T.A.R. Toscana Firenze Sez. II, Sent., 06-10-2011, n. 1452

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società ricorrente, T.I. S.p.A., espone di essere titolare di un punto vendita carburanti che è ubicato nel Comune di Carrara, viale Zaccagna n. 2 (site n. 1275), e che insiste sul confine del sito di bonifica di interesse nazionale di Massa Carrara, come definito ai sensi della l. n. 426/1998 e del d.m. 21 dicembre 1999.

Nell’autunno del 2004, nel quadro di una richiesta di autorizzazione ad effettuare una serie di lavori di adeguamento degli scarichi idrici del punto vendita, la società procedeva alla redazione del piano di caratterizzazione dell’area, che veniva trasmesso al Ministero dell’Ambiente ed approvato nella Conferenza di servizi del 24 marzo 2005.

Dalle analisi sui campioni di terreno e delle acque di falda prelevati durante la caratterizzazione emergeva l’assenza di contaminazioni del terreno, ma il superamento dei limiti previsti dal d.m. n. 471/1999 per due campioni di acqua. L’esponente procedeva perciò alla comunicazione dell’avvio della procedura di messa in sicurezza, bonifica e ripristino ambientale di cui all’art. 17, comma 2, del d.lgs. n. 22/1997. Seguiva un carteggio con il Ministero dell’Ambiente, puntualmente descritto nel ricorso, nel corso del quale la società:

a) evidenziava come la contaminazione delle acque avesse un’estensione esigua e, comunque, non si estendesse esternamente al sito del punto vendita carburanti;

b) precisava come la contaminazione delle acque rilevata nel punto vendita fosse dovuta solamente a composti idrocarburici e non a metalli pesanti, né a composti policiclici aromatici o a pesticidi (a differenza della situazione generale rilevata nelle altre parti del sito di interesse nazionale);

c) dopo l’entrata in vigore del d.lgs. n. 152/2006, presentava una copia del progetto operativo degli interventi di bonifica, contenente l’analisi di rischio sito specifica e la rimodulazione degli obiettivi della bonifica, chiarendo di aver approntato un impianto di emungimento e trattamento delle acque sotterranee costituito da due pozzi – ubicati in prossimità della zona sorgente – e da un successivo trattamento delle acque;

d) successivamente, proponeva l’installazione di un terzo pozzo di emungimento, nonché – visto il parere negativo allo scarico delle acque emunte e trattate nel collettore fognario di viale Zaccagna – la reimmissione di tali acque nella stessa unità geologica da cui erano estratte;

e) inviava una relazione riassuntiva delle attività svolte dal luglio 2006 al maggio 2007, rilevando la scomparsa del MTBE (metil terbutil etere) nelle acque del piezometro PZ4 a far data dal marzo del 2007.

Il 30 ottobre 2007 si teneva presso la sede del Ministero dell’Ambiente una Conferenza di Servizi decisoria, nel corso della quale veniva affrontata (ottavo punto dell’ordine del giorno) la questione della bonifica del punto vendita carburanti di cui si discute. Al riguardo, la Conferenza di Servizi, visto il forte stato di contaminazione riscontrato nelle acque di falda, deliberava, tra l’altro:

– di richiedere al titolare dell’area l’integrazione, entro dieci giorni dal ricevimento del verbale, del sistema di messa in sicurezza d’emergenza della falda già adottato, mediante la realizzazione di una barriera di contenimento fisico in aggiunta al sistema di emungimento, "lungo il fronte del P.V., a valle idrogeologico dell’area", nonché la presentazione, nel termine di trenta giorni, di un progetto di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico dell’intera area;

– di escludere la possibilità della reimmissione delle acque sotterranee nella stessa unità geologica da cui sono state emunte, confermandone la natura di rifiuto e sottolineando il conseguente obbligo dell’esponente di disfarsene mediante smaltimento o mediante idoneo processo di trattamento e/o recupero;

