Cass. civ. Sez. I, Sent., 23-01-2012, n. 889 Lodo

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1 – La Corte di appello di Roma, con sentenza n. 4328 del 2005, rigettava l’impugnazione proposta dalla UBAE – Arab Italian Bank s.p.a. (d’ ora in poi, per brevità, UBAE) avverso il lodo arbitrale pronunciato in data 17 giugno 2003 nella controversia insorta fra la stessa e la Banksiel – Società di informatica ed organizzazione (di seguito Banksiel) e la Banca Agricola Mantovana (d’ora in poi BAM), dichiarando assorbite le impugnazioni incidentali.

1.1 – In primo luogo veniva disattesa la deduzione inerente alla nullità del lodo, in quanto pronunciato oltre il termine stabilito, osservandosi che non risultavano rispettate, anche nei requisiti formali, le prescrizioni dell’art. 821 c.p.c., con particolare riferimento alla notifica agli arbitri e alle altre parti dell’intenzione di avvalersi della loro decadenza.

Precisato che la formalità prescritta non ammetteva equipollenti, si aggiungeva che il termine per la pronunzia del lodo non poteva ritenersi decorso, in quanto, prima del deposito di istanza di ricusazione da parte della UBAE, era stata emessa ordinanza di sospensione, e che, in ogni caso, detta istanza non aveva efficacia sospensiva rispetto all’attività procedurale, sanata, per giunta, dal suo rigetto.

1.2 – Veniva altresì rigettato il secondo motivo di impugnazione, rilevandosi che erano state inammissibilmente proposte questioni implicanti il riesame nel merito della pronuncia arbitrale.

1.3 – Per la cassazione di tale decisione la UBAE propone ricorso, affidato a tre motivi, ed illustrato da memoria.

Resistono con controricorso BMA e Banksiel, la quale produce memoria.

Motivi della decisione

2 – Con il primo motivo si deduce:

"Violazione e falsa applicazione degli artt. 820 e 821 c.p.c., ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 1, 3 e 4;

Violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. e delle norme che impongono al giudice di appello di esaminare le specifiche doglianze motivando in merito al loro accoglimento o rigetto, con conseguente illegittimità di una sentenza di appello che ribadisca le statuizioni del giudice di primo grado: art. 360 c.p.c., n. 3;

Violazione e falsa applicazione del principio secondo cui l’atto processuale recettizio, allorquando raggiunge il suo scopo (la conoscenza dell’atto da parte del destinatario), deve considerarsi valido a prescindere da qualsivoglia requisito formale previsto ad substantiam: art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4;

Insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia: art. 360 c.p.c., n. 5".

Il motivo si fonda su una premessa concernente le concrete modalità di svolgimento del procedimento davanti al Collegio arbitrale. Si era verificato che all’adunanza arbitrale del 16 gennaio 2003 il difensore e il rappresentante dell’UBAE, a seguito dell’invito degli stessi arbitri a considerare la questione del termine, avevano formalmente eccepito la decadenza del Collegio arbitrale per decorso del termine per la pronuncia del lodo.

Le ragioni inerenti al rigetto di tale eccezione erano state poi esplicitate nel lodo, con riferimento al mancato rispetto delle formalità prescritte dall’art. 821 c.p.c., sostanzialmente confermate dalla corte territoriale, la quale ha ribadito come la notificazione alle altre parti e agli arbitri dell’intenzione di far valere la loro decadenza non ammetta equipollenti.

2.1 – La ricorrente rimprovera alla corte territoriale di non aver considerato la peculiarità della fattispecie, in quanto la questione della decorrenza del termine era stata sottoposta alle parti dallo stesso Collegio arbitrale, era stata sollevata dal difensore e dal rappresentate dell’UBAE, ed aveva poi formato oggetto di contraddittorio, avendo le parti illustrato le proprie tesi.

Si aggiunge che la forma irrituale di un atto avente natura ricettizia non rileva quando lo stesso abbia conseguito il proprio scopo.

2.2 – La censura è infondata.

