Cass. pen., sez. Unite 22-09-2006 (27-06-2006), n. 31461 ISTITUTI DI PREVENZIONE E DI PENA – ATTI E PROVVEDIMENTI DEL GIUDICE – Misure alternative alla detenzione – Legittimo impedimento del difensore -Rilevanza ai fini dell’eventuale rinvio dell’udienza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

P.M., condannato alla pena di cinque mesi e dieci giorni di reclusione militare per il reato di mancanza alla chiamata aggravata con sentenza della Corte Militare di Appello/Sezione Distaccata di Verona, emessa in data 14.11.2002, avanzava richiesta di affidamento in prova al servizio sociale o, in subordine, di altre misure alternative; con ordinanza del 27 aprile 2005 il Tribunale Militare di Sorveglianza respingeva l’istanza.

Avverso tale provvedimento ha proposto ricorso per cassazione il difensore del condannato, deducendo tre motivi:

1) difetto di giurisdizione dell’organo giudicante, nell’assunto che il P., non essendo più investito della qualità di militare, non è sottoposto alla giurisdizione della magistratura militare;

2) nullità del provvedimento ai sensi dell’art. 179 c.p.p., in quanto adottato all’esito di udienza celebrata in assenza del difensore di fiducia, nonostante l’esistenza di un legittimo impedimento a comparire per altro impegno professionale, tempestivamente comunicato;

3) vizio di motivazione in ordine alle ragioni del rigetto della richiesta, sul rilievo che dal testo del provvedimento impugnato emerge il richiamo ad una comunicazione del servizio sociale di Napoli, da ritenersi erroneamente riferita al richiedente, essendo stato questi sempre residente a ?, in provincia di Trento.

Il Procuratore Generale Militare, con la sua requisitoria scritta del 30.8.2005, ha chiesto la declaratoria di inammissibilità del ricorso per manifesta infondatezza, articolando le sue conclusioni in ordine a tutte le eccezioni e questioni sollevate dal ricorrente, la cui difesa ha, poi, prodotto memoria di replica.

Il ricorso è stato assegnato alla sezione prima penale di questa Corte, la quale, con ordinanza emessa il 25.1.2006, ha ritenuto infondata l’eccezione di difetto di giurisdizione, di cui al primo motivo di ricorso e, tralasciando il terzo, ha affrontato le varie tematiche relative al secondo.

Ha osservato, in particolare, che l’orientamento giurisprudenziale, consolidatosi dopo la pronuncia delle Sezioni Unite dell’8 aprile 1998 (sent. n.7551/1998, ric. Cerroni), secondo cui l’impedimento del difensore non costituisce causa di rinvio dell’udienza camerale, dovrebbe essere rivisitato alla luce di un triplice ordine di considerazioni:

a) l’art. 420 c.p.p., comma 1, e l’art. 666 c.p.p., comma 4, dispongono che l’udienza si svolge con la partecipazione "necessaria" del pubblico ministero e del difensore dell’imputato (o del condannato), mentre l’introduzione dell’art. 420 ter c.p.p., avvenuta con l’art. 19 della L. 16 dicembre 1999, n. 479, prevede che l’impedimento del difensore può costituire motivo di rinvio dell’udienza preliminare, dimostrando che la pienezza dell’assistenza tecnica non rappresenta più una prerogativa esclusiva della fase dibattimentale;

b) il nuovo testo dell’art. 111 Cost., stabilisce la regola del "giusto processo" da svolgersi "nel contraddittorio delle parti";

c) gli enunciati principi devono essere interpretati alla luce della disciplina posta dalla Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo, il cui art. 6 sancisce il "diritto ad un equo processo", specificando che ogni accusato ha diritto di "difendersi personalmente o avere l’assistenza di un difensore di sua scelta".

Sulla base di queste argomentazioni la Sezione Prima Penale ha ritenuto che l’indirizzo finora seguito sia tale da suscitare motivate perplessità, si da potere dare luogo ad un contrasto giurisprudenziale; ha quindi rimesso il ricorso alle Sezioni Unite, a norma dell’art. 618 c.p.p., e quindi il Primo Presidente ne ha fissato la trattazione per l’odierna udienza di camera di consiglio.