– di richiedere una nuova versione del progetto operativo di bonifica, che recepisse tutta una serie di prescrizioni, tra cui: a) l’assunzione, quale limite di riferimento del MTBE, di 10 µg/l per le acque sotterranee, di 10 mg/kg per i suoli adibiti a verde pubblico residenziale e di 250 mg/kg per i suoli industriali, come suggerito dall’Istituto Superiore della Sanità con nota prot. n. 57058/I.A.12 datata 6 febbraio 2001 (prescrizione n. 5); b) il riportare i dati analitici relativi ai terreni sia in termini di concentrazione riferita al totale (comprensivo dello scheletro e privo della frazione maggiore di 2 cm., da scartare in campo), che in termini di concentrazione riferita al passante ai 2 mm., onde poter valutare eventuali differenze sostanziali, come da parere dell’A.P.A.T. n. 262661 del 21 settembre 2006 (prescrizione n. 7).

Le prescrizioni dettate con il verbale della Conferenza di Servizi decisoria ora richiamata sono state approvate e considerate come definitive con decreto direttoriale del Ministero dell’Ambiente, prot. n. 4307/QdV/DI/B del 28 dicembre 2007.

La T.I. S.p.A. si duole delle prescrizioni che le sono state impartite con gli atti ora riportati, attesa l’insostenibilità economica ed ambientale di esse. Pertanto, con il ricorso indicato in epigrafe, rubricato al n. 638/2008 del Registro Generale, la società ha impugnato (in parte qua) il decreto del 28 dicembre 2007, nonché il verbale della Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007 e gli altri atti presupposti e connessi parimenti specificati in epigrafe, chiedendone l’annullamento previa sospensione dell’esecuzione.

A supporto del gravame, con cui ha avanzato, altresì, domanda di risarcimento dei danni, la società ricorrente ha formulato le seguenti censure:

– violazione degli artt. 3, 41, 42 e 97 Cost., violazione e falsa applicazione dell’art. 242, comma 8, e dell’allegato 3 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, violazione degli artt. 1 e 3 della l. n. 241/1990, eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, ed in particolare sotto i profili della manifesta illogicità ed irragionevolezza e del difetto di motivazione e di istruttoria, giacché la P.A. non avrebbe specificato le motivazioni poste alla base della prescrizione di realizzare una barriera (aggiuntiva) di confinamento fisico, né avrebbe svolto alcuna istruttoria per valutare la realizzabilità e l’effettiva utilità della suddetta barriera; le risultanze dell’istruttoria fin lì effettuata dal Ministero contrasterebbero, anzi, con la prescrizione in parola;

– violazione degli artt. 3, 41, 42 e 97 Cost., violazione e falsa applicazione degli artt. 240 e 242, comma 8, e dell’allegato 3 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, violazione degli artt. 1 e 3 della l. n. 241/1990, eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, ed in particolare sotto i profili della manifesta illogicità, del difetto di motivazione e di istruttoria e del travisamento dei presupposti di fatto e di diritto, perché, innanzitutto, la qualificazione della barriera di contenimento fisico aggiuntiva quale intervento di messa in sicurezza d’emergenza (da realizzare in dieci giorni) contrasterebbe con la nozione che di tali interventi fornisce l’art. 240, comma 1, lett. m), del d.lgs. n. 152/2006, e con l’allegato 3 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152 cit., che la configurerebbe come intervento di messa in sicurezza operativa; inoltre, detta barriera contrasterebbe con i criteri generali degli interventi di bonifica di cui all’allegato 3 citato, in quanto intervento inutile dal lato tecnico, insostenibile dal lato economico e problematico sotto il profilo logistico (interruzione della viabilità locale e ricollocazione delle reti di sottoservizi presenti nell’area);

– violazione degli artt. 3, 41, 42 e 97 Cost., violazione e falsa applicazione dell’art. 242, comma 8, e dell’allegato 3 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, violazione degli artt. 1 e 3 della l. n. 241/1990, eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, ed in particolare sotto i profili della palese inadeguatezza del termine per la realizzazione della barriera fisica, della contraddittorietà e dell’illogicità, giacché il termine di dieci giorni dal ricevimento del decreto direttoriale impugnato per la realizzazione della barriera fisica sarebbe manifestamente inadeguato e si porrebbe in chiara contraddizione con il termine di trenta giorni per la presentazione di un nuovo progetto di bonifica basato sulla predetta barriera (termine anch’esso del tutto inadeguato);

