Cass. pen., sez. IV 12-09-2006 (19-06-2006), n. 30057 IMPUGNAZIONI – CASSAZIONE – MOTIVI DI RICORSO – ILLOGICITÀ DELLA MOTIVAZIONE – Contraddittorietà della motivazione – Rilevabilità – Necessità che sia manifesta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Osserva

1. Nel febbraio 1999 – come ricostruito dai giudici del merito – A.E. e D.I.L., che svolgevano la professione di modelle ("anche se non a tempo pieno") ricorrevano al centro estetico ?), in Torino, gestito da D.P., per sottoporsi ad un trattamento mesoterapico anticellulitico: tale trattamento consisteva nella inoculazione di varie sostanze che dovevano aggredire le molecole lipidiche e nel successivo massaggio meccanico che avrebbe dovuto favorire l’assorbimento per drenaggio di tali sostanze. Il trattamento veniva in quel centro praticato dalla dott.ssa T.A. e veniva iniziato senza che le due donne venissero sottoposte a preventivi test o indagini circa eventuali allergie o intolleranze e senza la esplicita dichiarazione di consenso informato.

Secondo le dichiarazioni rese delle due pazienti (costituitesi parti civili), dopo il quinto giorno di trattamento D.I.L. aveva notato l’insorgere di rigonfiamenti sulle cosce, dolenti e calde al tatto, ed aveva di tanto informato telefonicamente la dott.ssa T., che le aveva prescritto di applicare del ghiaccio ed una pomata antibiotica, terapia seguita da D.I., che dopo circa una settimana non ne aveva, tuttavia, tratto benefici. La donna, quindi, aveva nuovamente avvertito di tanto T., rappresentandole che il dolore si era fatto acuto, sì da non consentirle neppure di sedersi; recatasi nuovamente in quel centro, la dott.ssa T. aveva proceduto ad un test allergologico, con esito negativo, ed aveva prescritto alla paziente di eseguire altri massaggi e di sottoporsi a trattamenti con lampada per mascherare gli aloni neri. A tal punto, D.I. si era rivolta al suo medico di base (dott. G.F.), che le aveva prescritto degli antibiotici ed una ecografia: visti gli esiti di tale ultimo esame, il medico aveva consigliato alla paziente di rivolgersi ad un chirurgo "perchè si tratta ormai di ascessi che vanno incisi ed evacuati", ed il chirurgo (prof. M.A.) le aveva indicato la necessità immediata di un intervento, vietandole "nel frattempo addirittura di sedersi per l’alto rischio di rottura degli ascessi": di tanto la donna aveva informato sia T. che il centro estetico.

Il 20 maggio successivo era stato eseguito un primo intervento chirurgico (presso l’ospedale ?), nel corso del quale erano stati incisi ed evacuati gli ascessi, tenuti aperti con zaffi sotto copertura antibiotica. Successivamente si erano resi necessari altri interventi di incisione, effettuati, ambulatorialmente ed in anestesia locale, fino al dicembre successivo. Quali postumi erano residuate delle cicatrici fino a metà coscia, avvallamenti e aloni neri che le impediscono di indossare minigonne e costumi da bagno e di continuare nella sua attività di modella.

E.A., dal canto suo, alla quinta seduta delle dieci programmate aveva notato dei rigonfiamenti sulle cosce e tanto aveva fatto notare sia a D. (gestrice del centro) che a T., ricevendo da costoro assicurazioni che si trattava di effetti normali del trattamento; ma i rigonfiamenti avevano preso a dolerle, divenendo "massa maggiore tanto da essere visibili e caldi". Tanto la paziente aveva rappresentato a D. e T., venendone di nuovo tranquillizzata e quest’ultima prescrivendole dell’Aureomicina, un antiflogistico, ed una crema antibiotica e consigliandole di sottoporsi ad ulteriori trattamenti con Fisiotron (apparecchiatura per massaggi meccanici). Per una settimana, tuttavia, nonostante l’osservanza di tali prescrizioni, non v’era stato alcun miglioramento ed anzi una sera la donna, facendo la doccia, aveva notato che uno dei rigonfiamenti era "scoppiato", fuoriuscendone un liquido trasparente e bianchiccio frammisto a sangue. L’indomani A. si era recata dal suo medico curante ed aveva ricevuto una telefonata di D.I. che l’aveva informata sulle sue vicissitudini; ella, quindi, si era rivolta allo stesso chirurgo indicatole da D.I. che, il ?, l’aveva sottoposta ad intervento di incisione di diciassette ascessi, cui erano seguite medicazioni e cure di altri ascessi via via comparsi.

Erano residuate "ben 26 cicatrici con aloni neri ed avvallamenti", anche a lei "è ora impedito di indossare minigonne e costumi da bagno e di continuare la sua attività di modella e, nel periodo di convalescenza, anche di lavorare come commessa in un negozio".

A seguito di ciò, nei confronti di T.A. veniva iniziato procedimento penale per imputazioni di cui all’art. 590 c.p. (separatamente si procedeva per D.P.).

Nel corso di un incidente probatorio veniva effettuata una perizia affidata al dott. G.R., medico-legale, ed al chirurgo estetico dott. M.F., i quali indicavano "in termini di alta probabilità la causazione da infezione batterica" e ne addebitavano la causa alla dott.ssa T. sulla scorta di tre considerazioni: la insufficiente igiene del luogo, la insufficiente igiene della cute delle pazienti prima delle iniezioni, la contaminazione originaria o successiva all’apertura delle fiale riutilizzate dei farmaci iniettati. Il consulente di parte civile, dott. T.R. sottolineava che il profilo colposo della condotta dell’imputata ancor più evidente emergeva dall’erroneo trattamento terapeutico praticato dopo che i disturbi e gli ascessi si erano già prodotti e che l’imputata medesima aveva giudicato gli ascessi come infettivi, giacchè aveva somministrato alle due pazienti degli antibiotici. L’altro consulente di parte civile, dott. I.M., forniva un elenco manoscritto (acquisito agli atti) a lui consegnato dalla paziente D.I., contenente l’elenco di cinque farmaci che ella aveva indicato come utilizzati nel suo trattamento dall’imputata, e accanto a quelli da quest’ultima indicati figurava anche il Fleboside, una specialità medicinale della quale dal 1997 era stata vietata la somministrazione in mesoterapia.

Il consulente di parte dell’imputata, dott.ssa G.M., riteneva, invece, che non si trattava di un fenomeno settico, ma di ascesso asettico; l’altro consulente della stessa parte, dott. R.M.G., premetteva innanzitutto l’assenza in letteratura di ascessi quali conseguenze di mesoterapie e (sulla scorta anche di un episodio da lui personalmente appreso) rilevava che soluzioni contenenti farmaci alterati, pur correttamente iniettati durante una mesoterapia, possono dar luogo ad una spina irritativa: tale fenomeno da luogo non a infezioni, ma ad ascessi asettici o chimici, permane per lungo tempo a fasi alterne e può quindi dar luogo a recidive anche a distanza di tempo. In particolare, nella specie, tra i farmaci utilizzati v’era anche il Venoplant, che più probabilmente va incontro a fenomeni di alterazione, anche a seguito di scorretto mantenimento termico durante il trasporto.

Nel corso del dibattimento veniva svolta una nuova perizia, affidata al prof. E.M., farmacologo, e dalla prof.ssa M. G., bioioga. Questi spiegavano l’assenza di batteri in un tampone che era stato prelevato alla paziente A., rilevando che la somministrazione di antibiotici prima del prelievo poteva aver falsato il quadro. Il prof. E. riteneva tre possibili e diverse causali, che, peraltro, potevano tra loro combinarsi: infezione, lesione da farmaco, reazione immuni tana; giudicava improbabile una infezione originaria e riteneva la sussistenza di un nesso di causalità tra il trattamento effettuato e una probabile causa asettica originaria; rilevava che nessuno dei cinque farmaci utilizzati prevede come indicazione la terapia della cellulite, che per nessuno di essi era prevista la somministrazione sottocutanea, che le posologie indicate non corrispondevano a quelle praticate dall’imputata.

Da tali premesse traeva la considerazione che l’uso di quei farmaci off-label (fuori regola, come il trattamento eseguito da T.) era legittimo solo se veniva allegata una documentazione scientifica che contrastasse le indicazioni o la posologia ufficiali e si fosse ottenuto il consenso informato delle pazienti; confermava che uno di essi, il Fleboside, è vietato secondo disposizioni ministeriali dal 1997 perchè non vi sono studi clinici controllati che ne attestino la sicurezza. Rilevava che anche il Venoplant, pur non vietato (ma ritirato dal mercato a seguito di decreto ministeriale dell’8 luglio 1997, perchè ritenuto inefficace) ha controindicazioni, in quanto il principio attivo (una saponina, escina) può dar luogo a segnalate reazioni immunogene e istolesive dirette se iniettato in via sottocutanea, fenomeni in genere di rapida risoluzione ma che possono dar luogo ad ascessi asettici; degli altri farmaci utilizzati, l’Ateroid, può provocare istolesione diretta o ipersensibilità ritardata, produttive di ascessi asettici; l’Irrodan può provocare allergia cutanea; per l’Aminomal erano stati segnalati alti rischi di sensibilizzazione immunogena e, se immesso in una soluzione con PH inferiore a 8 (come nella specie era avvenuto) è soggetto a precipitazioni di cristalli di principio attivo che costituiscono uno stimolo irritativo flogogeno. Infine, lo stesso coktail di tali farmaci non era immune da rilievi, giacchè non si conoscono le loro compatibilità ed il loro contemporaneo uso può aumentare in modo esponenziale i rischi di tossicità diretta istolesiva di ciascun farmaco.