Il sistema delineato dal combinato disposto degli artt. 821 e 829 c.p.c., nella formulazione anteriore alle modifiche introdotte dalla L. n. 40 del 2006, applicabile ratione temporis alla vicenda in esame, descrive, con riferimento alla pronuncia del lodo oltre il termine stabilito, una nullità relativa, nel senso che decorso del termine non può essere fatto valere come causa di nullità del lodo se la parte, prima della deliberazione della pronunzia arbitrale, non abbia notificato alle altre parti e agli arbitri che intende far valere la loro decadenza (Cass., 26 marzo 2004, n. 6069).

La costruzione è imperniata non già sul mero decorso del termine, che ne rappresenta il mero sostrato di natura fattuale, ma sulla manifestazione della parte di voler far valere la decadenza, la quale, da un lato, costituisce un vero e proprio onere, dall’altro, un atto di disposizione in merito alla nullità, come tale riservato esclusivamente alla parte stessa, fermo, comunque, il principio di carattere generale, secondo cui la parte può sempre attribuire tale facoltà ad un proprio rappresentante, quale il difensore, purchè conferisca allo stesso procura speciale (Cass., 11 luglio 2003, n. 10910).

La notificazione dell’intenzione della parte di far valere la decadenza con costituisce, quindi, come sembra ritenere la parte ricorrente, una mera eccezione da proporsi nell’ambito del procedimento arbitrale, ma un atto, imprescindibile (Cass., 15 novembre 1984, n. 5771, proprio in tema di eccezione sollevata negli atti depositati davanti agli arbitri), in difetto del quale la nullità del lodo non può essere fatta valere.

Il motivo in esame, per altro, trascura completamente gli aspetti di natura soggettiva della prescrizione in esame: a tacere del fatto che, secondo la ricostruzione effettuata nello stesso ricorso, il Collegio arbitrale non aveva affermato che il termine era decorso, ma si era limitato semplicemente ad invitare le parti a considerare il problema, anche in funzione dei rinvii da disporre, la circostanza che l’eccezione sia stata sollevata dal rappresentante e dal difensore dell’UBAE non può considerarsi equivalente alla notifica prescritta dall’art. 821 c.p.c..

Sotto tale profilo l’argomento secondo cui la questione del termine sarebbe stata effettivamente discussa nell’ambito del contraddittorio fra le parti, prova troppo: l’adempimento dell’onere in questione, nella specie carente, trascende la mera attività da svolgersi nell’ambito del giudizio arbitrale, ed acquisisce autonoma valenza, comportando un’attività dispositiva che esplica anche effetti di natura sostanziale. Per tale motivo il riferimento all’art. 156 c.p.c., non appare pertinente, sia perchè tale norma si riferisce, di regola, "agli atti del processo", sia perchè la previsione della notificazione garantisce la certezza, anche in relazione al "quando", della conoscenza, da parte di tutti i soggetti interessati, dell’intenzione di far valere la decadenza.

Il rigore interpretativo che caratterizza l’orientamento di questa Corte (cfr. anche Cass., 15 luglio 1980, n. 4536, in cui si sottolinea l’esigenza della notifica tramite ufficiale giudiziario), ed al quale il Collegio intende dare continuità, è pienamente giustificato dalla considerazione che le norme che prescrivono una decadenza vanno interpretate con il rigore corrispondente ai loro effetti.

Non sussiste, per altro, la denunciata violazione dell’art. 112 c.p.c.: la questione di diritto posta dalla parte in relazione alla nullità del lodo è stata adeguatamente affrontata e risolta nella decisione impugnata (senza per altro incorrere nel pur dedotto vizio motivazionale), laddove il vizio di omessa pronuncia non è ipotizzatale quando, seppur manchi una specifica argomentazione, la decisione adottata in contrasto con la pretesa fatta valere ne comporti il rigetto (Cass., 20 febbraio 2004, n. 3403; Cass., 12 aprile 2006, n. 407; Cass., 26 novembre 2009, n. 24542).

3 – Il secondo motivo, con il quale si contesta, denunciandosi violazione degli artt. 52, 815 e 820 c.p.c., l’ulteriore ratio decidendi della decisione impugnata, fondata sull’emissione del lodo, tenuto conto dei periodi di sospensione e di proroga, entro il termine prescritto, è all’evidenza assorbito.

4 – Con il terzo motivo si deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 1362, e segg., artt. 1372 e 1175, 1227, 1174 e 1175, 1218 e 1453, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione, rispettivamente, all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 5.

