Cass. pen. Sez. VI, Sent., (ud. 27-06-2011) 16-09-2011, n. 34251 Associazione per delinquere Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Con sentenza dell’8 luglio 2010 la Corte d’appello di Milano confermava l’affermazione di colpevolezza dichiarata dal giudice di primo grado all’esito di giudizio abbreviato nei confronti di:

– I.M., per i delitti previsti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e art. 74, commi 1 e 6, riducendo la pena ad anni otto di reclusione ed Euro 40.000 di multa;

– L.O., per il delitto continuato previsto dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 e condannato alla pena di anni quattro e mesi dieci di reclusione ed Euro 22.000 di multa.

Contro la sentenza entrambi gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

2.1 I.M. denuncia:

1. erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 nonchè contraddittorietà e illogicità della motivazione, censurando: che l’esistenza del reato associativo sarebbe stata desunta dalla mera conclusione di plurime e frequenti compravendite di stupefacenti; che sarebbe stata illogicamente configurata un’associazione composta da quattro soggetti, tutti – eccetto uno ( A.J.) – qualificati come capi od organizzatori; che sarebbe illogico ritenere che F. e A. lavorassero per il ricorrente, quando ai medesimi veniva riconosciuto un compenso pari alla differenza di prezzo tra l’acquisto e la rivendita dello stupefacente; che l’attribuzione al ricorrente del ruolo di approvvigionatore dello stupefacente sarebbe in contraddizione con la riconosciuta responsabilità per due soli episodi di spaccio aventi per oggetto hashish e marijuana;

2. contraddittorietà della motivazione sul ruolo di capo dell’organizzazione, perchè la sentenza avrebbe desunto tale ruolo dagli ordini impartiti ai subordinati di versargli le somme riscosse, quando invece un "vero" promotore si sarebbe attivato per destinare il denaro riscosso alla "cassa comune". 2.2 Il ricorso di I. è privo di fondamento.

La sentenza impugnata, dall’esame delle conversazioni ambientali intercettate, ha tratto la prova che nella (OMISSIS) operava un’organizzazione criminosa dedita al traffico di sostanze stupefacenti (cocaina, hashish e marijuana) diretta da I.M. e composta dal di lui fratello M., dal nipote F.G. e dall’albanese A.J., i quali ultimi, nel ruolo di ubbidienti gregari (ad essi è stato contestato e ritenuto il reato di associazione previsto dal secondo comma del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, e non quello – come erroneamente sostiene il ricorrente – di cui al comma 1), provvedevano a consegnare ora personalmente ora per mezzo di determinati "galoppini" ( L. e C.) le sostanze stupefacenti e a riscuotere il relativo prezzo. Gli associati si riunivano pressochè quotidianamente nell’abitazione di F. dove I.M., che curava personalmente gli acquisti dello stupefacente, impartiva gli ordini per le consegne e il prezzo da esigere, stabilendo quale parte dell’incasso doveva essere rimessa a lui e quale spettava invece come compenso ai sodali.

La sentenza impugnata, conformandosi alle indicazioni fornite dalla consolidata giurisprudenza di legittimità, ha correttamente dedotto l’esistenza del reato associativo da una serie di elementi fattuali, rappresentati dalle modalità esecutive dei reati-scopo, dalla loro ripetizione, dai contatti assidui tra gli autori, dall’uniformità delle condotte protratte per un tempo apprezzabile, elementi tutti dimostrativi che i soggetti operanti erano legati da uno stabile vincolo associativo in vista della realizzazione di un comune programma criminoso.

Nell’ambito di tale associazione il ricorrente I.M. rivestiva il ruolo di capo e organizzatore, posto che – come illustra la sentenza impugnata attraverso l’esame delle numerose conversazioni intercettate – egli impartiva gli ordini agli altri associati per le vendite dello stupefacente e la riscossione del prezzo, stabilendo la ripartizione dei profitti dell’illecito traffico.

Pertanto la sentenza ha fornito una logica e corretta giustificazione delle ragioni dell’affermazione di responsabilità e le pretese illogicità e contraddittorietà lamentate dalla difesa non hanno alcuna consistenza e trovano comunque adeguata confutazione nella motivazione stesa dal giudice d’appello.

Il ricorso deve dunque essere rigettato, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

3.1 L.O. denuncia:

1. mancanza di motivazione sul motivo d’appello concernente il capo 8 dell’imputazione, in cui sosteneva che la sostanza stupefacente detenuta nell’abitazione del coimputato G.A. "non poteva assolutamente ritenersi di esclusiva appartenenza" dello stesso ricorrente;

2. violazione della legge penale e mancanza di motivazione in ordine al diniego dell’attenuante del fatto di lieve entità e alla determinazione della pena in misura superiore al minimo edittale.

3.2 Il ricorso di L. è infondato.

In ordine al primo motivo, si rileva che il capo d’imputazione numero 8 contesta al ricorrente la detenzione dello stupefacente in concorso con G.A. e che la sentenza impugnata non ha affatto modificato l’impostazione accusatoria.

In ordine al secondo motivo, si osserva che i giudici di merito hanno correttamente escluso il riconoscimento dell’attenuante invocata, sottolineando – in aderenza ai parametri indicati dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, – che il fatto non poteva essere ritenuto di lieve entità, sia per la qualità della sostanza venduta (la cocaina sequestrata il 21.5.2008 conteneva una percentuale di principio attivo superiore al 90%) sia per la quantità (nella conversazione dell’11.5.2008 il ricorrente afferma di essere in possesso di un kilo di sostanza identificabile in hashsish e di essere pronto a cederla un etto per volta).

Infondata è infine la doglianza sull’entità della pena inflitta, che, determinata in misura prossima al minimo edittale e lievemente aumentata per la continuazione, è stata discrezionalmente ritenuta dal giudice di merito adeguata alla gravità del fatto e alla personalità del reo.

Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

La Corte di cassazione rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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