Il Tribunale di Torino, con sentenza del 18 novembre 2002, affermava la penale responsabilità dell’imputata, condannandola a pena ritenuta di giustizia (con entrambi i benefici di legge) ed al risarcimento del danno, da liquidarsi in separata sede, in favore delle costituite parti civili, cui assegnava delle provvisionali. Sul gravame dell’imputata, la Corte di Appello di Torino, con sentenza del 10 dicembre 2004, confermava la decisione del primo giudice.

Quest’ultimo aveva ritenuto che le lesioni si erano originariamente verificate per infezione causata dall’inquinamento ambientale, richiamando "il notorio fenomeno di contaminazione ambientale da semplice contatto fra camice non pulito o piano di appoggio e siringhe, ago, liquidi?". Rilevava, inoltre, che, pur accedendo alle diverse conclusioni del perito E. (spina irritativi inizialmente sterile), non mutava la ritenuta conclusione in punto di responsabilità dell’imputata, atteso che tale spina irritativi sterile era stata comunque causata dalle modalità di confezionamento di quel cocktail di farmaci, somministrati al di fuori delle modalità di utilizzo consigliate nei "bugiardini" dei farmaci stessi. Individuava i profili di colpa dell’imputata nell’aver operato in un ambiente soggetto ad alti rischi di inquinamento igienico, nel non aver sottoposto le pazienti ad anamnesi su possibili intolleranze, nel non aver richiesto alle stesse ed ottenuto il loro consenso informato, nell’aver utilizzato quel cocktail di farmaci non indicati per la cura della cellulite, nell’aver omesso qualunque intervento seriamente terapeutico, tale alto numero di profili di colpa rendendo evidente anche la prevedibilità dell’evento.

I giudici di secondo grado, dopo aver rilevato che "la macroscopica carenza di igiene in cui la T. eseguì i due trattamenti medici in questione" avevano portato ad "influenzare ed indirizzare l’andamento e le conclusioni della prima perizia" G.-M. (eseguita in sede di incidente probatorio), ritenevano di dover condividere le conclusioni cui erano pervenuti i periti prof. E. e prof.ssa M. in sede dibattimentale, giacchè, posto che "l’unico elemento che li ha portati a prediligere la causa asettica a quella settica (comunque ben possibile) è stata la latenza lunga e differenziata degli ascessi nelle due pazienti", tale" elemento clinico che ha portato i due periti dibattimentali a optare per la causa asettica non è stato scientificamente controbattuto nè dai tecnici della difesa?, nè dai tecnici di p.c"; confutavano la tesi difensiva, ritenuta "non scientificamente accettabile", secondo cui quell’irritazione asettica era dovuta ad un’alterazione fisica o chimica originaria dei farmaci utilizzati; ritenuta la causa originariamente asettica delle lesioni, rilevavano che questa "a sua volta si sdoppia perchè trarrebbe origine dalla presenza nella soluzione iniettata di corpuscoli precipitati che darebbero vita ad altrettante spine irritative o lesive; ovvero ad una risposta immunitaria personale ai farmaci stessi". Ritenevano la colpa dell’imputata perchè "ognuno dei farmaci utilizzati dalla T. non aveva come indicazione il trattamento della cellulite, nessuno doveva essere utilizzato in via sottocutanea, nessuno dei farmaci doveva essere somministrato nelle dosi utilizzate dalla T?.", e rilevano che l’uso del Fleboside "rende macroscopici colpa e nesso di causalità, posto che si tratta di farmaco espressamente vietato in mesoterapia per i rischi di irritazione?". Soggiungevano che l’imputata agì "con grave colpa anche nel trattamento terapeutico che somministrò ad entrambe le pazienti", giacchè "avrebbe dovuto – come in effetti fecero nelle stesse condizioni altri medici – innanzitutto visitare le due pazienti con accuratezza e non basarsi sulle loro descrizioni telefoniche delle lesioni, effettuare subito il prelievo del liquido non assorbito?, ovvero più tardi far eseguire quelle ecografie che avrebbero svelato la presenza degli ascessi ormai formati, certo non far eseguire su una supposta infezione ulteriori trattamenti con Fisiotron o trattamenti estetici abbrozzanti".

2.0 Avverso tale sentenza ha proposto ricorso l’imputata, per mezzo del difensore, denunziando:

a) vizi di violazione di legge e di motivazione, per avere i giudici del merito illegittimamente escluso "l’incidenza dell’alterazione fisica o chimica originaria di uno dei farmaci utilizzati quale meccanismo eziologico alternativo e indipendente dalla condotta colposa dell’agente". "Non si comprende – assume la ricorrente – la ragione per la quale la mera ipotesi avanzata dai periti sia scientificamente accettabile e quella, invece, prospettata dal consulente della difesa, forte di una osservazione clinica concreta, debba ritenersi scientificamente inaccettabile", essendosi al riguardo espresso "un ragionamento che nulla spiega circa la validità di una tesi causale rispetto all’altra alternativa che rappresenta una oggettiva interferenza di condizionamento delle lesioni?";

b) vizi di violazione di legge e di motivazione, per essere "palesemente carenti le ragioni che hanno indotto il collegio di appello a ravvisare la colpa dell’imputata nell’utilizzo del cocktail di farmaci per l’applicazione mesoterapica, nonchè il nesso causale fra condotta ed evento". Le considerazioni della sentenza impugnata al riguardo sarebbero frutto di un "salto logico", in esse non essendovi "nulla di scientifico", giacchè "che ciascuno di quei farmaci porti con sè un rischio è dato comune al farmaco? in sè considerato?"; e "neppure si può condividere l’assunto secondo cui la somministrazione contemporanea di quei farmaci cagioni un aumento dei rischi ad essi connessi", non essendo tale conclusione "confortata da nulla?

Il fatto che le compatibilità tra quei farmaci non sia conosciuta non può essere motivo di addebito perchè è indimostrata la loro incompatibilità. Nè l’eventualità che la loro contemporanea somministrazione possa aumentare i rischi di tossicità di ciascun farmaco può ritenersi elemento idoneo a fondare la penale responsabilità dell’imputata?", non senza considerare che "il prof. D.C?., riproducendo il cocktail farmacologico in questione, ha concretamente escluso ciò che i periti astrattamente ipotizzano". Prosegue la ricorrente rilevando che "praticare la mesoterapia può essere attività pericolosa, ma lecita. La lesione accidentale che deriva dalla seduta mesoterapica (che non può attuarsi se non attraverso la somministrazione di farmaci) non può imputarsi al medico per il solo fatto di aver inoculato dei farmaci", e "per poter affermare che i farmaci, o, meglio, il cocktail, così come preparato dalla T., sia frutto di un errore inescusabile, occorre necessariamente individuare di quali diversi farmaci potevano e dovevano essere utilizzati?", mancando anche nella decisione impugnata "qualsivoglia elemento che giustifichi il nesso di condizionamento tra utilizzo off-label dei farmaci e le lesioni lamentate.., ". Conclude al riguardo rilevando che "se l’imputata è colpevole perchè ha inoculato più farmaci contemporaneamente, allora la medesima è colpevole perchè – sic et simpliciter – ha praticato la mesoterapia. Il salto logico balza agli occhi?";

c) vizi di violazione di legge e di motivazione, sul punto in cui si è ravvisata la colpa dell’imputata "addebitando(le) apoditticamente? l’uso del farmaco Fleboside". "La Corte – lamenta la ricorrente – addebita l’uso di tale farmaco in mancanza di qualsiasi prova o, meglio, ritiene che la sussistenza di un unico indizio circa l’uso del Fleboside possa fondare la prova del suo uso e somministrazione da parte della T. sulle due parti civili", mentre "l’unico elemento che viene posto a conforto della affermazione di responsabilità per l’uso del Fleboside si fonda, in sentenza, su un appunto manoscritto" proveniente dalla persona offesa e "i riscontri offerti in ordine all’acquisto dei farmaci tramite le testimonianze dei due farmacisti ove l’imputat(a) acquistava i farmaci hanno escluso categoricamente l’acquisto di tale farmaco dopo il 1995 – 1996"; inoltre, "difetta nella sentenza ogni giustificazione che possa relazionare il concreto uso del Fleboside alle manifestazioni lesive patite dalle persone offese?";