Il Procuratore Generale Militare, con memoria dell’1.6.2006, ha ribadito le sue tesi ed ha concluso nel senso che nel processo di esecuzione ed in quello di sorveglianza non è applicabile la norma di cui all’art. 420 ter c.p.p., comma 5.

Motivi della decisione

La decisione del ricorso comporta la soluzione di tre questioni, che devono essere esaminate secondo il seguente ordine logico-sistematico:

A) se sulla richiesta di benefici penitenziari relativamente a pena inflitta da giudice militare debba pronunciarsi il Tribunale Militare di Sorveglianza, anche quando si tratti di soggetto che abbia perduto la qualità di militare, ovvero se in quest’ultimo caso debba pronunciarsi il Tribunale di Sorveglianza ordinario;

B) se il legittimo impedimento del difensore possa costituire causa di rinvio dell’udienza camerale e se il mancalo rinvio, pur in presenza di un difensore nominato in sua sostituzione, configuri una nullità assoluta ai sensi dell’art. 179 c.p.p.;

C) se nella specie sia configurabile il vizio denunciato.

A) L’eccezione di giurisdizione deve essere risolta nel senso di attribuire alla magistratura militare il potere di decidere su questioni della natura di quelle in esame.

Al riguardo si deve osservare che la giurisprudenza di legittimità è costante nell’affermare il principio, secondo cui, intervenuta condanna da parte di un organo della giurisdizione militare, per qualsiasi reato ed indipendentemente dalla circostanza che la pena da espiare sia costituita da reclusione militare o reclusione comune, l’affidamento in prova concedibile al condannato è pur sempre quello "militare", previsto dalla L. 29 aprile 1983, n. 167 ed avente carattere di specialità rispetto a quello ordinario (cfr., ex plurimis: Sez. 1^, 30 giugno – 9 settembre 1994, n. 3197, P.G. mil. in proc. Mauriello, Rv. 199265; Sez. 1^, 16 novembre 1994 – 17 gennaio 1995, n. 5459, P.G. mil. in proc. Di Serubo, Rv. 200844).

Mostra di seguire tale consolidato orientamento la stessa ordinanza di rimessione, la quale ha affermato che l’infondatezza della doglianza concernente il preteso difetto di giurisdizione del Tribunale Militare di Sorveglianza discende dalla puntuale osservazione del P.G. militare che – a norma della L. 7 maggio 1981, n. 180, art. 4 e L. 29 aprile 1983, n. 167, art. 4, sostituito dalla L. 23 dicembre 1986, n. 897, art. 3 – è attribuita a detto organo giudicante la giurisdizione in materia di affidamento in prova del condannato dall’autorità giudiziaria militare, anche in caso di collocamento in congedo, tant’è che la citata L. n. 167 del 1983, art. 1, attribuisce rilevanza a quest’ultima circostanza unicamente sulle modalità di esecuzione della misura alternativa, dovendo l’affidamento disporsi ad un servizio sociale e non ad un comando o ente militare, se il condannato non ha più obblighi di servizio militare (questa conclusione trova indiretta conferma in Corte Cost., sent. 54/1995).

Queste Sezioni Unite non hanno motivo di discostarsi da detto orientamento e pertanto devono confermare la pienezza della giurisdizione dell’organo che ha emesso l’ordinanza impugnata.

B) La seconda questione, l’unica che ha determinato le rimessione del ricorso alle Sezioni unite, merita un’attenzione particolare.

Va premesso che la questione è sorta perchè il Tribunale Militare di Sorveglianza, all’udienza di Camera di consiglio del 27 aprile 2005, ha rigettato la richiesta di rinvio del procedimento per concomitanza di impegno professionale del difensore di fiducia dell’interessato, ritenendo che non possono estendersi ai procedimenti di esecuzione e di sorveglianza le regole dettate "per il giudizio di cognizione"; ha designato, contestualmente, come sostituto, un altro difensore, presente, "che accetta e rinuncia ai termini".

Ciò posto, va rilevato che le acute osservazioni contenute nell’ordinanza della I sezione penale propongono un’interpretazione evolutiva delle modalità di esercizio del diritto di difesa, con riferimento al procedimento camerale; non sembra, tuttavia, che allo stato attuale del sistema normativo processuale si possa pervenire, in via meramente ermeneutica, ad un cambiamento dei consolidati principi finora seguiti.

