Cass. pen., sez. II 20-09-2006 (01-06-2006), n. 31169 REATO – CIRCOSTANZE – ATTENUANTI COMUNI – DANNO PATRIMONIALE DI SPECIALE TENUITÀ – Reati contro il patrimonio – In particolare – Ricettazione – Oggetto materiale – Moduli per assegni bancari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza pronunciata in data 17 febbraio 2005, la Corte di Appello di Roma confermava la sentenza con la quale il Tribunale di Roma, in data 19 gennaio 2004, aveva condannato P.R. alla pena di anni uno e mesi cinque di reclusione ed Euro 400,00 di multa, perchè ritenuto responsabile dei reati di falso di cui agli artt. 477 e 482 c.p., e dei reati previsti e puniti dagli artt. 81 e 648 c.p..

La Corte territoriale riteneva infondati i motivi di appello esposti dalla difesa, la quale invocava, da una parte, l’assoluzione dell’imputato per non aver commesso il fatto e, dall’altra, la diminuzione di pena vista l’applicabilità, anche congiuntamente, dell’ipotesi attenuata di cui all’648 c.p., comma 2, e dell’attenuante di cui all’art. 62 n.4 c.p..

Quanto al primo motivo, la Corte territoriale riteneva certa la identificazione dell’imputato – così rigettando la censura circa la irrituale presenza in atti dei rilievi fotosegnaletici e dattiloscopici, in base al rilievo che gli operanti che avevano proceduto al sequestro dei titoli avevano dichiarato che i medesimi documenti erano stati acquisiti mentre si trovavano nella disponibilità del P.R., persona peraltro già nota agli stessi ufficiali di polizia giudiziaria che erano intervenuti e che, in precedenza, avevano sottoposto l’imputato a rilievi fotodattiloscopici.

Per quanto riguarda l’applicabilità delle richieste attenuanti, rilevava la Corte territoriale la non applicabilità, nella specie, dell’ipotesi attenuata di cui al capoverso dell’art. 648 c.p., in quanto il fatto, nel suo insieme, non poteva considerarsi di scarsa entità ben potendo il P. sfruttare al meglio l’illecita percezione dei moduli di assegno in virtù della contestuale disponibilità del falso documento; e, la non applicabilità neppure dell’attenuante di cui all’art. 62 n.4 c.p., non potendo prendersi in considerazione il solo valore della carta su cui il documento ed i titoli sono stampati, bensì i documenti in quanto tali, che hanno un valore indeterminabile per i vantaggi che da essi

possono ottenersi.

Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione l’imputato deducendo:

– Inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità (art. 606 c.p.p., lett. c), in relazione agli artt.

526, 493, 495 e 496 e segg. c.p.p.), perchè il giudice avrebbe proceduto alla acquisizione al dibattimento dei rilievi

fotodattiloscopici in maniera irrituale, senza contradditorio tra le parti, per cui gli stessi non avrebbero potuto essere utilizzati.

– Manifesta illogicità della motivazione e travisamento del fatto poichè, ad avviso della difesa, il giudice avrebbe travisato alcune dichiarazioni del teste B.: in particolare, non risponderebbe a verità la circostanza che il prevenuto, come affermato in sentenza, fosse stato già in precedenza sottoposto a fotosegnalamento;

– Erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata

considerazione dell’art. 648 c.p., comma 2; rileva la difesa che le argomentazioni del giudice di appello, in merito alla potenzialità del P. di utilizzare gli oggetti illegittimamente detenuti, non sono aderenti allo spirito della norma, che prevede, invece, un giudizio ancorato alla realtà fattuale.

Peraltro, prosegue il ricorrente, nel caso di specie il tempo trascorso riduce grandemente il disvalore giuridico della condotta posta in essere.

– Erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 62 n.4 c.p.: ad avviso della difesa, il valore dei moduli di assegno in bianco e del modulo di carta d’identità deve ricavarsi solo dal valore oggettivo degli stessi documenti che, essendo modesto, consentirebbe l’applicazione dell’art. 62 n.4 c.p..

Con motivi nuovi, il ricorrente ripropone, sviluppandola, la censura concernente la mancanza di prova circa l’identificazione dell’imputato riportando passi della deposizione resa dal maresciallo B. che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, non deporrebbero con certezza per la identificazione dell’imputato.

All’udienza del 1 giugno 2006, il Procuratore Generale chiedeva il rigetto del ricorso mentre il difensore insisteva per l’accoglimento.

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato.

Quanto al primo e al secondo motivo, che possono essere congiuntamente esaminati, è sufficiente rilevare che dalla lettura degli atti, consentita in parte qua trattandosi di censure di natura processuale, emerge con assoluta evidenza non solo che l’identificazione dell’imputato era stata operata dal maresciallo B., in dibattimento, in modo inequivoco, avendo lo stesso affermato che l’imputato era a lui personalmente noto (v. verbale esame teste, pp. 5 e segg.) ma anche che, a seguito della richiesta della difesa, il Giudice incaricava "il maresciallo B. di trasmettere al Tribunale copia dei rilievi dattiloscopici o del verbale di identificazione dell’imputato effettuato all’epoca del fatto e cioè in data ?".

Incombente, quest’ultimo, al quale gli organi di polizia ottemperavano trasmettendo il relativo cartellino fotosegnaletico che, per incidens, confermava quanto sostenuto dal teste.

A fronte di tale corretto modus procedendi da parte dell’ufficio, non pare possa ragionevolmente porsi una censura di difetto di contraddittorio nell’acquisizione del predetto cartellino fotosegnaletico che sarebbe stato prodotto dal pubblico ministero in una udienza a ciò non specificamente deputata: non si trattava, infatti, di una acquisizione di parte, che, in quanto tale, avrebbe dovuto essere autorizzata dall’ufficio, nel contraddittorio delle parti, ma di un documento che era stato formalmente richiesto direttamente dal Tribunale, nel corso del dibattimento, non solo in

presenza delle parti ma su loro, concorde richiesta (cfr. verbale esame teste B., p. 11).

Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante di cui al capoverso dell’art. 648 c.p., questo Collegio ritiene di condividere le argomentazioni della Corte territoriale: il giudizio complessivo sul "fatto", come operato dalla Corte di Appello, appare privo di vizi logici e ancorato a sicuri elementi fattuali (ad es., la contemporanea disponibilità del falso documento) che ben possono essere utilizzati dal giudice nella complessiva valutazione demandatagli dal legislatore con riferimento alla fattispecie in esame.

Quanto, infine, all’applicabilità dell’attenuante di cui all’art. 62 n.4 c.p., va osservato come la giurisprudenza di questa Corte ha tradizionalmente messo in luce la circostanza che, ai fini della configurabilità dell’attenuante del danno patrimoniale di speciale tenuità – attesa, anche, la ratio della peculiare diminuente di pena che viene qui in considerazione – quando non si tratti di denaro, si deve tenere conto del valore economico che la cosa oggetto del danno ha nelle normali contrattazioni commerciali in un determinato momento storico, senza che possa darsi peso, a tale riguardo, ad elementi contingenti o casuali, di natura oggettiva o soggettiva, che possano influenzare, in un senso o nell’altro, la valutazione della cosa come tale.

Non è in particolare consentito tenere conto, ai fini sopra specificati, del prezzo di affezione, maggiore di quello reale, che la cosa può avere per una determinata persona, nè ha rilevanza, allo stesso fine, che con azioni successive, ad opera dello stesso o di altri soggetti, la cosa in questione venga utilizzata per commettere altre azioni delittuose integranti di per sè stesse uno o più reati, in relazione ai quali la tenuità o la gravità del danno eventualmente prodotto si atteggia in una autonoma tematica circostanziale (Cass., Sez. Un., 7 luglio 1984, Suardi).

"Sulla base di tale principio" ha ancora affermato la citata decisione, "che deriva dal più generale principio, per cui il danno, ai fini dell’attenuante di cui all’art. 62 n.4 c.p., è quello che deriva in modo immediato e diretto dal reato, deve affermarsi che nell’ipotesi di ricettazione di moduli di assegni bancari in bianco, la valutazione, ai fini della concessione o del diniego dell’attenuante prevista dall’art. 62 n.4 c.p, del danno patrimoniale derivante dal reato di ricettazione, va eseguita in base al valore dei moduli stessi e non al diritto di credito incorporabile nei titoli".

Orientamento, quello testè citato, sicuramente prevalente anche nella successiva giurisprudenza di legittimità (cfr, ex plurimis, Cass., Sez. 4^, sentenza n. 44639 del 2005) che ha altresì affermato che ai fini della configurabilità della circostanza attenuante del danno di speciale tenuità si deve tenere conto, quando oggetto del reato non sia una somma di denaro, del valore oggettivo della cosa e quando si tratti di furto di un carnet di moduli per assegni bancari

(non recanti la indicazione di importi), del valore oggettivo intrinseco (quello "cartaceo" dei moduli de quibus) del medesimo, cui va rapportato il danno diretto da reato, e non già gli eventuali ulteriori pregiudizi che potrebbero derivare al soggetto passivo dall’uso da parte di terzi di quanto a lui sottratto, pregiudizi che non rientrano nella nozione del danno quale conseguenza immediata e diretta del reato (cfr., ex multis, Cass. Sez. 2^, 28/09/1992 n. 1036, Cacace, e, più di recente, Cass. Sez. 2^, 18/12/2003 n. 2919, Melia).

Questo collegio ritiene, viceversa, di trarre spunto dal minoritario orientamento di questa Corte – che, pur dopo l’intervento delle Sezioni Unite, ha ritenuto "di escludere la sussistenza della circostanza attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p., nella ricettazione di moduli di assegni in bianco, a causa della potenziale utilizzazione dei titoli, che conferisce ad essi un valore che trascende quello della loro materialità cartacea" (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 2^, n. 4988,11 luglio 1991, p.m. in proc. Petrelli) – per affermare che proprio l’insegnamento delle Sezioni Unite sta, evidentemente, a significare che la res in ordine alla quale si profili l’ipotetica configurabilità di un danno patrimoniale – per avere la stessa formato oggetto di un delitto che offende il patrimonio – deve presentare i connotati di un bene che

abbia un certo (anche se modesto) valore economico, e che tale valore possa essere determinato in ragione delle relative condizioni di mercato.

Soltanto un bene che può formare oggetto di transazioni commerciali può, quindi, essere un bene suscettibile di una

valutazione economica, con l’ovvia conseguenza di potersi per esso (e soltanto per esso) configurare – ove formi oggetto di reato – un corrispondente danno patrimoniale, a sua volta "misurabile" in termini di "speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.), o, all’inverso, di "rilevante gravità" (art. 61 n. 7 c.p.).

ÿ evidente, allora, che, ove il delitto contro il patrimonio prenda a riferimento cose prive di rilevanza economica, non potendo le stesse formare oggetto di alcun negozio (e, quindi, insuscettibili di una corrispondente valutazione economica), quali sono – appunto – moduli per assegni o simili, ne deriva che la diminuente di cui all’art. 62 n.4 c.p. non può trovare applicazione proprio perchè difetta la "patrimonialità" della res.

Ben diversa è, evidentemente, l’ipotesi in cui il reato contro il patrimonio abbia, invece, ad oggetto un assegno già formato: in questo caso, infatti, la natura di titolo di credito e le obbligazioni che in esso sono consacrate, fanno assumere al modulo di assegno i sicuri connotati di un "bene" che può formare oggetto di negozi e che può assumere, dunque, un valore economicamente apprezzabile anche agli effetti del corrispondente danno patrimoniale che il reato può, attraverso esso, realizzare in capo alla persona offesa.

Principio, quello testè evocato, che non comporta, ovviamente, ricadute in tema di reato presupposto (in ipotesi, in tema di furto), atteso che in relazione a tale fattispecie è stato costantemente affermato che il bene oggetto della condotta criminosa non deve essere considerato unicamente nella sua consistenza materiale, ma anche con riferimento alla sua normale destinazione d’uso, equivalente al profitto illecito che ne trae colui che se ne è impossessato (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5^, 25 settembre 1998, Di Gioia): in altri termini, la nozione di "patrimonio", ai suddetti fini, ricomprende necessariamente anche quelle cose che, pur prive di reale valore di scambio, rivestono comunque interesse per il soggetto che le possiede.

Viceversa, ai fini dell’applicabilità della speciale attenuante di cui all’art. 62 n.4 c.p., dovendo la valutazione riguardare la "speciale tenuità del danno" cagionato alla persona offesa, deve ragionevolmente affermarsi che, se il concetto di "danno" va individuato in chiave funzionale, non può dubitarsi che l’acquisizione di una res che non contiene alcun valore economico, non possa integrare, ex se, un fatto o un danno di particolare tenuità: e ciò, ancor più quando, come nella specie, la res dell’acquisizione illecita è un oggetto strumentale, naturalmente, funzionalmente ed esclusivamente destinato a formare oggetto di una successiva condotta illecita, volta sicuramente alla realizzazione di

un profitto.

Infine, e sotto diverso profilo, va comunque osservato che anche la condivisione della tesi che ha come esclusivo riferimento il valore del modulo in bianco, porta a ritenere irragionevole – alla luce della stessa giurisprudenza di questa Corte (che ha sempre condivisibilmente affermato che per la sussistenza dell’attenuante di cui all’art. 62 n. 4 c.p. è necessario che il danno arrecato alla parte lesa sia non solo lieve, ma lievissimo, ossia di minima rilevanza economica) – l’affermazione che l’acquisizione dell’oggetto non presenti una intrinseca (sia pur modesta) potenzialità aggressiva del patrimonio del derubato.

Questo collegio condivide infatti, anche sul punto, quell’orientamento giurisprudenziale, successivo al pronunciamento

delle Sezioni Unite, che ha affermato che il valore (intrinseco) dei moduli va determinato tenendo conto anche di tutte le operazioni tecniche necessarie a rendere i moduli difficilmente imitabili (cfr., Cass., sez. 1^, 31 maggio 1991, Angelone, Cass., sez. 2^, 4 novembre 1988, Proietti) o, ancora, del costo di tutte le operazioni indispensabili per la sua utilizzazione, o del disagio e delle spese da affrontare per la denuncia e il rinnovo del documento (cfr. Cass., sez. 2^, 14 gennaio 1985, Ranieri): e che, per evitare un danno patrimoniale, questo sì, immediato e diretto dal reato, la vittima deve sovente porre in essere alcuni adempimenti, come il "blocco" del conto corrente, finalizzati ad impedire la indebita utilizzazione del conto medesimo mediante operazioni bancarie effettuate prima della denuncia.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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