d) vizi di violazione di legge e di motivazione, sul punto in cui è stata ravvisata la colpa della ricorrente "senza tenere in alcun conto i profili di prevedibilità, prevenibilità ed evitabilità dell’evento dannoso, in relazione alla risposta immunologia soggettiva ai farmaci". Posto che "il meccanismo di connessione tra condotta ed evento è duplice: da un lato l’azione diretta del farmaco per la sua composizione chimica e, dall’altro, la reazione soggettiva della paziente al farmaco medesimo", ed "atteso che "l’azione diretta dei farmaci è riconducibile in via esclusiva alla loro somministrazione ed alle modalità della medesima, la reazione immunologica soggettiva prescinde oggettivamente dalle modalità di somministrazione, dipendendo solamente dalle risposte che ogni organismo umano assume rispetto al farmaco", dovendosi ulteriormente considerare che "l’effetto immunitario è stato qui ritardato: ovvero si è manifestato clinicamente settimane o mesi dopo la somministrazione del farmaco, escludendo così la concreta possibilità per il sanitario di sospendere in itinere la terapia, laddove l’azione eventualmente istolesiva del principio attivo può rimanere, proprio come nel caso di specie, subdolamente silente per molto tempo". L’affermazione di responsabilità – assume la ricorrente – avrebbe dovuto "necessariamente fondare il proprio ragionamento dimostrando come concretamente prevedibili per il medico tre diverse circostanze fattuali: il potenziale immunogeno dei farmaci utilizzati; l’aumento del rischio immunitario con l’utilizzo di un cocktail farmacologico; le singole reazioni individuali al farmaco o al cocktail somministrato".

Soggiunge che "non è affatto vero che "nessuno dei farmaci utilizzati avrebbe dovuto essere iniettato per via sottocutanea" ?" e "che "nessuno dei farmaci doveva essere somministrato nelle dosi utilizzate dalla T."? in un cocktail non sperimentato?"; e) vizi di violazione di legge e di motivazione sul punto in cui è stata ravvisata "una colpa eziologicamente connessa con l’aggravamento della malattia nel trattamento terapeutico successivo all’evento lesivo, senza affrontare mai l’incidenza causale autonoma ed indipendente dei medici che si sono succeduti nelle cure apprestate alle pazienti". Le cure chirurgiche – si rileva – si sono manifestate tanto inadeguate da consentire agli ascessi di recidivare, così da richiedere ulteriori incisioni chirurgiche e da comportare proprio quegli esiti cicatriziali oggi lamentati dalle parti civili"; e, "se vi è stato, insomma, ritardo terapeutico, questo è dovuto ad un errore di diagnosi infettiva, errore in cui sono caduti anche i medici intervenuti successivamente" e "il ritardo dovuto all’errore dei medici che si sono succeduti all’imputata non può non incidere sulla colpa, sul nesso e sull’evento?", sicchè "non si comprende davvero perchè le conseguenze dell’errore diagnostico e, quindi, terapeutico siano state accollate per intero sull’imputata e non, invece, distribuite e condivise secondo giustizia con gli altri medici che sono incorsi nel medesimo errore"; f) vizi di violazione di legge e di motivazione in punto di trattamento sanzionatorio, sotto il profilo che sarebbe "chiaramente immotivata? la decisione d’appello, laddove, pur riformando la sentenza di primo grado in ordine alla sussistenza dei profili di colpa relativi all’origine infettiva delle lesioni, ha ritenuto di confermare la pena inflitta?";

g) vizi di violazione di legge e di motivazione sul punto in cui è stata confermata "la pena inflitta in primo grado, negando sia l’applicazione della pena pecuniaria, sia il giudizio di prevalenza delle attenuanti generi che?". In particolare, rileva la ricorrente "che il mancato risarcimento del danno da parte dell’imputata attenga a profili difensivi che non possono essere ritenuti pregiudizievoli sul comportamento processuale che, altrimenti, assumerebbe una connotazione negativa ogni qualvolta l’imputato medesimo non ammetta i fatti a lui contestati". "Non una parola, invece, circa la assoluta incensuratezza dell’imputata, sui tentativi (anche giudiziali) di costringere la Compagnia assicurativa a far fronte alle richieste risarcitorie della parti civili?".

?

I primi cinque profili di doglianza, in punto di responsabilità, non sono condivisibili.