Anche la dottrina più avvertita, nel criticare la mancata estensione, a livello legislativo, dell’art. 420 ter c.p.p., al giudizio camerale (d’appello), mostra di essere consapevole delle oggettive difficoltà di una interpretazione estensiva ed auspica un intervento integrativo del legislatore.

Per una chiara definizione della controversa tematica è opportuno prendere come punto iniziale di riflessione il precedente arresto di queste Sezioni Unite, le quali, nella vigenza dell’art. 486 c.p.p., ebbero ad affermare il seguente principio di diritto: "Il disposto dell’art. 486 c.p.p., comma 5, a norma del quale il giudice provvede alla sospensione o al rinvio del dibattimento in caso di legittimo impedimento del difensore, non si applica ai procedimenti in camera di consiglio che si svolgono con le forme previste dall’art. 121 c.p.p. (v. sentenza 8 aprile – 27 maggio 1998 n. 7551, Cerroni, Rv. 210795).

Nel corpo della motivazione, poi, la sentenza ritenne l’inapplicabilità dell’art. 486 c.p.p. anche ai procedimenti camerali di esecuzione e di prevenzione, malgrado che per questi, a differenza di quanto stabilito in via generale dall’art. 127 c.p.p. (richiamato dall’art. 599 c.p.p.), fosse prevista la "partecipazione necessaria" del difensore ai sensi, rispettivamente, dell’art. 666 c.p.p., comma 4, e dell’art. 678 c.p.p., comma 1, che richiama lo stesso art. 666 c.p.p..

Essa rilevò che in tali tipologie di procedimenti il legislatore ha optato per la "partecipazione necessaria" del difensore (e del pubblico ministero), ma non dell’interessato, che viene sentito personalmente solo quando ne faccia richiesta, stante il carattere essenzialmente tecnico dell’attività richiesta per il corretto andamento processuale.

Affermò che già "sulla base della lettera della norma risulta evidente quanto sia ardito sostenere la necessità di rinviare l’udienza per impedimento del difensore, quando neppure l’impedimento dell’imputato ne costituisce ragione".

Tale orientamento è stato costantemente seguito dalle Sezioni Semplici, anche dopo la riformulazione dell’art. 111 Cost. introdotta dalla Legge Costituzionale 23 novembre 1999, n.2, nonchè dopo l’entrata in vigore della L. 16 dicembre 1999, n. 479, che ha comportato, per quanto qui interessa, l’abrogazione dell’art. 486 c.p.p., e l’introduzione, in suo luogo, dell’art. 420 ter c.p.p., che ne riproduce la formulazione, rendendola applicabile all’udienza preliminare, ferma restando, naturalmente, l’applicabilità anche al dibattimento, in virtù del richiamo contenuto nell’art. 484 c.p.p., comma 2 bis (v. Sez. 1^, 31 marzo – 25 maggio 2000 n. 2405, Detto, Rv. 216036; Sez. 1^, 6 aprile – 16 giugno 2000 n. 2634, Gaeta, Rv. 216197; Sez. 1^, 12 maggio – 20 giugno 2000 n. 3529, Coppola, Rv. 216254; Sez. 1^, 13 marzo – 2 ottobre 2002 n. 32955, Scarlino, Rv. 222236; si annovera un’unica pronuncia dissenziente da tale orientamento: Sez. 2^, 11 ottobre – 14 dicembre 2000 n. 13033, Matranga, Rv. 217507, ).

A ben vedere il legislatore ha articolato una sistematica e differenziata disciplina dell’esercizio del diritto di difesa, in relazione alle varie fasi ed alle varie tipologie dei procedimenti nel cui ambito tale diritto deve esplicarsi.

L’incisiva riforma dell’udienza preliminare, operata dalla L. 16 dicembre 1999, n. 479, si inserisce proprio nel quadro costituzionale delineato dalla coeva novella del citato art. 111 Cost. e si ispira al nuovo modello che da mero tramite di verifica della consistenza dell’accusa l’ha fatta diventare essa stessa sede di assunzione e formazione della prova per i poteri conferiti al giudice in particolare dall’art. 422 c.p.p.; in buona sostanza all’ampliamento dei poteri probatori del giudice ha corrisposto il trasferimento in questa fase di istituti tipici del dibattimento (tra cui la contumacia e le formule terminative delle sentenze di non luogo a procedere); nè pare inopportuno osservare che l’art. 111 Cost., comma 4, espressamente sancisce che "il processo penale è regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della prova".

Si spiega, quindi, perchè l’art. 420 ter c.p.p. preveda in maniera specifica l’impedimento a comparire all’udienza preliminare dell’imputato o del difensore, anticipando a tale fase le regole prima dettate con esclusivo riferimento alla fase del dibattimento (v. abrogato art. 486 c.p.p.), tanto che ora è la fase dibattimentale a mutuarle dall’udienza preliminare (v. art. 484, c.p.p., comma 2 bis).

In tale contesto è rilevante osservare che la novella del 1999 ha anticipato all’udienza preliminare, come sopra accennato, anche l’istituto della contumacia (art. 420 quater c.p.p.), in forza del quale l’imputato è rappresentato dal suo difensore; di modo che può affermarsi che la regolamentazione dell’impedimento a comparire del difensore, come disposta dall’art. 420 ter c.p.p., è calibrata sulla figura centrale – per la fase – della presenza dell’imputato o della sua rappresentanza, la figura del difensore diventando, in un certo senso, estroflessione del diritto partecipativo dell’imputato: diritto partecipativo che nei procedimenti camerali si atteggia in maniera tutt’affatto diversa.

D’altro canto questi procedimenti in generale, e quello di esecuzione o di sorveglianza in particolare, non hanno subito nessuna trasformazione, tale da giustificare un’assimilazione con la nuova configurazione dell’udienza preliminare.

Coerentemente l’art. 127 c.p.p., che detta le forme del procedimento – tipo in camera di consiglio, prevede che i difensori (il Pubblico Ministero e gli altri destinatari dell’avviso) sono sentiti solo se compaiono (comma 3), mentre soltanto il legittimo impedimento dell’imputato o del condannato (o del detenuto in sede), che ha chiesto di essere sentito, è motivo di rinvio dell’udienza (comma 4); nessun rinvio, invece, è previsto espressamente per i procedimenti di esecuzione (art. 666 c.p.p.) e di sorveglianza (art. 678 c.p.p., che richiama l’art. 666 c.p.p.).

D’altro canto la mera coincidenza della prescrizione della "partecipazione necessaria del Pubblico Ministero e del difensore" (comune al rito ex art. 420 c.p.p.) non può condurre ad estendere la disposizione dell’art. 420 ter c.p.p. a detti procedimenti, non essendovi nè identità di ratio legis, nè collegamento normativo, come diffusamente esposto finora.

Dall’argomento testuale si deve, anzi, dedurre il contrario, ossia che il legislatore – quando ha rivisitato le forme dell’udienza preliminare – nel mantenere la prescrizione della partecipazione necessaria del difensore all’udienza (già prevista nell’assetto precedente alla novella), ha avvertito l’esigenza di inserire una norma specifica per il caso di impedimento del difensore (o dell’imputato), segno che non la riteneva ricavabile per implicito dalla mera necessarietà di detta presenza.

Lo stesso legislatore, per contro, non ha avvertito la medesima esigenza per i procedimenti camerali de quibus, per i quali non ha apportato nessuna modifica, nè ha operato richiami ad hoc, segno che ha inteso lasciare inalterata la regolamentazione vigente.

Una visione d’insieme della complessa materia conduce a rilevare che dal sistema delle riforme del 1999, compresa la novella dell’art. 111 Cost. e del giusto processo (v. in particolare la L. 1 marzo 2001, n. 63) emerge una logica tendente a contemperare, fra gli altri, il principio del contraddittorio con quello della ragionevole durata del processo, sì che le fasi più rilevanti del giudizio ordinario di cognizione sono regolate in maniera non sempre e non automaticamente trasportabili in altre sedi.

Proprio i diversi contenuti e le diverse esigenze in gioco hanno indotto il legislatore a prevedere, per il variegato mondo dei procedimenti camerali, oltre al modello tipico delineato dall’art. 127 c.p.p., schemi procedimentali differenziati, che spaziano da forme di contraddittorio necessario a forme di contraddittorio eventuale e differito, alla richiesta presenza della sola parte o del solo difensore (v. Cass. S.U. sent. 14991/2006, De Pascalis); del resto la specificità dei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza sta proprio nella necessità di assicurare celerità nell’applicazione del giudicato.

Posto che il legislatore è sovrano nel dettare le regole di diritto che intende siano applicate ai diversi procedimenti, all’interprete può porsi il problema della compatibilità delle regole date con il dettato costituzionale e con i fondamenti della disciplina posta dalla Convenzione Europea di salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (per il caso di specie, v. in particolare art. 6, paragrafo 3 lett. c).

Per quanto riguarda la nostra Carta fondamentale, si deve tenere presente che il giudice delle leggi ha costantemente riconosciuto conforme al dettato costituzionale la modulabilità delle forme e dei contenuti in cui si articola il diritto di difesa in relazione alle caratteristiche dei singoli procedimenti o delle varie fasi processuali, purchè di tale diritto siano comunque assicurati lo scopo e la funzione (v. Corte cost., sent. n. 175/1996); ha più volte conseguentemente osservato che l’effettività del diritto di difesa non deve necessariamente comportare che il suo esercizio debba essere disciplinato in modo identico nella multiforme tipologia dei riti e che non possono effettuarsi raffronti omogenei tra settori non direttamente comparabili, quali, ad esempio, il procedimento di prevenzione, il processo penale ed il procedimento per l’applicazione delle misure di sicurezza, i quali sono tutti dotati di peculiarità proprie, sia nei presupposti sostanziali, sia, di riflesso, sul terreno processuale (v. di recente, Corte cost., sent. n. 321/2004).

Al riguardo, poi, è stato pressochè univocamente ritenuto che la necessità della partecipazione del difensore può essere soddisfatta anche dall’intervento di altro difensore immediatamente reperibile, designato come sostituto ai sensi dell’art. 97 c.p.p., comma 4, al quale, peraltro, può essere concesso un congruo termine per la preparazione della difesa, spettando pur sempre all’organo giudicante di adottare i provvedimenti più acconci per garantire che l’esercizio della difesa sia effettivo; che proprio la figura del sostituto, il quale esercita i diritti e assume i doveri del difensore, assicura la pienezza della difesa (arg. ex Corte cost., sent. n. 175/1996; v., ex plurimis, Cass. Sez. 1^, sent. 5218/1998 Rv. 211891, ric. D’Onofrio; Cass. S.U., sent. 7551/1998 cit. Rv. 210795; Cass. S. U., sent. n. 8285/2006 Rv. 232906, ric. Grassia).

Le argomentazioni finora svolte fanno parte, come detto, del corredo dell’orientamento dominante, il quale le estende anche ad altre ipotesi, quando, ad esempio, afferma che l’impedimento del difensore a comparire, mentre può essere causa di rinvio dell’udienza nel giudizio abbreviato di primo grado (sia che questo si svolga in camera di consiglio che in pubblica udienza), in virtù del richiamo operato dall’art. 441 c.p.p., comma 1, alle disposizioni previste per l’udienza preliminare, ivi comprese quelle di cui all’art. 420 ter c.p.p. (da riguardarsi come sicuramente compatibili con la natura del giudizio abbreviato), non può, invece, dar luogo a rinvio dell’udienza camerale fissata per la discussione dell’appello, ai sensi del combinato disposto degli artt. 443 c.p.p., comma 4, e art. 599 c.p.p., sui quali non hanno inciso, sotto il profilo che qui interessa, nè la legge di riforma del giudizio abbreviato (n. 479 del 1999), nè quelle successive, per cui rimane valido il principio secondo cui l’udienza camerale d’appello può essere rinviata, ai sensi del citato art. 599 c.p.p., comma 1 (nella parte in cui richiama l’art. 127 c.p.p.) e comma 2, solo se sussiste un legittimo impedimento dell’imputato il quale abbia chiesto di essere sentito personalmente o abbia manifestato la volontà di comparire (Cass. Sez. 5^, sent. n. 22308/2004 Rv. 228093, Chinaglia; v. anche Cass. Sez. 4^, sent. n.20576/2005 Rv. 231360, Arenzani).

