Cass. civ. Sez. II, Sent., 23-01-2012, n. 879 Reintegrazione o spoglio

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ricorso, proposto ai sensi degli artt. 1168 e 1170 c.c. e depositato il 15 dicembre 1999 presso la cancelleria della Sezione distaccata di Erba del Tribunale di Como, i sigg. R.A. e R.E. chiedevano, nei confronti dei sigg. M. T., T.A. e T.G., la reintegrazione nel possesso del passaggio sul mappale 518 di proprietà dei resistenti sito nel Comune di (OMISSIS), al fine di raggiungere la loro proprietà confinante. A seguito della costituzione dei suddetti resistenti (i quali formulavano anche ricorso in via riconvenzionale per sentir ordinare la cessazione di ogni molestia del loro possesso sul menzionato mappale), il giudice adito, con ordinanza del 15 marzo 2000, ordinava ai predetti resistenti la consegna di copia delle chiavi di chiusura del lucchetto della sbarra posta sull’accesso carraio al citato mappale.

Proposto reclamo avverso la suddetta ordinanza, il Tribunale di Como, con provvedimento dell’11 maggio 2000, revocava la suddetta ordinanza. Proseguito il giudizio per la fase di merito, all’esito dell’istruzione probatoria, il giudice designato presso la Sezione distaccata di Erba, con sentenza n. 107/2001 (depositata il 23 novembre 2001), dichiarava inammissibili le domande di accertamento di natura petitoria e di accertamento del possesso dei ricorrenti, respingeva la domanda di reintegrazione nel possesso dai medesimi formulata e, in accoglimento della domanda di manutenzione formulata dai resistenti, ordinava ai ricorrenti la cessazione delle molestie del possesso dagli stessi esercitato sul mappale 518, respingendo le domande di risarcimento danni e di ripristino dello stato dei luoghi, compensando per metà le spese giudiziali ed accollando la residua metà a carico dei soccombenti ricorrenti.

A seguito di appello avverso detta sentenza proposto dalla sig.ra R.A. e dai sigg. R.S.M., R. P., R.G., B.M.R. in R., quali eredi di R.E., nella resistenza degli appellati (che proponevano, a loro volta, appello incidentale con riferimento al mancato accoglimento delle domande di ripristino dei luoghi e di risarcimento dei danni), l’adita Corte di appello di Milano, con sentenza n. 412/2005 (depositata il 15 febbraio 2005), come corretta con ordinanza dell’11 maggio 2005 (ed annotata il 19 maggio 2005), in riforma dell’impugnata sentenza, condannava M.T., T.A. e T.G. a ripristinare lo stato di fatto preesistente, con immediata reintegrazione degli appellanti principali nel diritto di passaggio, anche carraio, attraverso il fondo di proprietà degli appellati (mappale 158), previa rimozione della sbarra di accesso o la consegna di copia delle chiavi del lucchetto di chiusura della sbarra stessa.

A sostegno dell’adottata decisione, la Corte territoriale, sul presupposto che in tema di reintegra nel possesso di una servitù di passaggio non è necessario che esistano opere visibili e permanenti destinate all’esercizio del passaggio, rilevava che, alla stregua delle convergenti deposizioni dei testi delle originarie parti ricorrenti, era rimasto effettivamente comprovato il dedotto possesso dell’indicata servitù nonchè il lamentato spoglio da parte degli appellati (resistenti originari).

Nei confronti della suddetta sentenza della Corte di appello di Milano hanno proposto ritualmente ricorso per cassazione M. T., T.A. e T.G., basato su sette complessi motivi, al quale hanno resistito con controricorso R.A., R.S.M., R.P., R.G. e B.M.R. in R. (gli ultimi quattro quali eredi di R.E.). Il difensore dei ricorrenti ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 codice di rito civile.

Motivi della decisione

1. In primo luogo deve essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso così come formulata all’udienza di discussione dal difensore dei ricorrenti sul presupposto della prospettata insussistenza dell’abilitazione al patrocinio dinanzi a questa Corte, all’atto del deposito dello stesso controricorso, dell’Avv. Olga Camossi, quale difensore dei medesimi controricorrenti.

Rileva il collegio che, al di là del mancato riscontro di tale vizio da parte dello stesso difensore eccipiente (peraltro smentito dalla risultanza dell’iscrizione all’albo dei cassazionisti del predetto avvocato fin dal 27 maggio 2005) e dell’insindacabilità in questa sede sulla sussistenza o meno dei requisiti dell’avvocato Camossi per l’inserimento nell’albo dei cassazionisti all’atto della sua iscrizione, i controricorrenti sono risultati rappresentanti e difesi – anche disgiuntamente – oltre che dallo stesso avvocato Camossi anche dall’avvocato Giuseppe Gualtieri (sulla cui qualità di cassazionista non sono state addotte riserve) in virtù di specifica ed idonea procura speciale in calce al controricorso ed entrambi detti difensori hanno sottoscritto l’atto difensivo. Pertanto, in virtù di quest’ultima circostanza (risultando, in ogni caso, il controricorso riconducibile al legittimo esercizio dello "ius postulando da parte, quanto meno, dì un difensore certamente abilitato al patrocinio dinanzi alla Corte di cassazione: cfr. Cass., S.U., 10732 del 2003; Cass. n. 17103 del 2006 e Cass. n. 15478 del 2008), il controricorso deve ritenersi sicuramente ammissibile.

2. Con il primo motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 445 del 2000, degli artt. 2697 e 2727 c.c., nonchè degli artt. 110, 111, 115 e 116 c.p.c., congiuntamente al vizio di insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo, avuto riguardo alla supposta mancata prova della qualità di eredi di R.E. degli appellanti, siccome basata sulla sola dichiarazione sostitutiva dell’atto di notorietà prodotta agli atti nella quale si attestava la data di decesso dello stesso R.E. e l’assunzione della qualifica di eredi da parte di R.G., R. S.M., R.P. e B.M.R. in R..

2.1. Il motivo è infondato e deve, perciò, essere rigettato.

La Corte territoriale, con sufficiente motivazione, ha attestato che, sulla scorta dei conferenti atti prodotti in sede di appello, gli appellanti avevano comprovato, in relazione al rapporto intercorrente con il "de cuius", la loro qualità di eredi "ex lege" del R. E., senza che tale risultanza fosse stata posta in discussione in virtù di contrarie risultanze. Del resto, non coglie nel segno la doglianza dei ricorrenti nemmeno con riferimento alla dedotta inidoneità della dichiarazione sostituiva dell’atto di notorietà, dal momento che – secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte – la qualità di erede può essere provata, in sede processuale, anche attraverso la produzione del suddetto atto (cfr.

Cass. n. 15803 del 2009, che ha ritenuto legittima e sufficiente l’allegazione di tale documento anche nell’ambito della controversie relative a successioni "mortis causa", ragion per cui, a maggior ragione, la sua idoneità deve ritenersi sussistente, per l’indicato specifico scopo, anche in tema di azioni attinenti a diritti reali o alla tutela del possesso, come quella di specie, oltretutto esercitata, fin dall’origine, anche da R.A.).

3. Con il secondo motivo i ricorrenti hanno prospettato, con riferimento all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 4, la violazione degli artt. 82, 83, 125, 163, 325 e 327 c.p.c., deducendo che l’appellante R.A. non si sarebbe potuta ritenere legittimamente costituita in appello in virtù del solo mandato rilasciato a margine del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado del 15 dicembre 1999, dovendosi quest’ultimo ritenere inesistente in base alla supposta circostanza del difetto di contestualità tra la trascrizione del testo del mandato stesso e la sottoscrizione della mandante, risultando quest’ultima apposta verticalmente lungo il bordo del primo foglio del ricorso e dovendosi, perciò, considerare priva di attinenza con il mandato medesimo.

3.1. La doglianza appare inammissibile perchè introduce, nella presente sede di legittimità, una questione nuova siccome non dedotta tempestivamente in appello, non avendola la Corte territoriale riportata – nella sentenza impugnata – tra le questioni pregiudiziali idoneamente prospettate e, quindi, esaminabili. In ogni caso essa si appalesa destituita di fondamento poichè, in primo luogo, la procura apposta in calce o a margine di un atto giudiziario integra una scrittura privata e l’autografia della sottoscrizione di essa con la successiva certificazione del difensore, ai sensi dell’art. 83 c.p.c., comma 3, attribuisce a detta procura, in mancanza di querela di falso da parte del sottoscrittore, valore di piena prova della provenienza delle dichiarazioni in essa contenute (cfr. Cass. n. 715 del 1999; Cass. n. 10240 del 2009 e, da ultimo, Cass. n. 24639 del 2010). Inoltre, deve evidenziarsi che la procura speciale al difensore è da considerarsi valida ed efficace anche quando manchi un esplicito riferimento al giudizio (come nel caso di specie, laddove, peraltro, il mandato era espressamente rivolto a conferire la rappresentanza "in ogni fase e grado del presente giudizio"), se sia stata firmata prima della compilazione del ricorso o della citazione, purchè essa faccia corpo unico con il documento contenente l’atto (a prescindere, perciò, dal verso della sua concreta modalità di apposizione, che non deve, perciò, essere necessariamente orizzontale ed allineata con la stampa del contenuto della procura), dovendosi ritenere la piena aderenza del complessivo atto alla volontà della parte, in virtù del rapporto fiduciario (fra la stessa e il patrono), sul contenuto del quale la controparte non è legittimata ad interferire (cfr. Cass. n. 2060 del 1965 e Cass. n. 4186 del 1975). Per completezza occorre aggiungere che il mandato al difensore non necessita dell’adozione di formule solenni risultando sufficiente, allo scopo, che dal contesto dell’atto sia evincibile la volontà di conferire al difensore (o ai difensori) i relativi poteri e le facoltà processuali previsti dall’art. 84 c.p.c., senza trascurare anche la circostanza che, sulla scorta del nuovo assetto normativo dell’art. 83 c.p.c., la procura si considera validamente conferita pur se rilasciata su foglio separato a condizione, però, che sia materialmente congiunto all’atto cui si riferisce.

4. Con il terzo motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione degli artt. 1168, 1170 e 2697 c.c., unitamente al vizio di motivazione della sentenza impugnata, avuto riguardo alla ravvisata tutelabilità in sede possessoria, con la sentenza di appello, della dedotta servitù di passaggio ancorchè in assenza di opere visibili idonee a denotare materialmente il percorso oggetto della vantata situazione possessoria e malgrado la non univocità della risultanze probatorie sul punto.

4.1. Anche questo motivo non è meritevole di accoglimento e deve, quindi, essere respinto.

In punto di diritto la Corte territoriale si è conformata all’orientamento assolutamente prevalente (e condiviso) della giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass., S.U., n. 958 del 1989 e Cass. n. 4351 del 1999), alla stregua del quale la presenza di opere visibili e permanenti indicative di un transito configura un requisito necessario ai fini dell’acquisto della servitù di passaggio per usucapione o per destinazione del padre di famiglia, ma non anche per la tutela possessoria del passaggio medesimo, essendo, in proposito, sufficiente la prova dell’effettuazione di detto transito sul bene altrui (sulla tutelabilità, in sede possessoria, anche delle servitù discontinue cfr. Cass. n. 3076 del 2006 e, da ultimo, Cass. n. 13700 del 2011). Pertanto, sulla scorta di tale corretto presupposto giuridico (che non risulta posto in dubbio nemmeno dalla sentenza di questa Corte n. 12604 del 2002, richiamata dai ricorrenti, siccome riferita proprio ad una ipotesi di servitù non apparente), la Corte meneghina ha ritenuto giustamente come fosse irrilevante l’accertamento della sussistenza di idonee tracce di passaggio sulla proprietà degli odierni ricorrenti, essendo, invece, indispensabile ricercare il riscontro probatorio dell’avvenuto esercizio del possesso della relativa servitù, una volta individuatane l’ubicazione e la consistenza. E, a tal proposito, il giudice di appello, con motivazione del tutto adeguata ed immune da vizi logici, ha rilevato che la prova dell’esercizio di questa servitù era rimasta accertata per effetto delle plurime e convergenti risultanze della prova orale dedotta dagli originari ricorrenti R.A. ed E., dalle quali era scaturita l’obiettiva identificazione del percorso oggetto del transito e la continuità nell’esercizio del passaggio prima dello spoglio realizzato dagli attuali ricorrenti, senza che tali emergenze fossero risultate confutate da idonei elementi contrari (anche in conseguenza degli esiti delle testimonianze di parte avversa) ovvero tali da poter far dubitare dello loro effettiva attendibilità. Del resto – ad avviso della consolidata giurisprudenza di questa Corte – il vizio di omessa od insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di punti decisivi della controversia e non può, invece, consistere in un apprezzamento dei fatti e delle prove in senso difforme da quello preteso dalla parte, perchè la citata norma non conferisce alla Corte di legittimità il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-forma le e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito al quale soltanto spetta di individuare le fonti del proprio convincimento e, a tale scopo, valutare le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza, e scegliere tra le risultanze probatorie quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione.