– violazione degli artt. 3, 41, 42 e 97 Cost., violazione degli artt. 240 e 242 e dell’allegato 3 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, violazione del principio di proporzionalità, inesistenza di motivazione ed eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in quanto la realizzazione del sistema di confinamento fisico e la gestione delle acque di falda imporrebbero oneri economici del tutto sproporzionati rispetto all’entità limitata della contaminazione, considerando anche l’assenza del superamento di limiti tabellari nell’area dove la P.A. vorrebbe fosse costruita la barriera fisica e l’idoneità della barriera idraulica già in funzione;

– violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 97 Cost., dell’art. 23, comma 1, lett. a), del d.lgs. n. 152/2006 (già art. 1, comma 1, lett. l) del d.P.C.M. 10 agosto 1988, n. 377 ed art. 1, comma 3, lett. r), dell’allegato A al d.P.R. 12 aprile 1996), eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in quanto sarebbe illegittima la prescrizione della realizzazione della barriera fisica senza la preventiva sottoposizione a V.I.A. del relativo progetto;

– violazione degli artt. 3 e 97 Cost., violazione e falsa applicazione degli artt. 74, lett. ff), 104, 124, 125, 185, 192, 208, 240, 242, 243 e 252 del d.lgs. n. 152/2006, violazione e falsa applicazione degli allegati da A) ad I) alla Parte IV e nn. 15 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152 cit., violazione e falsa applicazione dell’allegato 5 alla Parte III del d.lgs. n. 152 cit., eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, violazione della l. n.241/1990 e dei principi generali in tema di procedimento amministrativo, perché la P.A. erroneamente qualificherebbe le acque di falda emunte come rifiuti e le assoggetterebbe al regime normativo per questi dettato, anziché assoggettarle al regime specifico previsto dall’art. 243 del d.lgs. n. 152/2006 (che ne consentirebbe la reimmissione in falda, previo trattamento);

– violazione degli artt. 3 e 97 Cost. e del principio di proporzionalità, violazione e falsa applicazione dell’art. 242, comma 8, e dell’allegato 3 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, giacché la prescrizione del trattamento delle acque emunte in impianti autorizzati ai sensi della normativa vigente in tema di rifiuti imporrebbe alla ricorrente un onere insostenibile sia sul piano economico, sia in relazione all’impatto ambientale;

– violazione degli artt. 3 e 97 Cost., violazione e falsa applicazione degli artt. 240, 242 e ss. e 249, e degli allegati nn. 15 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, inesistenza della motivazione, eccesso di potere in tutte le sue figure sintomatiche, in quanto sarebbe illegittima l’assunzione, da parte della P.A., del limite di riferimento del MTBE previsto dalla nota dell’Istituto Superiore della Sanità (I.S.S.) prot. n. 57058/I.A.12 del 6 febbraio 2001, attesa la mancata individuazione, ad opera della normativa vigente (il d.m. n. 471/1999 ed ora la Tabella 2 dell’allegato 5 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006) di valori limite per tale sostanza;

– violazione degli artt. 3 e 97 Cost., violazione e falsa applicazione degli artt. 240 e ss., 242 e 249, e dell’allegato 2 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006, poiché (in relazione alla prescrizione n. 7 cui dovrebbe uniformarsi il nuovo progetto operativo di bonifica) per la verifica dell’eventuale contaminazione del terreno la P.A. pretenderebbe analisi riferite sia alla totalità del campione, sia alla frazione inferiore ai 2 mm., in contrasto con il dettato legislativo, che imporrebbe l’esecuzione di analisi soltanto sulla frazione inferiore ai 2 mm. e riferite alla totalità del campione.

Si sono costituiti in giudizio i Ministeri dell’Ambiente, della Salute e dello Sviluppo Economico, con atto di costituzione formale.

Nella Camera di consiglio del 14 maggio 2008 il Collegio, ritenuto, ad un primo sommario esame, sussistente il difetto di istruttoria nelle determinazioni amministrative gravate, quanto all’efficacia dell’intervento di confinamento fisico, anche in rapporto ai contrapposti interessi in gioco nel caso in esame, con ordinanza n. 480/2008 ha accolto l’istanza cautelare.