La Corte territoriale, si sostiene, nell’affermare che le questioni dedotte in merito alla qualificazione del contratto e alla sua risoluzione consensuale non erano deducibili ai sensi dell’art. 829 c.c., avrebbe in sostanza disatteso le doglianze dell’UBAE, formulate "con riferimento a norme di diritto ben individuate".

In particolare, il significato dell’espressione "sarebbe sospeso", contenuta nella lettera inviata da Banksiel in data 10 luglio 2000, non sarebbe stato desunto all’esito della corretta applicazione dei canoni ermenutici normativi, nonchè dei principi di buona fede nell’esecuzione del contratto, tenendo altresì conto del comportamento successivo delle parti.

Si aggiunge che il Collegio arbitrale aveva omesso di considerare le inadempienze di Banksiel, di talchè avrebbe dovuto pronunciare la risoluzione de contratto per inadempimento e non già ritenere che le parti lo avessero consensualmente risolto.

Le stesse deduzioni svolte in questa sede dalla ricorrente dimostrano come la censura sia stata correttamente ritenuta inammissibile dalla corte territoriale nella fase rescindente, avendo sostanzialmente ad oggetto il merito della controversia.

Ed invero tale impostazione si ripresenta nello stesso ricorso, essendo per altro pacifico il principio secondo cui questa Corte non può prendere in esame direttamente il lodo, ma solo la sentenza emessa in esito a quel giudizio (Cass. un. 1699/2000, 8528/1998, 7588/1999, 250/1970, 2720/1997, 10264/1996, 7402/1983, 3366/1977).

Una volta devolutasi agli arbitri l’interpretazione di un contratto (o di un atto avente natura negoziale, come nella specie), il compito di fare corretta applicazione dei canoni ermeneutici per accertare il significato del contratto stesso e la volontà delle parti, spetta, per l’appunto, agli arbitri, mentre al giudice dell’impugnazione del lodo compete valutare se questo contenga al riguardo una motivazione adeguata e corretta. Alla Corte di cassazione, cui possono essere denunciati vizi della sentenza di detto giudice e non vizi del lodo, spetta di verificare se tale sentenza sia a sua volta adeguatamente e correttamente motivata in relazione ai motivi dell’impugnazione del lodo.

Ne consegue che non rispetta detti principi, rivelandosi carente anche sotto il profilo dell’autosufficienza, quel ricorso che, come nella specie, si limiti ad affermare che in sede di impugnazione del lodo sarebbero state indicate le norme violate. Per il vero, non è ammissibile la critica della ricostruzione della volontà negoziale operata dal giudice di merito che, dedotta sotto il profilo della violazione delle norme ermeneutiche o del vizio di motivazione, si risolva in realtà nella proposta di un’interpretazione diversa (cfr.

Cass., nn. 21064/2004, 15381/2004, 13839/2004, 13579/2004, 12289/2004, 8809/2003, 7242/2001, 1886/2000, 1225/2000, 1045/2000, 4832/1998, 3142/1998, 2190/1998, 1192/1998, 12652/1997, 11334/1997).

In altri termini, anche in questa sede la violazione delle regole di ermeneutica è stata dedotta dalla ricorrente senza precisare in qual modo il ragionamento del giudice del merito avrebbe deviato dalle stesse.

Premesso che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass., 20 novembre 2009, n. 24539; Cass., 2 maggio 2006, n. 10131).

Anche per quanto attiene alla questione della risoluzione del contratto, nel ricorso si richiamano le conclusioni cui era pervenuto il Collegio arbitrale, e si rimprovera alla corte territoriale di non aver accolto l’impugnazione proposta sotto il profilo della violazione degli artt. 1453 e 1455 c.c., ma non si illustrano le ragioni giuridiche sottoposte all’esame della corte capitolina, di talchè il giudizio della stessa inerente all’assenza di una specifica deduzione di violazioni di regole di diritto non può che essere confermato.

5 – Le spese relative al presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza, e si liquidano come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alla refusione in favore delle controricorrenti delle spese processuali relative al presente giudizio di legittimità, liquidate, per ciascuna di esse, in Euro 25.200,00, di cui Euro 25.000,00 per onorari.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Prima Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 29 settembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2012

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