Quanto, poi, alla Corte Europea dei diritti dell’uomo, essa ha puntualizzato che il citato art. 6, paragrafo 3 e), pur riconoscendo a ogni imputato "il diritto di difendersi personalmente o di fruire dell’assistenza di un difensore di sua scelta" – tuttavia non ne precisa le condizioni di esercizio, lasciando agli Stati contraenti la scelta di mezzi idonei a consentire al loro sistema giudiziario di garantire siffatto diritto, in modo che si concili con i requisiti di un equo processo (v. C.E.D.U. Sez. 3^, sent. 27 aprile 2006 sul ricorso n. 30961/03, Sannino/Italia).

Nel caso concreto in esame, il contraddittorio è stato esaurientemente garantito sia dalla presenza effettiva (necessaria) di un sostituto del difensore di fiducia nominato dal giudice, il quale non ha chiesto termini ulteriori, sia dalla possibilità del difensore di fiducia di officiare un suo sostituto in tempi congrui per l’esercizio del mandato.

In via riepilogativa, quindi, sull’argomento in esame deve ribadirsi che il legislatore ha predisposto un sistema di esercizio del diritto di difesa differenziato per le varie fasi o tipologie dei processi; che tale differenziazione, anche se può essere sottoposta ad osservazioni critiche, segue tuttavia una linea logico-sistematica che regge al vaglio della compatibilità con il dettato costituzionale e con i principi affermati dalla C.E.D.U.; che, di conseguenza, l’interprete non può compiere operazioni integrative o migliorative, rimesse esclusivamente al legislatore; che nel caso di specie non v’è stata lesione del diritto di difesa.

Per concludere sulla questione portata all’esame di queste Sezioni Unite, deve darsi soluzione negativa al quesito se il legittimo impedimento a comparire del difensore rilevi anche nei procedimenti di esecuzione e di sorveglianza e la sua "necessaria" presenza comporti il rinvio della relativa udienza di trattazione (purchè sia assicurata la presenza di un sostituto).

C) La definizione del ricorso comporta, da ultimo, la soluzione del terzo dei quesiti posti in premessa.

Al riguardo queste Sezioni Unite ritengono opportuno – prima di passare alla disamina della questione riguardante il presente specifico ricorso – puntualizzare il quadro normativo vigente, in quanto il P.G. militare, nella sua requisitoria davanti alla Sezione 1^, aveva sostenuto che l’art. 71ter della legge n. 354/1975 ammette il ricorso per cassazione soltanto per violazione di legge: ma tale tesi non risulta fondata.

ÿ noto, invero, che l’art. 236 norme di coord. c.p.p., comma 2, dispone espressamente che nelle materie di competenza del Tribunale di Sorveglianza continuano ad osservarsi le disposizioni processuali della L. 26 luglio 1975 n. 354 diverse da quelle contenute nel capo II bis del titolo II della stessa legge.

Poichè l’art. 71ter citato, che limita la ricorribilità per cassazione in subiecta materia alla sola violazione di legge, rientra nel capo II bis, ne risulta che trova piena applicazione l’art. 666 c.p.p., richiamato dall’art. 678 c.p.p., in forza del quale la ricorribilità per cassazione è estesa a tutti i motivi previsti dall’art. 606 c.p.p. (v. art. 666 c.p.p., comma 6).

Questa regola deve ritenersi vigente anche per la materia demandata alla cognizione del Tribunale Militare di Sorveglianza.

