Cass. pen., sez. V 12-09-2006 (16-06-2006), n. 29935 SOGGETTI DEL DIRITTO DI IMPUGNAZIONE – Impugnazione proposta prima dell’entrata in vigore della norma abrogatrice

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Fatto e diritto

S.C. ed E. S. in veste di parti civili nel processo per il reato di diffamazione a carico di A.P., hanno proposto ricorso per cassazione, anche agli effetti penali, ai sensi dell’art. 577 c.p.p., avverso la sentenza della Corte di appello di Roma in data 30 settembre 2005 con la quale, in riforma della sentenza del Tribunale di Viterbo, l’imputato è stato assolto per avere agito nell’esercizio del diritto di critica.

Il P. era accusato di avere fatto affiggere, nella bacheca della sezione locale del partito di Alleanza nazionale, di cui era commissario, un manifesto nel quale aveva definito C. e S., consiglieri comunali eletti nelle liste dello stesso partito, "giuda" nonché "traditori" dei cittadini di Soriano del Cimino.

Deducevano la falsa applicazione dell’art. 595 c.p. per avere, la Corte di merito, attribuito alla esimente del diritto di critica una accezione troppo ampia, comunque non compatibile con il criterio della "continenza"; il termine "giuda" infatti, implicherebbe una accezione di corruttibilità, del tutto priva di fondamento, come del resto anche la mera attribuzione della qualità di "traditori" avrebbe avuto la pretesa di compendiare lo svolgimento di un mandato elettorale che deve avvenire nel rispetto assoluto delle posizioni dei singoli consiglieri, delle loro valutazioni e dei loro parametri di opportunità.

Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile agli effetti penali e rigettato agli effetti civili.

L’abrogazione dell’art. 577 c.p.p. ad opera della l. 46/2006, da applicarsi anche ai procedimenti in corso (art. 10, comma 1, l. cit.) ha fatto venire meno la legittimazione della parte civile a coltivare, agli effetti penali, la impugnazione della sentenza di assoluzione del reato di diffamazione.

ÿ utile ricordare, per meglio argomentare le ragioni della conclusione raggiunta, la posizione assunta dalla giurisprudenza in occasione della entrata in vigore della l. 468/1999 con la quale (art. 18) venne modificato l’art. 593, comma 3, c.p.p., e furono rese inappellabili le sentenze di condanna relative a reati per i quali fosse stata irrogata la sola pena pecuniaria: un caso, come quello in esame, in cui fu eliminato un mezzo di impugnazione preesistente.

Ebbene, osservò la giurisprudenza che quella novella legislativa si applicava solo nei confronti delle sentenze emanate successivamente alla data della sua entrata in vigore, ovvero di quelle emanate anche precedentemente, ma i cui termini di impugnazione non fossero in quel momento ancora decorsi (Sez. V, 19 maggio 2000, Fugazzaro, Rv. 216593). E la argomentazione fu che «in tema di successione di leggi processuali trova applicazione, "in assenza di disciplina transitoria", il principio tempus regit actum, che però incontra il proprio limite nell’altro principio del cosiddetto "fatto esaurito", secondo il quale la norma che disciplina in modo diverso una fattispecie processuale non può applicarsi se i relativi presupposti di fatto si sono realizzati ed esauriti prima della entrata in vigore della nuova norma? Alla luce di tale principio è agevole osservare che l’appellabilità concerne la possibilità di proporre gravame nel merito contro una data sentenza nei tempi e nei modi previsti dalla legge e che tale potenzialità è circoscritta nell’ambito temporale compreso tra l’emanazione della sentenza e la scadenza dei termini per proporre appello, per cui, una volta che quest’ultimo è stato proposto, non può parlarsi di appellabilità ma di pendenza del giudizio o di appello: in altri termini, facendo riferimento al principio del fatto esaurito tali effetti conseguenti alla proposizione del gravame si sono ormai esauriti con l’attribuzione della competenza funzionale a decidere il processo al giudice di secondo grado; effetti che sono intangibili e non possono essere modificati dalla nuova norma sopravvenuta in tema di inappellabilità, che può trovare applicazione solo nei confronti di sentenze emanate dopo la sua entrata in vigore o nei confronti di quelle già emanate, ma i cui termini di impugnazione siano ancora in corso, ma giammai nei confronti dei giudizi già pendenti in grado di appello».

Il ragionamento della Cassazione fu però dichiaratamente condizionato al rilievo che era assente, in quel caso, una diversa e specifica disposizione di legge che disponesse la retroattività della nuova regola: pertanto valeva il rilievo, desumibile dall’art. 11 delle preleggi, che questa non può disporre che per l’avvenire, per cui, non rinvenendosi nel caso di specie siffatta disposizione, non poteva correttamente parlarsi di inappellabilità sopravvenuta.

Proprio l’applicazione di tutti i rilievi giurisprudenziali fin qui ricordati porta al ritenere che, invece, l’abrogazione dell’art. 577 c.p.p. per effetto dell’art. 9 l. 46/2006, proprio perché accompagnata da una disposizione transitoria che ne dispone la applicabilità ai procedimenti in corso alla entrata in vigore della legge, sia operativa anche in riferimento ai ricorsi della parte civile pendenti a tale data.

Ragionare diversamente significa disapplicare un precetto legislativo che invece è stato espresso: quello appunto del comma 1 dell’art. 10 l. 46 cit.

