avrebbe dovuto ritenere accertato che se gli imputati, una volta compiute quelle verifiche dalla corte stessa considerate come doverose, avessero desistito dal progetto di incrementare l’attività, continuando ad operare sui pregressi livelli artigianali (in relazione ai quali alcun addebito è stato loro mosso, di tal che no sarebbe stata certo esigibile la cessazione tout court dell’attività) il crollo dell’edificio non si sarebbe verificato il 16 nov. 1998.

Orbene, fermo restando, peraltro, quanto già dinanzi criticamente osservato in ordine alla prevedibilità dell’evento (stante la natura silente dei difetti di costruzione), e tenuto conto che per ani in quello stesso edificio era stata svolta quella medesima attività, sia pure a livello artigianale, senza che fossero emersi segnali di allarme, non è dato comprendere, tenuto conto dei principi enunciati dalle sezioni unite (con la sentenze Francese, già prima ricordata), in base a quale argomento sia possibile affermare che un?umidità del 46% (determinata, secondo i giudici di merito, dall’incremento dell’attività della tipografia) avrebbe contribuito in modo rilevante all’indebolimento dei pilastri dell’edificio, fino ad accelerare significativamente quel processo di sfaldamento delle strutture che determinò il crollo del fabbricato, senza conoscere quale era il tasso di umidità nel periodo precedente. Ci si chiede: in mancanza di tale essenziale elemento, come è possibile procedere al giudizio controfattuale ed affermare la sussistenza del nesso di causalità in termini di alto o elevato grado di credibilità razionale o probabilità logica? La corte di appello, in ipotesi, avrebbe ritenuto ugualmente sussistente il nesso di causalità (tra le omesse verifiche preventive da parte degli imputati, e quindi tra l’incremento dell’attività tipografica, ed il crollo), ove fosse stato accertato che il tasso di umidità presente nel periodo escluso dalla contestazione era sugli stessi livelli, o soltanto superiore, rispetto ad un?umidità del 46%?

Ed ancora. Nel procedere all’accertamento della sussistenza del nesso di causalità, il giudice è chiamato, come precisato anche nella sentenza Franzese sopra evocata, a verificare anche che non vi sia stata l’interferenza di fattori alternativi a quella causa dell’vento ipotizzata come riconducibile alla condotta colposa addebitata all’agente.

Nella concreta fattispecie, la stessa corte di appello ha ritenuto che la principale causa del crollo sarebbe da individuare nei gravi difetti di costruzione dell’edificio, al punto che il fabbricato, pur con l’attività industriale della tipografia, no sarebbe crollato senza quei difetti: di tal che, a maggior ragione, sarebbe stato indispensabile un accertamento, nei termini sopra precisati, secondo criteri di assoluto rigore.

Specie ove si consideri che la corte di appello, condividendo quanto argomentato dalla difesa degli imputati nei rilievi mossi sul punto alla sentenza di prime cure, ha ritenuto dubbia l’incidenza, sul tasso di umidità, della temperatura all’interno del seminterrato, posto che la stessa, pur superiore a quella degli altri locali dello stabile (sia per calore comunque prodotto dai macchinari, sia per il sovraffollamento di cose e di persone determinatosi specie dopo l’evoluzione a livelli industriali dell’attività della tipografia), non poteva comunque considerarsi estremamente elevata (per come precisato dalla stessa corte) dovendosi sul punto i calcoli effettuati sulla base dei consumi di energia elettrica, contati nella sentenza di primo grado, parzialmente ridimensionarsi alla luce delle considerazioni, documentate, svolte in proposito dalla difesa nei motivi di appello.

Ne appare privo di fondamento il rilievo dei ricorrenti per quel che riguarda i criteri con i quali la corte territoriale ha operato il confronto tra i valori di umidità all’interno ed all’esterno dei locali della tipografia. Sembra infatti assolutamente puntuale l’assunto difensivo secondo cui, muovendo dal dato del tasso di umidità del 46% riscontrato dall’ing. Soprano all’interno della topografia, i giudici di merito, per verificare la differenza tra tale valore e quello esterno, avrebbero dovuto operare il confronto non con i valori medi dei vari periodi dell’anno in città, bensì (all’esito di opportuni accertamenti presso gli uffici in grado di fornire precisi ragguagli al riguardo) con il tasso di umidità registrato nella città di Roma nelle ore diurne dello stesso periodo in cui vi era stata al verifica da parte dell’ing. Soprano.

l’impugnata sentenza deve essere quindi annullata, con rinvio, per nuovo esame, ad altra sezione della corte di appello di Roma che si atterrà ai principi di diritto innanzi enunciati e provvederà anche al regolamento delle spese tra le parti per questo grado di giudizio.

Le ragioni dell’accoglimento dei ricorsi, quali sopra esposte, per oil loro evidente carattere assorbente, rendono superflua qualsiasi ulteriore e specifica disamina delle argomentazioni svolte dai ricorrenti in ordine all’incidenza, sul tasso di umidità all’interno dei locali della tipografia, sia dell’impianto di ventilazione, sia della carta per la stampa (in reazione alla proprietà igroscopica della carta stessa): dette questioni saranno ovviamente vagliate dal giudice del rinvio, il quale, in conseguenza della presente decisione, dovrà infatti procedere a riesaminare le censure che gli imputati, con l’atto di appello, avevano dedotto nell’impugnare la sentenza di condanna di primo grado.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione della corte d’appello di Roma, cui demanda anche il regolamento delle spese tra le parti per questo grado di giudizio.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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