Al riguardo si deve osservare che l’ art. 6 della legge 29 aprile 1983, n. 167 (come sostituito dall’art. 4 del D.L. 27 ottobre 1986, n. 700, convertito in L. 23 dicembre 1986, n. 897) contiene il riferimento all’applicazione, per il procedimento di sorveglianza, all’art. 71 ter; ma tale riferimento è precedente all’entrata in vigore del nuovo codice di rito penale e delle norme attuative e di coordinamento (D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 271) e deve ritenersi travolto dal disposto del citato art. 236 norme coord. c.p.p., comma 2, anche in virtù del generale rinvio contenuto nell’art. 402 c.p.m.p., dovendosi intendere che il richiamo alle "disposizioni del libro quarto del codice di procedura penale" sia riferito alla disciplina dell’esecuzione come regolata dal codice di rito allo stato vigente e quindi anche alle norme attuative (ciò vale, ad es., anche per l’art. 261 c.p.m.p.).

In altre parole si tratta di un rinvio formale (dinamico) e non recettizio (statico), in quanto non si recepisce materialmente una norma specifica, ma si procede all’individuazione della materia come regolata dalla normativa vigente (arg. per altra problematica, ex Cass. S.U., sent. n. 24561/06, Aloi).

ÿ, del resto, principio pacifico che la magistratura di sorveglianza deve farsi rientrare nella fase esecutiva dei provvedimenti giurisdizionali e che la legislazione regolante la materia mira ad armonizzare l’esecuzione delle sanzioni penali anche attraverso la giurisdizionalizzazione della materia, il che implica una regolamentazione organica della procedura di sorveglianza.

A rafforzare questa affermazione vi è la constatazione che il Tribunale Militare di Sorveglianza ha costantemente ritenuto applicabile il più volte citato art. 236 norme coord. c.p.p., comma 2, con la conferma indiretta di questo orientamento da parte di questa Corte di legittimità, la quale ha avuto modo di affermare che anche davanti al Tribunale Militare di Sorveglianza l’omesso avviso al difensore della data di svolgimento dell’udienza camerale "dovuto ex art. 678 c.p.p., e art. 666 c.p.p., comma 3, comporta la nullità della procedura" (Cass. Sez. 1^, sent. cc n. 1055/2000, Dardano; v. per altra questione anch’essa indirettamente rilevante, Cass. Sez. 1^, sent. 292/1999 Rv. 212710, Forti e n. 1351/1991 Rv. 186904, Cinque).

Compiuto l’esame sistematico dell’assetto normativo vigente e passando all’esame concreto del terzo motivo di ricorso, occorre fare una premessa: il ricorrente deduce il vizio di motivazione, dolendosi che il provvedimento impugnato faccia riferimento ad una comunicazione del Centro di servizio sociale per adulti di Napoli, secondo cui l’interessato ha reso in pratica impossibile l’effettuazione dell’indagine socio-familiare; rileva che si tratta di un riferimento del tutto fuori luogo, in quanto il P. è stato sempre residente in provincia di Trento (a ?).

In merito il Procuratore Generale Militare concludente ha riconosciuto che in effetti, sul punto, detta censura potrebbe avere una sua ragionevolezza perchè contrastante con l’intestazione indicante le complete generalità del condannato; tuttavia ha affermato che l’annotazione contenuta nell’ordinanza impugnata è frutto di mero errore materiale, essendo in atti un rapporto negativo del Centro di servizio sociale per adulti di Trento.

In realtà tale ultimo documento non è rinvenibile e comunque il riferimento motivazionale è chiaramente indicativo di un referto del Centro napoletano e non trentino; ciò significa che il provvedimento impugnato si fonda, in parte, su documentazione non riferibile al P..

A ben vedere si tratta di un motivo che impinge piuttosto ad una delle ipotesi previste dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lettera c), in quanto deduce una sorta di error in procedendo, consistente nella utilizzazione di un dato probatorio in realtà non utilizzabile in quanto non riferibile al soggetto ricorrente; sotto questo profilo comunque ne viene anche sviato il percorso del ragionamento su cui si fonda il provvedimento, siccome affetto da un riferimento incomprensibile.

Queste considerazioni conducono a ritenere fondato il terzo motivo di ricorso, con la conseguenza che l’ordinanza de qua deve essere annullata per quanto di ragione, con rinvio al Tribunale Militare di Sorveglianza, perchè proceda ad un nuovo esame tale da condurre ad una motivazione logica e coerente, anche utilizzando in forma corretta la documentazione riferibile al soggetto interessato.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata e rinvia al Tribunale Militare di Sorveglianza per nuovo esame.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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