Non si ignora il diverso orientamento espresso nella sentenza di questa Corte 11162/2006. Esso è basato invero sulla affermazione meritevole di qualche riflessione che l’art. 10, comma 1, non conterebbe una disciplina transitoria atta a impedire la operatività, nel caso in esame, del principio generale del tempus regit actum. In altri termini, l’enunciazione del comma 1 è ritenuta di carattere generale e sostanzialmente riproduttiva, anzi, del canone appena menzionato. Tanto si desumerebbe anche dal fatto che i commi successivi dell’art. 10 disciplinano invece in modo articolato la sorte dell’appello proposto contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato o dal P.M., destinato ad essere dichiarato inammissibile, se già proposto, e ad essere sostituito, eventualmente, dal ricorso per cassazione: una disciplina, essa sì, avente carattere retroattivo e quindi in deroga al principio del tempus regit actum.

Deve peraltro osservarsi, in senso contrario, ed al già dichiarato fine di evitare un’interpretazione abrogatrice del comma 1 dell’art. 10, che se la disposizione è stata articolata, un senso le deve essere riconosciuto e non può essere quello, del tutto pleonastico, individuato dalla sentenza 11162.

Affermare che la legge 46 "si applica ai procedimenti in corso" significa dare vita a una tipica norma transitoria che va interpretata secondo il senso delle parole utilizzate: ossia che la eliminazione del potere di impugnazione agli effetti penali della parte civile vale "anche" nei procedimenti in corso.

In assenza di essa non si sarebbe dubitato che il principio da applicare fosse quello generale, che è anche contrario: ossia quello per cui l’abrogazione del potere di impugnazione agli effetti penali della parte civile poteva valere solo per il futuro ossia diveniva operativa per le sole situazioni non esaurite cioè quelle in cui, al momento della entrata in vigore della legge, la sentenza da impugnare non fosse stata ancora depositata o i relativi termini non fossero ancora scaduti.

Ma in presenza di quel precetto, vale la conclusione contraria: divengono inammissibili i ricorsi presenti ex art. 577 sotto l’impero della vecchia normativa.

Il fatto che vi sia una articolata disciplina, nei commi successivi, in ordine alla sopravvenuta inammissibilità degli appelli già proposti contro le sentenze di proscioglimento, non attesta altro che il legislatore si è fatto carico di regolare i modi del passaggio – peraltro doveroso alla stregua dei principi costituzionali – dalla situazione della appellabilità a quella della ricorribilità per cassazione, altrettanto non avendo inteso fare con riferimento alla impugnabilità a fini penali ad opera della parte civile, rimasta titolare della impugnazione ai fini civili.

Si tratta, oltretutto, di un principio in linea con lo spirito della intera legge che ha inteso restringere al massimo i casi di appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte sia dell’imputato che del P.M., sganciando peraltro la parte civile della previsione dei mezzi concessi a quest’ultimo. A questa, il legislatore ha concesso un percorso privilegiato a tutela del suo precipuo interesse che è quello alla tutela dei diritti civilistici di tipo risarcitorio o restitutorio, lasciando intatta, ai fini che qui interessano, la previsione dell’art. 576 c.p.p. Ma quella della persistenza della difesa degli interessi civili in sede penale è previsione che non ha a che vedere in modo diretto con la impugnabilità anche a fini penali, la quale, infatti, già era prevista in relazione soltanto a specifici titoli di reato a mò di eccezione alla regola e che, per effetto della novella, viene preclusa con effetti retroattivi in assonanza con la linea generale della legge che è quella di escludere un controllo di merito sulla pronuncia assolutoria in punto di responsabilità penale del giudice di prime cure.

Resta invece il diritto della parte civile a vedere esaminato il ricorso agli effetti civili ai sensi dell’art. 576 c.p.p.

Il motivo formulato non può comunque essere accolto.

L’attitudine di una espressione in sé offensiva ad integrare la scriminante del diritto di critica costituisce giudizio di fatto che è devoluto al giudice del merito e, se correttamente argomentato, è immune da censure da parte del giudice di legittimità.

I principi ermeneutici che in materia la Corte ha, univocamente, raccomandato di seguire sono quello per cui il diritto di critica sancito dall’art. 21 Cost. consente, nel corso delle competizioni politiche o sindacali, toni aspri e di disapprovazione e che il limite a tale condotta è dato dalla condizione che la critica non trasmodi in attacco personale e portato direttamente alla sfera privata dell’offeso e non sconfini nella contumelia e nella lesione della reputazione dell’avversario (Sez. V, 2 ottobre 1992, Valentini, Rv. 192585; 16 novembre 2004, Ambrogio, Rv. 231397; Sez. I, 10 giugno 2005, Rocchini, Rv. 231764).

A tali principi la Corte d’appello si è attenuta spiegando le ragioni per le quali ha ritenuto che l’affissione del manifesto e la definizione delle parti civili come "giuda" non fossero da intendere come attacco personale ma come atto politico dell’imputato. Questi, nella veste di commissario della sezione di un partito politico, aveva inteso portare a conoscenza degli elettori la scelta, altrettanto politica delle attuali parti civili, di dissociarsi dalla linea ufficiale del gruppo, ponendosi anche nelle condizioni di una successiva espulsione dal partito. In tale cornice la comunicazione riguardava un tradimento a connotato chiaramente politico e del tutto scevro da profili di corruttela, dai quali il termine nell’uso comune è ormai disancorato.

Il ragionamento è connotato da una logica e da una coerenza che non lasciano spazio a censure apprezzabili ex art. 606 c.p.p.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso agli effetti penali e rigetta il ricorso agli effetti civili, con condanna dei ricorrenti in solido al pagamento delle spese del procedimento.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *