Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 20-01-2012, n. 801 Contributi

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con la sentenza impugnata la Corte d’appello di Bologna, per quanto ancora interessa in questa sede, confermava la statuizione di primo grado con cui era stata rigettata la domanda proposta dalla srl Mengozzi e di M.M. in proprio e quale legale rappresentante, di accertamento della infondatezza delle pretese avanzate dall’Inps con il verbale ispettivo. Premesso che detta società non era iscritta ad alcuna associazione di categoria, la Corte territoriale riteneva applicabile, ai fini previdenziali, il CCNL Igiene Urbana, e non già quello di fatto applicato, ossia quello concernente le Imprese di Pulizia e, conseguentemente, poichè il limite massimo orario previsto dal primo CCNL era di 37,5/38 ore settimanali e quello previsto dal secondo era di 40 ore settimanali, riteneva che le ore dalla 39 alla 40 costituivano lavoro straordinario da assoggettare a contribuzione (escluse le ore risultanti solo dai cronotachigrafi). La Corte – premesso che il contratto collettivo di diritto comune non ha effetto nei confronti dei datori non iscritti alle associazioni stipulanti, per quanto riguarda il rapporto di lavoro, ma vale invece ai fini previdenziali, secondo il cd. principio, del doppio binario di cui al D.L. n. 338 del 1989, art. 1 convertito in L. n. 389 del 1989 – affermava che, appunto ai fini previdenziali, il CCNL da applicare era quello concernente la Igiene Urbana. Sulla base delle deduzione della Società, per cui vi erano lavoratori addetti esclusivamente al trasporto, altri esclusivamente alle pulizie, altri ancora addetti al lavaggio dei contenitori ed alcuni addetti all’inceneritore, la Corte rilevava che ciascuna di queste attività non era da considerare autonomamente, con applicazione di ciascun CCNL di competenza, ma erano collegate dalla finalità produttiva concernente lo smaltimento dei rifiuti, con necessità di applicare il relativo contratto collettivo, che prevedeva come orario normale quello di 37/38 ore, e quindi con obbligo di considerare come straordinario le ore eccedenti. Precisava poi la Corte territoriale che l’Inps aveva ben inquadrato gli autisti degli automezzi nel quarto livello di quel CCNL sulla base della relativa declaratoria. Escludeva infine la Corte ogni dubbio di legittimità costituzionale di questa regola previdenziale.

Avverso detta sentenza ricorrono M.M. ed Me.En. in proprio e quale legale rappresentante della omonima spa, con sette motivi illustrati da memoria. Resiste l’Inps con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo, denunziando violazione dell’art. 2070 cod. civ. e della L. n. 389 del 1989, art. 1, sostiene la società ricorrente, che, contrariamente a quanto deciso dalla sentenza impugnata, non si doveva applicare il CCNL Igiene Urbana, ma quello delle Imprese di Pulizia, il quale, come il primo, era stato stipulato dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale. E’ noto infatti che il contratto collettivo di diritto comune vincola solo gli iscritti alle associazioni stipulanti e non è valido erga omnes. La L. n. 389 del 1989, art. 1 imporrebbe solo il rispetto, ai fini contributivi, della contrattazione collettiva stipulata dai sindacati maggiormente rappresentativi, ma non avrebbe inteso imporre l’applicazione di un CCNL solo astrattamente individuato, non voluto e non applicato dalle parti del rapporto di lavoro.

Con il secondo mezzo si denunzia violazione dell’art. 2697 cod. civ. perchè spetterebbe all’Inps l’onere della prova sull’inquadramento nell’ambito del settore Nettezza Urbana e similari, stante le diverse attività espletate dai dipendenti.

Con il terzo motivo si denunzia difetto di motivazione sull’inquadramento della sua attività nel settore Smaltimento Rifiuti Igiene Urbana e non invece nel settore delle pulizie, stante la pluralità di attività cui i dipendenti si dedicano: alcuni addetti solo al trasporto, altri solo alle pulizie, altri al lavaggio dei contenitori, altri ancora che si occupano della fabbricazione degli stessi e dell’inceneritore.

1. I primi tre motivi, che conviene trattare congiuntamente, non sono fondati.

Occorre preliminarmente sgombrare il campo dalle questioni di fatto che costituiscono il presupposto della normativa da applicare, e quindi esaminare il secondo e terzo motivo.

Al riguardo non vi è dubbio che competa all’Inps, che richiede le differenze contributive, allegare e dimostrare le circostanze in fatto e in diritto che giustificano la pretesa. Nel caso di specie tuttavia, il richiamo all’onere probatorio risulta irrilevante, perchè la sentenza impugnata ha accertato tutti i fatti rilevanti che inducono a ritenere che, ai fini contributivi, il contratto collettivo da applicare è quello dello smaltimento dei rifiuti, perchè corrisponde al settore di attività dell’impresa.

Invero proprio le molteplici mansioni espletate dai vari addetti sono collegate da un chiaro nesso produttivo che è lo smaltimento dei rifiuti. Si consideri infatti che sono del tutto estranee al settore delle pulizie, il cui contratto collettivo la ricorrente invoca, attività come quelle indicate in ricorso, come la fabbricazione dei cassonetti e i compiti legati alla funzionalità dell’inceneritore;

queste infatti esulano dell’attività vera e propria di pulizia, perchè ad essa evidentemente si aggiunge quella di raccolta e di smaltimento.

Devesi allora concludere che la Corte territoriale non ha errato nel ritenere applicabile, ai fini contributivi, i minimali del settore Igiene Urbana, Smaltimento Rifiuti, perchè corrispondente al settore in cui la ricorrente opera.

2. Quanto all’obbligo di pagamento dei contributi secondo il minimale, è stato più volte rilevato (Cass. 6817/2003) che occorre prendere le mosse dalla sentenza delle Sezioni unite di questa Corte n. 11199 del 29 luglio 2002, che nel risolvere un contrasto di giurisprudenza hanno affermato che "L’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali non può essere inferiore all’importo di quella che sarebbe dovuta, ai lavoratori di un determinato settore, in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale; si tratta del cd. minimale contributivo secondo il riferimento ad essi operato, con esclusiva incidenza sul rapporto previdenziale, dal D.L. 9 ottobre 1989, n. 338, art. 1, convertito nella L. 7 dicembre 1989, n. 389".

Detta disposizione è stata autenticamente interpretata dalla L. n. 549 del 1995, art. 2, comma 24, il quale dispone che "il D.L. n. 338 del 1989, art. 1 convertito con modificazioni in L. n. 389 del 1989 si interpreta nel senso che in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative della categoria" (si tratta del cd. contratto leader).

2.1. La legge determina quindi un imponibile "minimo" da sottoporre a contribuzione, al di sotto del quale non è possibile scendere, ancorchè la retribuzione dovuta ed erogata al lavoratore sia inferiore.

E’ pertanto la fonte collettiva che funge da parametro per la determinazione dell’obbligo contributivo minimo e, per scelta legislativa, questo parametro viene ritenuto il più idoneo ad adempiere alla funzione di tutela assicurativa, nonchè a garantire l’equilibrio finanziario della gestione. La retribuzione contributiva è stata quindi ancorata ad una nozione di retribuzione "virtuale", poichè la retribuzione stabilita dal contratto collettiva non è sempre e necessariamente quella dovuta al dipendente, la quale può essere legittimamente inferiore nel caso in cui non sia obbligatoria l’applicazione di contrattazione collettiva di diritto comune.

Con la L. del 1989 si è dunque posto un limite minimo "incomprimibile" di retribuzione valevole esclusivamente ai fini previdenziali, al di sotto del quale non si può scendere, con la precisazione che resta ferma la piena operatività degli accordi collettivi diversi da quelli stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale (ad es. gli accordi aziendali), ovvero gli accordi individuali, quando determinino una retribuzione superiore al minimale.

2.2. Dalla applicazione dei principi posti dalla citata sentenza delle Sezioni unite discende la necessità di effettuare ulteriori chiarimenti.

Va in primo luogo considerato, come più volte osservato dalla dottrina, che la ratio della disposizione sul minimale non è quella di incidere sui livelli delle prestazioni pensionistiche, giacchè non vi è corrispondenza diretta tra retribuzione imponibile e retribuzione pensionabile. Ed infatti per la pensione da calcolare con il sistema retributivo, si prende in considerazione "la retribuzione percepita" nell’ambito di un periodo prefissato (cfr. L. 29 maggio 1982, n. 297, art. 3), mentre nel sistema contributivo (L. 5 agosto 1995, n. 335) valgono altri elementi, come il coefficiente di trasformazione, il tasso annuo di capitalizzazione ecc. Si tratta dunque di contribuzione meramente "virtuale" cioè non rilevante ai fini pensionistici, di talchè il criterio del minimale, per cui occorre versare all’Inps somme che non trovano diretta corrispondenza nè con la retribuzione dovuta, nè con il futuro trattamento pensionistico, va applicato con il debito rigore, ai fini di una interpretazione costituzionalmente coerente con il principio di ragionevolezza, stante l’indubbio onere che ne consegue a carico non solo del datore di lavoro, ma anche del lavoratore. Si consideri infatti che colui al quale viene legittimamente erogata una retribuzione inferiore a quella prevista dal contratto leader, viene costretto, per la quota di contribuzione a proprio carico, ad un esborso che non trova corrispondenza con quanto percepito ed è proporzionalmente maggiore all’onere posto a carico di altro dipendente cui viene invece applicato il contratto leader, senza peraltro direttamente incidere sulla prestazione pensionistica da conseguire.

2.3. Va poi trattata la questione parimenti sollevata con il primo motivo sulle ragioni che, contrariamente a quanto sostiene la ricorrente, rendono obbligatorio, ai fini contributivi, l’applicazione del minimale di cui al CCNL Igiene Urbana e non invece quello relativo alle imprese di pulizie, che pure si deduce essere stato stipulato dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative del settore.

Invero è peculiare che la norma fondante la regola del minimale ossia il D.L. n. 338 del 1989, art. 1 convertito in L. n. 389 del 1989 sia oltremodo imprecisa sul punto, richiamando detto obbligo facendo riferimento "alle retribuzioni stabilite … dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale" senza però precisare che la contrattazione collettiva richiamata deve essere quella propria del settore in cui l’impresa datrice di lavoro opera. Il richiamo alla categoria è però contenuto dalla successiva legge interpretativa, si tratta della L. n. 549 del 1995, art. 2, comma 25, il quale dispone che "il D.L. n. 338 del 1989, art. 1 convertito con modificazioni in L. n. 389 del 1989 si interpreta nel senso che in caso di pluralità di contratti collettivi intervenuti per la medesima categoria, la retribuzione da assumere come base per il calcolo dei contributi è quella stabilita dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali dei datori di lavoro e dei lavoratori comparativamente più rappresentative della categoria" Invero per "categoria" non si può che intendere come il settore produttivo in cui opera l’impresa, risultando altrimenti incongruo l’obbligo di applicazione, sia pure ai soli fini contributivi, di una contrattazione collettiva vigente in un settore diverso, stante il rilievo pubblicistico della materia, che non può consentire riserve a scelte soggettive, pena, diversamente, l’illogicità del sistema.

Questi principi sono già stati enunciati dalla giurisprudenza di questa Corte con varie sentenze. Con la sentenza n. 12345 del 05/11/1999, in cui si è affermato, sia pure con riguardo ad aspetti diversi che "La classificazione delle imprese ai fini previdenziali e assistenziali (nonchè ai fini del godimento di incentivi, della fiscalizzazione degli oneri sociali o dell’ammissione alla cassa integrazione guadagni) deve avvenire, atteso il rilievo pubblicistico delle previsioni in materia, alla stregua di criteri oggettivi e predeterminati che non lascino spazio a scelte discrezionali o a processi di autodeterminazione normativa, mentre, in relazione al trattamento economico e normativo dei lavoratori, è consentito alle parti sociali – sia pure nei limiti del rispetto dei diritti fondamentali garantiti al lavoratore dall’art. 36 Cost. – scegliere la contrattazione collettiva destinata a meglio regolare il rapporto, stante il principio di libertà sindacale e la non operatività dell’art. 2070 cod. proc. civ. nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune." Ed ancora in tema di fiscalizzazione che pure attiene all’aspetto contributivo, si è affermato (Cass. n. 12721 del 19/12/1998) che "Il principio secondo cui l’art. 2070 cod. civ., comma 1 non opera nei riguardi della contrattazione collettiva di diritto comune non assume alcuna influenza nell’ipotesi in cui si controverte in relazione ai benefici della fiscalizzazione degli oneri sociali. In considerazione, infatti, del rilievo pubblicistico di tali benefici e delle finalità che con essi il legislatore ha inteso perseguire, il relativo riconoscimento non può prescindere dall’applicazione da parte dell’impresa ai propri dipendenti dei contratti collettivi nazionali vigenti per il settore di appartenenza dell’impresa".

I primi tre motivi vanno quindi rigettati.

3. Con il quarto motivo si censura la sentenza per violazione dell’art. 2070 cod. civ. per avere ritenuto applicabile, ai fini del minimale contributivo, anche la parte normativa del contratto collettivo leader, e quindi per avere considerato come lavoro straordinario (con conseguente applicazione della maggiorazione ad hoc) le ore prestate dalla 37,5 esima ora alla quarantesima, perchè il contratto collettivo igiene urbana prevedeva quel minore numero di ore come orario normale, mentre quello vigente nell’impresa era di 40 ore settimanali.

Il motivo merita accoglimento.

Infatti, a prescindere dalle eccezioni concernenti la mancata specificazione dei conteggi a cui si è pervenuti al calcolo, la sentenza è errata in diritto, essendo infondata la tesi dell’Istituto. Invero questa Corte ha già deciso (Cass. n. 6817 del 05/05/2003) in un caso in cui il datore di lavoro aveva, tra l’altro, omesso il versamento dei contributi sul lavoro straordinario effettuato oltre la quarantesima ora settimanale nel periodo dal 1985 al 1993, eccependo di non dovere nulla dal momento che non era destinatario del CCNL di categoria, e che quindi non era obbligato all’orario contrattuale di 40 ore ma a quello legale di 48 ore settimanali.

In quell’occasione si è affermato che la L. del 1989 si è limitata a determinare convenzionalmente la retribuzione contributiva indicando come riferimento il contratto collettivo leader, ma non ne ha reso obbligatoria la parte cd. "normativa". Il richiamo della legge è infatti circoscritto esclusivamente all’aspetto retributivo, per cui non valgono a influire sulla misura del minimale quegli istituti contrattuali che disciplinano le regole del rapporto, ancorchè aventi, indirettamente, riflessi sul versante retributivo.

Sarebbe pertanto incongruo fare riferimento, per la determinazione del minimale, al sistema di inquadramento, o al regime dei permessi, o alla durata delle ferie previsto dal contratto leader in quanto più favorevole sul piano retributivo rispetto a quello legittimamente applicato dal datore di lavoro. La regola posta dal contratto leader vale per quanto riguarda le voci retributive vere e proprie, come ad esempio le mensilità aggiuntive e gli scatti di anzianità, che incidono direttamente ed esclusivamente sulla controprestazione spettante al lavoratore assicurato – per cui è necessario che la retribuzione su cui commisurare i contributi non i sia inferiore "nel suo complesso" alla retribuzione complessiva determinata dal contratto leader, a prescindere dalla articolazione nelle singole voci che il medesimo contratto può prevedere – ma non vale in relazione agli aspetti concernenti la disciplina del rapporto di lavoro intercorrente tra le parti, perchè sul punto non esiste alcuna previsione di legge.

3.1. Invero la giurisprudenza di questa Corte ha già avuto modo di sottolineare la distinzione tra parte economica e parte normativa del contratto leader, nei casi in cui le norme previdenziali facciano richiamo a quest’ultimo. Ed infatti le Sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 486 del 21 luglio 1999 – facendo applicazione proprio delle disposizioni in commento, perchè la L. n. 389 del 1989, art. 6, comma 9 subordina il diritto alla fiscalizzazione degli oneri sociali alla erogazione di retribuzioni non inferiori a quelle di cui all’art. 1, comma 1, della medesima legge – ha ritenuto applicabile il beneficio della fiscalizzazione a quelle imprese che non applicavano il contratto collettivo leader quanto alla durata dell’apprendistato, affermando che le norme che stabiliscono il beneficio della fiscalizzazione degli onere sociali non presuppongono l’applicazione di clausole della contrattazione collettiva, le quali impongono di modificare l’oggetto della prestazione lavorativa o che implicano un mutamento complessivo del contenuto del rapporto. Non debbono pertanto essere applicate le clausole di carattere normativo proprio perchè le stesse incidono sull’oggetto del contratto e sugli obblighi delle parti e non già sulla misura delle retribuzioni (nello stesso senso Cass. 9 ottobre 1996 n. 8847 e Cass. 28 ottobre 1997 n. 10611).

3.2. Nella presente fattispecie l’Istituto previdenziale intende considerare come ore di lavoro straordinario le ore prestate oltre la 38esima e quindi pretende che siano calcolati i contributi previdenziali sulle somme relative alle maggiorazioni previste dal contratto collettivo leader.

La tesi non sembra fondata, in primo luogo perchè, così facendo, si finirebbe con l’applicare sostanzialmente, ai fini del minimale contributivo, non già la sola parte retribuiva ma anche la parte normativa della contrattazione applicabile, e cioè la parte del contratto collettivo leader che, regolando l’orario di lavoro in 37,50 ore settimanali, configura – diversamente da quanto previsto dalla legge – come lavoro straordinario quello eccedente del 40 ore.

Non risulta a quali annualità si ascritta la omissione contributiva di cui al verbale ispettivo del 1998, in ogni caso anteriormente all’entrata in vigore della L. 24 giugno 1997, n. 196, art. 13, che ha determinato l’orario normale di lavoro in quaranta ore settimanali – si considerava ancora come lavoro straordinario quello effettuato dalla quarantottesima ora in poi, ai sensi del R.D.L. 15 marzo 1923, n. 692, artt. 1 e 5, convertito nella L. 17 aprile 1935, n. 473. Che il lavoro straordinario fosse quello prestato oltre le 48 ore settimanali, lo fa palese l’art. 5, comma 1, stesso R.D.L., laddove configura lo straordinario come aggiunta alla giornata normale di lavoro di cui all’art. 1. 3.3 La tesi dell’Istituto appare smentita anche da un ulteriore rilievo, e cioè che la legge prevede apposite e precise regole sulla sottoposizione a contribuzione previdenziale dei compensi per lavoro straordinario, dettando una disciplina speciale rispetto alla regola generale del minimale di cui alla L. n. 389 del 1989, art. 1, comma 1. Ed infatti il citato R.D.L. n. 692 del 1923, art. 5 bis, comma 4, introdotto dalla L. 30 ottobre 1955, n. 1079, disponeva che "L’esecuzione del lavoro straordinario comporta, in ogni caso, oltre al pagamento delle maggiorazioni previste dai contratti collettivi di lavoro, anche il versamento a carico dell’impresa e a favore del fondo per la disoccupazione, di una ulteriore somma pari al 15 per cento della retribuzione relativa alle ore di straordinario compiute".

Il fatto che il legislatore abbia riservato a se stesso la disciplina del regime contributivo da applicare al lavoro straordinario è avvalorato dalle norme successivamente emanate in materia. Si tratta delle disposizioni di cui alla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 2, commi 18, 19, 20 e 21: il comma 19 prevede che l’esecuzione del lavoro straordinario comporta, a carico delle imprese con più di quindici dipendenti, l’obbligo di versamento all’Inps di un contributo pari al 5% della retribuzione relativa alle ore di straordinario compiute, e detta percentuale è elevata, solo per le imprese industriali, al 10% per le ore eccedenti la quarantaquattresima ed al 15% per quelle eccedenti la quarantottesima. Il comma 18 dispone che ai fini del comma 19, ossia ai fini dell’obbligatorietà di detto contributo, si considera lavoro straordinario quello che eccede le quaranta ore nel caso di regime orario settimanale. (Va precisato che con la L. n. 247 del 2007, art. 1, comma 71 il contributo di cui alla L. n. 549 del 1995, citato comma 19 è stato abolito dal 1 gennaio 2008).

Quindi è la legge previdenziale che, con le disposizioni citate, susseguitesi nel tempo, fornisce la definizione del compenso per lavoro straordinario al fine del computo dei contributi determinandone l’ammontare, di talchè sarebbe incongruo far ricorso alla previsione del contratto leader in ordine all’orario di lavoro ed alle maggiorazioni prescritte nel caso di superamento, perchè si perverrebbe in tal modo ad una sostanziale duplicazione dell’onere contributivo sullo straordinario.

Va quindi conclusivamente affermato il principio per cui le maggiorazioni previste dal cd. contratto leader sul compenso orario per lavoro straordinario, non entrano a fare parte del "minimale" contributivo, onde il quarto motivo di ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata sul punto, con rinvio alla Corte d’appello di Firenze, affinchè proceda a nuovi calcoli della somma complessivamente dovuta, sottraendo le differenze contributive chieste per il lavoro straordinario.

4. Sulla base di considerazioni analoghe, ossia sulla inapplicabilità, ai fini del minimale contributivo, della parte normativa del CCNL, va accolto anche il quinto motivo di ricorso, con cui si lamenta difetto di motivazione nel punto della sentenza in cui ha confermato la omissione contributiva in relazione della posizione degli autisti, ritenendo che i contributi dovessero essere per essi versati sulla retribuzione del personale inquadrato nel quarto livello. La sentenza va cassata sul punto con rinvio alla medesima Corte d’appello di Firenze, per determinare, anche in questo caso, la somma a carico della società, sottraendo quanto richiesto per i contributi da applicare sulla maggiore retribuzione degli autisti.

5. Va invece rigettato il sesto motivo concernente la questione di legittimità costituzionale del D.L. n. 338 del 1989, art. 1 convertito in L. n. 389 del 1989 per violazione degli artt. 39, 41, 3 e 53 Cost. perchè, come interpretato dalla sentenza impugnata, limiterebbe la libertà contrattuale.

Si è infatti già rilevato che detta disposizione non implica l’osservanza del contratto collettivo leader del settore sul piano del rapporto di lavoro, ma vale solo come parametro per determinare la retribuzione contributiva, quella cioè su cui versare la contribuzione.

E’ pertanto la fonte collettiva che funge da parametro per la determinazione dell’obbligo contributivo minimo e per scelta legislativa questo parametro viene ritenuto il più idoneo ad adempiere alla funzione di tutela assicurativa, nonchè a garantire l’equilibrio finanziario della gestione.

6. Parimenti infondato è il settimo motivo in cui si denunzia violazione della L. n. 88 del 1989, art. 49, comma 3 e della L. n. 335 del 1995, art. 3, comma 8, sul mantenimento degli inquadramenti delle imprese ai fini previdenziali e sulla norma che dispone che i provvedimenti di variazione della classificazione dei datori di lavoro ai fini previdenziali producono effetti dal periodo di paga in corso alla data di notifica del provvedimento o della richiesta dell’interessato, per cui la variazione non sarebbe possibile prima di detto provvedimento; non sarebbe applicabile il CCNL Igiene Urbana perchè, secondo lo stesso Istituto, essa ricorrente, oltre ad effettuare attività di pulizia, avrebbe iniziato l’attività di smaltimento rifiuti dal 1987 senza comunicarlo all’Inps.

La censura è infondata perchè non si controverte qui sulla classificazione dell’impresa ai sensi della L. n. 88 del 1989, art. 49, ossia se appartenga al settore industria, o al settore artigianato, o al settore agricoltura, settore terziario, settore credito e assicurazioni, ma del minimale contributivo, che è obbligatorio in qualunque tempo ed a prescindere da qualsiasi provvedimento.

In conclusione, vanno rigettati i primi tre motivi, nonchè il sesto ed il settimo, mentre vanno accolti il quarto e quinto; la sentenza va cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Firenze.

P.Q.M.

La Corte accoglie il quarto e quinto motivo di ricorso, rigetta gli altri; cassa in relazione ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Corte d’appello di Firenze.

Così deciso in Roma, il 30 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 20 gennaio 2012

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