Per come, invero, sopra di già richiamato, i giudici del merito hanno, innanzitutto, diffusamente evocato le circostanze fattuali tutte del caso ed hanno altrettanto puntualmente richiamato gli esiti delle disposte indagini tecniche, in particolare le due perizie effettuate ed i contributi offerti dalle consulenze tecniche di parte, hinc et inde prodotte; sono giunti, quindi, al divisamento espresso valutando tali esiti, con argomentare che non si palesa inficiato da illogicità, che la norma, peraltro, vuole dover essere "manifesta", cioè coglibile immediatamente, ictu oculi.

In particolare, ed in riferimento alle specifiche censure proposte, hanno ritenuto, così sposando le conclusioni della perizia E. – M., espletata in sede dibattimentale, che le lesioni riportate da entrambe le persone offese derivavano da causa originariamente asettica (pur ritenendo la causa settica "ben possibile") e che tale causa originariamente asettica era "costituita dall’inoculazione di sostanze sterili che per la loro composizione chimica ovvero per fenomeni di sensibilizzazione avrebbero causato multiple spine irritative poi evolutesi in franchi ascessi".

E dunque, una volta ritenuta non comprovata (ancorchè pur "possibile") una causa settica, non può dubitarsi che la causa delle lesioni sia riconducibile alla somministrazione di quei medicinali, escludendosi, peraltro, e neppure gravatoriamente prospettandosi, l’interferenza di altre serie causali nella determinazione delle patologie in questione.

In tale contesto, che deve ritenersi accertato punto di approdo della prima indagine che al riguardo si proponeva ai giudici del merito, questi hanno escluso che tale relazione causale fosse stata determinata da "un’alterazione fisica o chimica originaria dei farmaci utilizzati": per come riporta la sentenza impugnata, tale tesi era stata prospettata dal consulente di parte, dott. R. M.G., che aveva evocato un caso da lui direttamente osservato ("rimasto poi del tutto isolato nella sua lunga carriera di mesoterapista"), e che "non si è limitato a segnalare un caso di ascesso settico da lui clinicamente certificato, ma si è spinto a ipotizzare che la causa di quell’irritazione asettica era in quel caso (e forse anche nei casi di D.I. e A.) un’alterazione fisica o chimica, che ha innescato fenomeni irritativi poi sommatisi a infezioni secondarie da patogeni interni al corpo e non inoculati con la mesoterapia effettuata dalla T.".

Tale tesi difensiva è stata disattesa dalla Corte territoriale sul rilievo che il caso riferito dal consulente tecnico di parte "sarebbe unico ed isolato in Italia, il che fa già di per sè dubitare che esso dipenda da alterazioni originarie del farmaco?", e che, posto che "per ben due volte l’alterazione originaria si sarebbe verificata durante i trattamenti effettuati dalla T. (due volte, cioè in due diverse fiale, posto che la T. sostiene di aver sempre esaurito ogni fiala per ogni paziente), la stranezza statistica diventa ancor più eclatante e sostanzialmente inaccettabile".

Tale argomentare si palesa, per vero, immune da vizi di illogicità manifesta, atteso che la prospettazione formulata non irragionevolmente è stata ritenuta non assistita da alcun condiviso riscontro fattuale e scientifico, meramente assertiva e del tutto ipotetica. Invero, una mera ipotesi che si appartenga al novero del solo astrattamente possibile non è idonea, di per sè, a togliere rilievo a fatti diversi storicamente accertati che esplicano i loro effetti non più nella sfera dell’astrattamente possibile, ma in quella del concretamente probabile. A fronte di una spiegazione causale del tutto logica, siccome scaturente e dedotta dalle risultanze di causa correttamente evidenziate e spiegabilmente ritenute, la prospettazione di una spiegazione causale alternativa e diversa, capace di inficiare o caducare quella conclusione, non può essere affidata solo ad una indicazione meramente possibilista (come accadimento, cioè, possibile nell’universo fenomenico), ma deve connotarsi di elementi di concreta probabilità, di specifica possibilità, essendo necessario, cioè, che quell’accadimento alternativo, ancorchè pur sempre prospettabile come possibile, divenga anche, nel caso concreto, hic et nunc, concretamente probabile, alla stregua, appunto, delle acquisizioni processuali.

La prospettazione gravatoria, peraltro, non tiene conto di quanto chiarito dal perito prof. E., che cioè il Venoplant, "pur non vietato ma ritirato dal mercato giusto decreto ministeriale dell’8.7.97", "ha controindicazioni in quanto il principio attivo? può dar luogo a segnalate reazioni immunogene e istolesive dirette se iniettato in via sottocutanea, fenomeni in genere di rapida risoluzione ma che possono dar luogo a ascessi asettici", sicchè, in effetti, si palesa meramente assertiva la prospettazione di "un’alterazione fisica o chimica originaria dei tarmaci utilizzati" in riferimento ad un farmaco che già di per sè, anche se del tutto correttamente conservato, ha quelle controindicazioni e da luogo a quelle patologie indicate. Che se tali cause alterative della sostanza, come difensivamente addotte, fossero, poi, dovute "a causa di condizioni di conservazione inadatte", giustamente annota la sentenza impugnata che all’imputata egualmente "sarebbero? addebitabili personalmente tali profili di scorretta conservazione".

Ciò posto, certo deve ritenersi, per come accertato dai giudici del merito, che quelle lesioni conseguirono alla somministrazione di quei medicinali. E quanto all’uso del Fleboside essi hanno congruamente rilevato – con giudizio di merito che, logicamente espresso, si sottrae a rinvenibili vizi di motivazione al riguardo – che "l’accertato flusso di informative che intervenne fra le due parti civili e il centro ? dopo la comparsa dei primi segni di sofferenza e la presenza in quella lista manoscritta di informazioni personali della T. (che dunque solo da lei potevano pervenire) siano risolutivi per ritenere che anche tale farmaco fece parte di quel cocktail che la T. sperimentò sulle due parti civili".

ÿ stato peritalmente accertato – come sopra di già ricordato ? che nessuno di quei farmaci era indicato per la terapia della cellulite (per questa le due persone offese si erano rivolte all’imputata); che per nessuno di essi era prevista la somministrazione sottocutanea; che le posologie indicate non corrispondevano a quelle praticate; lo stesso perito ha rilevato che neppure si conosce la reciproca compatibilità dell’uso simultaneo di quei farmaci, che pure vennero somministrati anche in assenza di formale consenso informato prestato dalle pazienti, e che, comunque, il loro uso simultaneo può esponenzialmente aumentare i rischi di tossicità istolesiva degli stessi; ancora, lo stesso perito ha rilevato che l’uso del Flobiside era stato vietato per disposizioni ministeriali e che altri di quei farmaci (il Venoplant, peraltro pur esso ritirato dal mercato nel luglio 1997, l’Ateroid, l’Irrodan, l’Aminomal) avevano delle controindicazioni, potendo, tra l’altro, dar luogo ad ascessi asettici, istolesioni dirette, sensibilizzazione immunogena. In tale contesto, del tutto ragionevole si palesa la conclusione dei giudici del merito che le lesioni lamentate dalle persone offese siano in effetti derivate da quei farmaci, non indicati per la bisogna, idonei a determinare rischi di complicanze per il loro contestuale assemblamento e, comunque, aventi, già di per sè, connotazioni di inefficacia e di controindicazioni specifiche, anche in riferimento alla possibile insorgenza di ascessi asettici, che poi in effetti si verificarono: connotazioni fattuali tutte, queste, che danno ragione dei ritenuti profili di colpa dell’imputata e sicura riconoscibilità del pericolo, della prevedibilità dell’evento, che è quella "oggettiva dell’uomo coscienzioso ed avveduto nella situazione data e nel concreto ruolo sociale dell’agente", per mutuare l’espressione di autorevole dottrina, dell’homo eiusdem professionis et condicionis.

Quanto, poi, al rilievo che sarebbe stata ravvisata "una colpa eziologicamente connessa con l’aggravamento della malattia nel trattamento terapeutico successivo all’evento lesivo, senza affrontare mai l’incidenza causale autonoma ed indipendente dei medici che si sono succeduti nelle cure apprestate alle pazienti?", per intanto i giudici del merito non hanno ravvisato alcuna imperizia o negligenza o inosservanza di regole mediche nell’azione dei chirurghi o di altri medici che interlocutorio nella vicenda, non potendo, di certo, quelle prestazioni ritenersi "inadeguate" – come assume la ricorrente – solo perchè gli ascessi sarebbero recidivati; nè la ricorrente medesima, al postutto, indica in cosa sarebbero consistite tali deficienze operative, rimanendo anche al riguardo la sua prospettazione meramente autoreferenziale. In ogni caso, peraltro, l’eventuale errore del terzo che subentri nella posizione di garanzia non sarebbe comunque idoneo ad escludere il nesso di causalità con la condotta dell’agente che già versi in colpa e che per primo era stato investito di quella posizione, determinativa di quella prevedibile e realizzatasi sequenza lesiva, prospettandosi, semmai, una corresponsabilità anche del secondo agente, non un imprevedibile evento sopravvenuto di per sè sufficiente a determinare l’evento, ai sensi dell’art. 41 c.p., comma 2.

3.1 Tali conclusioni cui sono pervenuti i giudici del merito non rimangono aduggiate dai rilievi gravatoli mossi con i motivi nuovi contenuti nella memoria rassegnata dalla ricorrente.

Posto, difatti, che quei rilievi vengono mossi sull’esplicito richiamo del contenuto della novella introdotta dalla L. n. 46 del 2006, le innovazioni all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in tema di vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità, apportate dall’art. 8 di tale testo normativo, concernono la previsione della contraddittorietà della motivazione medesima, che si aggiunge alla mancanza o manifesta illogicità della stessa, e la previsione che tale vizio possa risultare non solo dal testo del provvedimento impugnato, ma anche "da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame".

Sotto il primo di tali profili, si richiede che la sentenza non sia, in sostanza, internamente contraddittoria, cioè che non sia inficiata da decisive incongruenze tra parti diverse della stessa o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute: vizio, di contraddittorietà, che, per vero, poteva anche precedentemente essere sussumibile nella previsione della illogicità della motivazione, dovendosi tuttavia rilevare che l’aggettivazione di "manifesta" appare nel nuovo testo novellato riferita alla sola illogicità, non anche alla "contraddittorietà", che può, dunque, essere rilevata, ‘ ancorchè non "manifesta".

Quanto al secondo dei succitati profili innovativi, che costituisce il contenuto più rilevante della novella legislativa, si richiede che la motivazione non sia incompatibile con altri atti del processo: e poichè tale incompatibilità deve essere idonea a caducare o inficiare il processo logico seguito dal giudice, il vizio deve essere tale da vanificare, appunto, o radicalmente inficiare sotto il profilo logico il percorso argomentativo esplicitato dal giudice del merito. Non è sufficiente, quindi, che gli atti del processo indicati dal ricorrente siano semplicemente contrastanti con diversi accertamenti e specifiche valutazioni del giudice di merito, o con la sua ricostruzione complessiva e conclusiva dei fatti e delle responsabilità dell’imputato, nè che siano astrattamente idonei a fornire un apprezzamento diverso e, in tesi, più persuasivo di quello fatto proprio dal giudice. Occorre, invece, che il contenuto degli atti del processo cui fa riferimento il ricorrente, sia di per sè idoneo a determinare una insanabile disarticolazione dell’intero ragionamento giustificativo esplicitato, nell’intero contesto motivazionale di quest’ultimo, compito del giudice di legittimità rimanendo la valutazione unitaria sulla effettiva esistenza di una motivazione e sulla complessiva, conclusiva, logicità della sentenza. Se così non fosse, il giudice di legittimità diverrebbe, inammissibilmente, altro giudice del merito (cfr. Cass., Sez. 6^, n. 14054/2006, ric. Strazzanti).

Nella specie, si palesa dirimente considerare che quei rilievi gravatoli si sostanziano, in effetti, nella prospettazione di una diversa valutazione di risultanze probatorie acquisite e unitariamente, globalmente, valutate dei giudici del merito, non certo in grado di inficiare e tanto meno di caducare o disarticolare, il diverso argomentare logico dei giudici medesimi. E quanto al motivo sub c) di tale memoria ("la prova testimoniale del dott. C.", secondo cui l’imputata "ha smesso di acquistare il Fleboside nel 1994/1995", che i giudici del merito avrebbero "omesso di valutare"), si è già detto delle del tutto congrue e logiche ragioni che hanno assistito il diverso divisamento di questi ultimi, ovvia essendo, peraltro, la considerazione – quanto ad un prospettabile profilo di decisività della circostanza prospettata – che il dott. C. non era comunque l’unico farmacista cui la ricorrente avrebbe potuto rivolgersi per l’acquisto di tale farmaco del quale era stata vietata la somministrazione in mesoterapia dal 1997, e che, al postutto, l’assunto neppure escluderebbe, in mera estrema tesi, che anche dal dott. C. possa essere stata acquistato quel farmaco in quegli anni ed improvvidamente conservato: ma rimane, con valenza decisiva ed assorbente, che i giudici del merito hanno del tutto logicamente ritenuto, come sopra indicato, che quel farmaco venne in effetti usato nelle circostanze per le quali è processo.

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4. Il ricorso va, dunque, rigettato, con conseguente condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione delle spese per questo grado del giudizio in favore delle costituite parti civili, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè alla rifusione delle spese sostenute in questo grado dalle parti civili D.I.L. e A.E., spese che liquida in complessivi Euro 3.937,00, di cui Euro 3.500,00 per onorari, oltre I.V.A. e C.P.A..

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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