5. Con il quarto motivo i ricorrenti hanno dedotto la violazione degli artt. 345 e 100 c.p.c. in ordine alla supposta violazione del giudicato interno in conseguenza della circostanza che gli appellanti non avevano idoneamente impugnato la pronuncia di inammissibilità adottata dal giudice di primo grado con riferimento alla loro complessiva domanda principale nè avevano appellato specificamente, con il formulato gravame, la statuizione dello stesso giudice relativa all’accoglimento della domanda riconvenzionale di manutenzione, sulla quale, quindi, si sarebbe venuta a formare l’incontrovertibilità del giudicato.

5.1. Anche questa doglianza è priva di fondamento.

Occorre, innanzitutto, rilevare che – per quanto si desume bastevolmente dalla sentenza impugnata – il giudice di primo grado aveva dichiarato inammissibili le domande di accertamento di natura petitoria degli originari ricorrenti e di accertamento del possesso dei resistenti, ma si era pronunciato nel merito della domanda di reintegrazione nel possesso proposta dai medesimi ricorrenti R., ancorchè rigettandola per difetto di prova sul possesso tutelabile con l’esperita azione, pervenendo all’accoglimento della domanda manutentoria spiegata dai T. – M.. In virtù di tale univoco accertamento sulla portata delle statuizioni oggettivamente attribuibili alla sentenza di prima istanza e del contenuto complessivo dell’atto di appello formulato dagli odierni controricorrenti (esaminabile anche nella presente sede in funzione della cognizione dell’eventuale giudicato, così come dedotto), con il quale gli stessi avevano richiesto (come esattamente rilevato anche dalla Corte territoriale) di disporre, in riforma della sentenza impugnata, la reintegra nel possesso di essi R., emerge con certezza che nessun effetto di giudicato, come supposto dagli attuali ricorrenti, si sia potuto verificare. Infatti, avuto riguardo alla domanda avanzata ai sensi dell’art. 1168 c.c. in primo grado (con la quale era stata invocata la reintegrazione immediata nel possesso e, per l’effetto, la rimozione della sbarra ovvero la consegna di copia delle chiavi del relativo lucchetto) e dal Tribunale di Como – sez. dist. di Erba respinta, non può dubitarsi che gli appellanti, con la proposizione del suddetto "petitum" in sede di appello (da correlare ai singoli motivi specifici posti a suo corredo ed esaminati dettagliatamente dalla Corte di appello), abbiano inteso impugnare proprio la statuizione di primo grado relativa alla menzionata domanda possessoria, oltre a contestare la legittimità della stessa sentenza di prime cure anche con riferimento all’accolta domanda riconvenzionale, sia per effetto della espressa richiesta di riforma (non espressamente invocata in senso parziale) della sentenza impugnata sia in conseguenza della logica giuridica incompatibilità di tale istanza congiuntamente a quella dell’accoglimento del gravame formulato in via principale con la (prospettata) riconferma dell’accoglimento della (contrapposta) domanda riconvenzionale a cui era pervenuta la sentenza oggetto di appello.

6. Con il quinto motivo i ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata per violazione dell’art. 132 c.p.c. e art. 118 disp. att. c.p.c., nonchè degli artt. 2697, 2727, 2730 e 2733 c.c. oltre che degli artt. 228, 258, 113, 115 e 116 c.p.c., unitamente al vizio di motivazione, sotto il profilo che, con la sentenza impugnata, la Corte territoriale non avrebbe idoneamente spiegato le ragioni del suo convincimento per pervenire all’accoglimento nel merito dell’appello dei R. e non avrebbe, in proposito, adeguatamente valorizzato le complessive risultanze istruttorie, ivi comprese quelle conseguite all’assunzione dei mezzi di prova offerti da essi ricorrenti (quali appellati).

La doglianza (per quanto già svolto con riferimento al terzo motivo:

v. sub 4.1; in giurisprudenza cfr. Cass. n. 15489 del 2007 e, da ultimo, Cass. 6288 del 2011) si prospetta inammissibile perchè afferisce alle valutazioni di merito adeguatamente supportate da idonea motivazione da parte della Corte di appello che, come già evidenziato, ha tenuto presente il complessivo quadro probatorio per giungere all’accoglimento dell’appello, esternando compiutamente il suo percorso logico-argomentativo circa gli esiti istruttori acquisiti, ivi compresi quelli scaturiti dalle istanze (ritenute ammissibili) degli attuali ricorrenti, che non avevano evidenziato elementi utili a confutare o a far ritenere inattendibile il contenuto delle convergenti dichiarazioni globalmente desumibili dalle testimonianze indicate dai R. e compatibili con i luoghi della controversia e le modalità dello spoglio denunciato.

7. Con il sesto motivo i ricorrenti hanno denunciato la violazione del diritto di difesa e del principio del contraddittorio, nonchè di quello di disponibilità della prova, congiuntamente al vizio di motivazione insufficiente e contraddittoria, sul presupposto che la causa in appello sarebbe stata decisa prescindendo dalla valutazione dei documenti prodotti da essi ricorrenti, quali appellati, in difetto dell’acquisizione del relativo fascicolo di parte.

7.1. Il motivo si prospetta inammissibile perchè del tutto generico.

In ogni caso, la Corte territoriale, con motivazione congrua e logica, ha rilevato che la richiesta di ricostruzione del fascicolo di parte degli appellati era da reputarsi irrilevante per effetto della ravvisata sufficienza del materiale probatorio comunque complessivamente acquisito ai fini della decisione sul gravame, non trascurandosi la circostanza che, quand’anche fosse stata autorizzata l’invocata ricostruzione, la stessa non avrebbe eliminato i dubbi sull’autenticità dei documenti contestati, che sarebbero risultati prodotti solo in copia. Del resto, la stessa Corte milanese ha rilevato che l’istanza di ricostruzione era stata determinata da una negligenza della difesa degli attuali ricorrenti che non aveva provveduto al rideposito del proprio fascicolo malgrado le sollecitazioni provenienti dal competente dirigente dell’ufficio giudiziario (cfr. pagg. 7-8 della sentenza impugnata). Al riguardo deve, peraltro, ricordarsi che l’istanza di ricostruzione del fascicolo di parte, che non si rinvenga nel fascicolo d’ufficio, non può essere genericamente formulata ma deve contenere la rappresentazione credibile dell’involontarietà dell’omissione essendo, altrimenti, il giudice tenuto a decidere sulla base degli atti e documenti rinvenuti al momento dell’assunzione della deliberazione giudiziale, dovendosi presumere volontario, in virtù del principio dispositivo, il mancato rinvenimento del predetto fascicolo al momento della decisione (cfr. Cass. 18237 del 2008 e, da ultimo, Cass. 21733 del 2010).

8. Con il settimo motivo i ricorrenti hanno prospettato la violazione degli artt. 82, 83, 125, 163 e 287 e segg. c.p.c., basando tale doglianza sul presupposto che la correzione nel dispositivo della sentenza apportata con ordinanza della Corte di appello in data 11 maggio 2005 (annotata dal cancelliere in calce all’originale della sentenza stessa il 19 maggio successivo) nella parte in cui il periodo "con immediata reintegrazione degli appellati" si sarebbe dovuto intendere sostituito con il periodo "con immediata reintegrazione degli appellanti", non avrebbe potuto essere legittimamente emessa perchè, incidendo nella sostanza sul contenuto della decisione, non sarebbe stato ammissibile far ricorso al procedimento di correzione di cui agli artt. 287 e 288 codice di rito civile.

La doglianza è manifestamente infondata. Al di là dell’irrilevanza di una non corrispondente elezione di domicilio nell’istanza di correzione rispetto a quella indicata nell’atto di appello, la Corte territoriale ha ritenuto legittimamente ammissibile il ricorso al procedimento di correzione, poichè, nella fattispecie, era incorsa chiaramente – nel dispositivo della sentenza in questa sede impugnata – in un evidente errore materiale nell’indicare che l’ordine di reintegrazione era stato emesso in favore degli appellati anzichè degli appellanti (che avevano, infatti, formulato la relativa domanda con la proposizione del gravame), così come univocamente risultante dalla parte motiva della sentenza, senza, perciò, comportare alcuna incidenza sulla portata sostanziale della statuizione (diversamente da quanto dedotto dai ricorrenti) nè sul suo contenuto concettuale, essendosi risolto lo scambio della parola "appellanti" con quella di "appellati" in una mera svista e, quindi, in una semplice divergenza tra l’ideazione e la materiale rappresentazione grafica della parola.

9. In definitiva, alla stregua delle complessive ragioni esposte, il ricorso deve essere integralmente rigettato, con conseguente condanna dei ricorrenti, in solido fra loro, al pagamento delle spese del presente giudizio, che si liquidano come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti, in via fra loro solidale, al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in complessivi Euro 3.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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