Ciononostante, in data 11 giugno 2008 si teneva presso il Ministero dell’Ambiente una Conferenza di Servizi istruttoria, in esito alla quale – lamenta la ricorrente – venivano ribadite le determinazioni assunte nella Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007. Più in particolare, il verbale della predetta Conferenza dell’11 giugno 2008, alla lett. Y), dopo aver ribadito l’utilizzo per il MTBE del valore di riferimento indicato dall’I.S.S., pari a 10 µg /l, tornava a richiedere alla società, tra l’altro, di presentare una nuova versione del progetto di bonifica, che recepisse le prescrizioni formulate al riguardo dalla citata Conferenza di Servizi del 30 ottobre 2007.

Avverso l’ora visto verbale della Conferenza di Servizi dell’11 giugno 2008 è insorta la T.I. S.p.A., impugnandolo con ricorso per motivi aggiunti – proposto, altresì, quale ricorso autonomo, rubricato al n. 1706/2008 del Registro Generale – e chiedendone l’annullamento. La ricorrente ha impugnato, altresì, il verbale della Conferenza di Servizi istruttoria del 26 giugno 2007, quello della Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007, nonché il decreto direttoriale che ha recepito le determinazioni di quest’ultima (atti già impugnati con il ricorso originario rubricato al n. 638/2008 di R.G.).

A supporto del gravame, la società ha dedotto anzitutto, con il primo motivo, le doglianze di difetto di istruttoria e di illegittimità derivata, per avere la P.A., nonostante l’accoglimento dell’istanza di sospensione, proceduto alla riproposizione delle prescrizioni dettate nella Conferenza di Servizi del 30 ottobre 2007 (e nelle precedenti Conferenze istruttorie), senza svolgere alcuna attività istruttoria. Ciò comporterebbe, altresì, che l’illegittimità degli atti impugnati con il ricorso originario R.G. n. 638/2008 si riverberi sul verbale della Conferenza di Servizi dell’11 giugno 2008, impugnato con i motivi aggiunti e con il ricorso R.G. n. 1706/2008, viziandolo in via derivata. Per il resto (motivi da II a X), la società ha ripresentato le medesime doglianze già dedotte con il ricorso originario R.G. n. 638/2008.

La T.I. S.p.A. ha, altresì, reiterato la domanda di risarcimento dei danni.

Si sono costituiti (nel giudizio instaurato con ricorso R.G. n. 1706/2008) i Ministeri dell’Ambiente, dello Sviluppo Economico e della Salute, nonché l’Istituto Superiore della Sanità e l’I.S.P.R.A. – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale (ex A.P.A.T.), con atto di costituzione formale.

Successivamente, in data 10 febbraio 2009, si teneva presso il Ministero dell’Ambiente un’ulteriore Conferenza di Servizi decisoria, nel corso della quale veniva nuovamente affrontata (v. pp. 21 e ss. del verbale) la questione della bonifica del punto vendita carburanti per cui è causa. In proposito, la Conferenza, premesso il richiamo alle osservazioni contenute nella nota dell’A.R.P.A.T. trasmessa il 30 ottobre 2007 ed acquisita al protocollo del Ministero il 5 novembre 2007, tornava, tra l’altro, a richiedere alla ricorrente la presentazione di un progetto di bonifica che recepisse le prescrizioni in merito avanzate dalla Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007.

Le prescrizioni dettate con il verbale della Conferenza di Servizi del 10 febbraio 2009 sono state approvate e considerate come definitive con decreto direttoriale del Ministero dell’Ambiente, prot. n. 4694/QdV/DI/VIIVIII/IX del 2 marzo 2009.

Avverso l’ora visto decreto direttoriale, il verbale della Conferenza di Servizi del 10 febbraio 2009, la relativa nota di accompagnamento, la nota dell’A.R.P.A.T. del 30 ottobre 2007, e gli atti già in precedenza impugnati, è insorta la T.I. S.p.A., impugnandoli con ulteriori (secondi) motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008, riproposti anche come (primi) motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008 e come ricorso autonomo rubricato al n. 1139/2009 di R.G.. La ricorrente ha chiesto, in particolare, l’annullamento previa sospensione degli atti gravati, ripresentando, inoltre, domanda di risarcimento dei danni.

Con il primo motivo di gravame, ha dedotto i vizi di difetto di istruttoria e di illegittimità derivata dei provvedimenti impugnati, in quanto anche la Conferenza di Servizi del 10 febbraio 2009, al pari di quella dell’11 giugno 2008, si sarebbe limitata alla pedissequa riproposizione delle prescrizioni stabilite nella Conferenza di Servizi del 30 ottobre 2007 (e nelle precedenti Conferenze istruttorie). Per il resto (motivi da II a X), la società ha ripresentato le medesime doglianze già formulate con i precedenti ricorsi.

Si sono costituiti (nel giudizio instaurato con ricorso R.G. n. 1139/2009) i Ministeri dell’Ambiente, della Salute e dello Sviluppo Economico, nonché l’I.S.P.R.A., con atto di costituzione formale.

Nella Camera di consiglio del 28 luglio 2009 il Collegio ha considerato sussistente il vizio di difetto di istruttoria quanto alla ribadita prescrizione dell’intervento consistente nella realizzazione di una barriera fisica. Ha poi evidenziato come la nota dell’I.S.S. del 6 febbraio 2001, recante il valore di riferimento per il MTBE, fosse ricompresa tra gli atti già sospesi con l’ordinanza n. 480/2008. Per conseguenza, con distinte ordinanze n. 639/09 (ricorso R.G. n. 638/2008), n. 640/09 (ricorso R.G. n. 1706/2008) e n. 645/09 (ricorso R.G. n. 1139/2009) ha accolto l’istanza cautelare.

Da ultimo, con la Conferenza di Servizi istruttoria tenutasi presso il Ministero dell’Ambiente il 22 gennaio 2010, la P.A., è tornata ancora a reiterare nei confronti del punto vendita carburanti per cui è causa (n. 1275) le medesime prescrizioni già formulate in esito alle precedenti Conferenze del 10 febbraio 2009 e dell’11 giugno 2008: per quanto qui interessa, è tornata a chiedere la presentazione di un progetto operativo di bonifica che recepisse le prescrizioni dettate nella Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007 (e, pertanto, la realizzazione di un intervento basato sul confinamento fisico dell’area interessata).

Avverso le determinazioni assunte con la suddetta Conferenza di Servizi è ancora una volta insorta la T.I. S.p.A., impugnandole con ulteriori (terzi) motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008, riproposti anche come ulteriori (secondi) motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008, come motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1139/2009 e come ricorso autonomo rubricato al n. 608/2010 del R.G.; la ricorrente ha chiesto l’annullamento degli atti impugnati, tornando, altresì, a formulare domanda di risarcimento dei danni.

A supporto del gravame, la società ha riproposto innanzitutto, con il primo motivo, le doglianze di difetto di istruttoria e di illegittimità derivata, per avere anche la Conferenza di Servizi tenutasi il 22 gennaio 2010 reiterato pedissequamente le prescrizioni stabilite dalle precedenti Conferenze (ed in specie, dalla Conferenza decisoria del 30 ottobre 2007), nonostante la sospensione cautelare, in sede giurisdizionale, dei provvedimenti anteriormente adottati. Per il resto (motivi da II a X), la società ha riproposto le medesime doglianze già formulate con i precedenti ricorsi.

Nessuna delle Amministrazioni evocate si è costituita nel giudizio instaurato con il ricorso R.G. n. 608/2010.

In vista dell’udienza pubblica, la T.I. S.p.A. ha depositato una memoria difensiva di uguale contenuto in ognuno dei ricorsi indicati in epigrafe, effettuando brevi puntualizzazioni ed insistendo per l’accoglimento di ciascuno di essi.

Il Ministero dell’Ambiente, dal canto suo, ha depositato una memoria difensiva nell’ambito del giudizio instaurato con il ricorso R.G. n. 1139/2009, evidenziando la legittimità e correttezza delle prescrizioni gravate.

All’udienza pubblica del 9 novembre 2010 le cause sono state trattenute in decisione.

Motivi della decisione

Con i ricorsi indicati in epigrafe sono impugnati una serie di atti (verbali di Conferenze di Servizi e relativi decreti ministeriali di approvazione) mediante i quali sono state dettate prescrizioni circa gli interventi da realizzare per la messa in sicurezza di emergenza e la bonifica dell’area del Comune di Carrara (viale Zaccagna n. 2) dov’è ubicato il punto vendita carburanti della T.I. S.p.A. (site n. 1275).

In via preliminare occorre procedere alla riunione dei citati ricorsi, attese le connessioni soggettive ed oggettive esistenti tra gli stessi.

In via ulteriormente preliminare, il Collegio deve, poi, scrutinare l’eccezione di inammissibilità del ricorso, formulata dalla difesa erariale in riferimento all’impugnazione dei verbali di Conferenze di Servizi istruttorie, quali atti endoprocedimentali privi di contenuto prescrittivo e, perciò, di efficacia lesiva, non autonomamente impugnabili in assenza della formale conclusione del procedimento ex art. 14ter, comma 6bis, della l. n. 241/1990 (nel testo vigente all’epoca degli atti gravati, anteriore alle modifiche apportate dal d.l. n. 78/2010).

L’eccezione, da respingere in riferimento ai ricorsi R.G. n. 1139/2009 (nel cui ambito formalmente è stata proposta) e R.G. n. 638/2008, va invece accolta relativamente ai ricorsi R.G. n. 1706/2008 e R.G. n. 608/2010 (rispetto al quale è, peraltro irritualmente, sviluppata), nei termini che di seguito si vanno a precisare.

Per conseguenza, l’eccezione va, altresì, accolta relativamente al primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008 (di cui il ricorso R.G. n. 1706/2008 costituisce pedissequa riproposizione quale ricorso autonomo), nonché al terzo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008, al secondo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008 ed ai motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1139/2009, dei quali il ricorso R.G. n. 608/2010 costituisce a sua volta pedissequa riproposizione quale ricorso autonomo.

Invero, con i ricorsi ed i motivi aggiunti ora menzionati si impugnano rispettivamente (in aggiunta agli atti impugnati in precedenza):

a) il verbale della Conferenza di Servizi tenutasi l’11 giugno 2008;

b) il verbale della Conferenza di Servizi tenutasi il 22 gennaio 2010.

Orbene, nel vigore della disciplina anteriore al d.l. n. 78/2010, convertito con la l. n. 122/2010, la giurisprudenza assolutamente prevalente (cfr., ex plurimis, C.d.S., Sez. VI, 11 novembre 2008, n. 5620) ha affermato che il verbale della Conferenza di Servizi, non seguito dall’atto di recepimento, non ha natura decisoria, ma ha valore endoprocedimentale e come tale non è impugnabile, in quanto inidoneo ad incidere sugli interessi delle parti. In particolare, è stato evidenziato il persistere di uno iato sistematico tra la determinazione conclusiva della Conferenza, anche se di natura decisoria, ed il successivo provvedimento finale: se ne evince che soltanto a quest’ultimo si può riconoscere una valenza effettivamente determinativa della fattispecie, con conseguente insorgenza dell’onere della sua immediata impugnazione, mentre alla prima va riconosciuto mero carattere endoprocedimentale (C.d.S., Sez. VI, n. 5620/2008, cit.). A tali conclusioni, la giurisprudenza è arrivata sulla base dei seguenti elementi:

a) l’art. 14quater, comma 2, della l. n. 241/1990, che assegnava natura immediatamente esecutiva alla determinazione conclusiva dei lavori della Conferenza, è stato abrogato (dall’art. 11 della l. n. 15/2005);

b) la l. n. 15/2005 ha, inoltre, modificato l’art. 14ter, comma 7, della l. n. 241 cit., espungendone la parte in cui veniva affermata la possibilità, per le P.A. dissenzienti, di impugnare immediatamente e direttamente la determinazione conclusiva della Conferenza di Servizi;

c) la l. n. 15/2005 ha sì abrogato il cd. dissenso postumo (e, dunque, la possibilità di ribaltamenti di posizioni tra determinazione conclusiva e provvedimento finale) ma ciò non ha comportato anche la sistematica dequotazione delle ragioni sottese alla distinzione tra il momento conclusivo dei lavori della Conferenza ed il successivo momento provvedimentale;

d) il Legislatore del 2005, optando per il mantenimento del provvedimento espresso come momento conclusivo della complessiva vicenda, ha manifestato la sua volontà di lasciare inalterato il sistema di garanzie trasfuso nel Capo IVbis della l. n. 241/1990, con particolare riferimento all’onere di comunicazione, all’acquisto di efficacia e, sussistendone le condizioni, al carattere di esecutorietà del provvedimento.

Conclusivamente, secondo la giurisprudenza, è implausibile ritenere che la scelta del Legislatore del 2005, laddove si è risolta nell’opzione di mantenere nell’economia complessiva della Conferenza di Servizi un momento apertamente provvedimentale (v. art. 14ter, comma 9, cit.), si possa intendere come una sorta di lapsus calami del Legislatore stesso (C.d.S., Sez. VI, n. 5620/2008, cit.).

Il quadro è profondamente mutato con le modifiche apportate dal d.l. n. 78/2010, che, per quanto di interesse, all’art. 49, comma 2, lett. f) reca l’abrogazione espressa dell’art. 14ter, comma 9, della l. n. 241 cit., eliminando il riferimento al provvedimento finale, successivo alle determinazioni della Conferenza di Servizi. Secondo la dottrina che ha analizzato la riforma del 2010, ciò sta ad indicare il totale rovesciamento della precedente disciplina (e della giurisprudenza sopra riportata), dovendo a questo punto attribuirsi alla determinazione conclusiva della Conferenza, non più seguita da alcun provvedimento, valore provvedimentale e non più meramente endoprocedimentale, con il corollario della sua diretta impugnabilità, quale atto immediatamente lesivo. Ma tale nuova disciplina non può applicarsi alla fattispecie per cui è causa, perché ad essa posteriore: l’iter procedimentale attinente a tale fattispecie si è, infatti, interamente svolto nel vigore del precedente regime normativo e ad esso, perciò, si applicano le massime della giurisprudenza appena citata. Donde la fondatezza, nei termini ora visti, della suesposta eccezione di inammissibilità.

Sono ammissibili, invece, i ricorsi R.G. n. 638/2008 e R.G. n. 1139/2009, nonché il secondo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008 ed il primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008, avendo essi ad oggetto i decreti direttoriali che hanno approvato e reso definitive le determinazioni assunte nelle Conferenze di Servizi decisorie del 30 ottobre 2007 e del 10 febbraio 2009 (oltre ai verbali delle Conferenze stesse).

Al riguardo deve precisarsi che l’inammissibilità del ricorso originario R.G. n. 1706/2008, di per sé considerata, non comporta in alcun modo l’inammissibilità dei relativi motivi aggiunti: in proposito è stato, infatti, precisato in giurisprudenza che i motivi aggiunti in corso di causa, introdotti dall’art. 1 della l. n. 205/200 (cioè relativi all’atto sopravvenuto connesso al provvedimento originariamente impugnato), diversamente dai motivi aggiunti tradizionalmente conosciuti, sono dotati di autonomia sostanziale, costituendo espressione di un autonomo diritto di azione. Ne segue che, pur non avendo essi le sembianze dell’atto di ricorso autonomo, ne possiedono, tuttavia, l’intima natura, dando vita, non ad un mero svolgimento interno al rapporto già in essere, ma ad un nuovo rapporto processuale, con il corollario che la loro indipendenza sostanziale e pari dignità rispetto al ricorso originario fa sì che non risentano dell’inammissibilità di questo (v. T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 4 novembre 2004, n. 5594): invero, l’introduzione, con la l. n. 205/2000, dei predetti motivi aggiunti risponde ad esigenze di semplice economia processuale (ed è comunque alternativa alla riunione dei ricorsi), ma non incide sull’autonomia delle impugnazioni proposte, né le dette esigenze valgono a stabilire quel vincolo di interdipendenza tra le impugnazioni, tale da far riverberare l’inammissibilità della prima sulla seconda, travolgendola (T.A.R. Toscana, Sez. III, 31 maggio 2005, n. 2665).

I succitati ricorsi, oltre che ammissibili, sono altresì parzialmente fondati, nei termini che di seguito si vanno ad esporre.

In particolare, risultano fondate le doglianze dedotte avverso le prescrizioni aventi ad oggetto:

la richiesta di integrare il sistema di messa in sicurezza d’emergenza della falda già adottato, con la realizzazione di una barriera di contenimento fisico in aggiunta al sistema di emungimento "lungo il fronte del P.V." (punto vendita) "a valle idrogeologico dell’area";

la richiesta di presentare un progetto di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico dell’intera area;

l’adozione, quale valore di riferimento per il MTBE, del limite previsto dalla nota dell’I.S.S. prot. n. 57058 IA.I2 del 6 febbraio 2001;

la richiesta, per la verifica di un'(eventuale) contaminazione del terreno, di analisi riferite sia alla totalità del campione, sia alla frazione inferiore ai 2 mm., anziché di analisi soltanto sulla frazione inferiore ai 2 mm. e riferite alla totalità del campione.

Sono, quindi, fondate anzitutto le censure di difetto di istruttoria e di motivazione per l’imposizione della misura di messa in sicurezza della falda basata sul confinamento fisico.

Osserva, sul punto, il Collegio che la misura della cd. barriera fisica non risulta supportata, negli atti impugnati, da adeguati accertamenti tecnici o da altre spiegazioni, che la indichino come l’unico od il miglior sistema per evitare la diffusione dell’inquinamento: perciò, ha natura di mera (e del tutto inidonea) formula di stile il riferimento, contenuto nel verbale della Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007, ad un’ampia ed approfondita discussione. Ed a tal proposito va aggiunto come l’obbligo di un’esaustiva motivazione della prescrizione – rimasto inadempiuto – discendesse anche dalla rilevante onerosità e complessità tecnica di questa, che necessita di tempi notevolmente lunghi per il suo completamento.

A prescindere dalla valutazione di altre misure, di minore complessità ed onerosità, resta fermo che, secondo la giurisprudenza (T.A.R. Puglia, Lecce. Sez. I, 11 giugno 2007, n. 2247), anche di questa Sezione (T.A.R. Toscana, Sez. II, 14 ottobre 2009, n. 1540; id., 18 dicembre 2009, n. 3973), la P.A. è tenuta a valutare ed accertare non solo l’inefficacia di misure meno invasive della barriera fisica, ma anche l’effettiva necessità, efficacia e realizzabilità del sistema di contenimento fisico. Pertanto, l’opzione per detto sistema, ovvero per un utilizzo combinato delle differenti tipologie di intervento, avrebbe potuto legittimamente avere luogo soltanto all’esito di un’analisi comparativa tra le diverse alternative in discorso, in ragione delle specifiche caratteristiche dell’area. L’analisi comparativa si sarebbe dovuta incentrare sull’efficacia delle diverse alternative nel raggiungere gli obiettivi finali, nonché sulle concentrazioni residue, sui tempi di esecuzione e sulla loro compatibilità con l’urgenza del provvedere, e sull’impatto rispetto all’ambiente circostante gli interventi (T.A.R. Lecce, Sez. I, n. 2247/2007, cit.). In sintesi, detta analisi avrebbe dovuto implicare la valutazione comparativa dei vantaggi e degli svantaggi delle differenti opzioni sul campo, con necessaria precisazione, da parte della P.A., non solo dei vantaggi effettivi connessi alla realizzazione della barriera fisica, ma anche della comparazione con i relativi svantaggi, fornendo la prova di aver adeguatamente valutato questi ultimi.

Sul punto, il Collegio ritiene di aderire al quadro istruttorio e motivazionale delineato, con riguardo alla scelta del sistema della barriera fisica, dalla giurisprudenza poc’anzi richiamata (T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, n. 2247/2007, cit.), secondo la quale la scelta in parola richiede:

a) un’attenta istruttoria circa gli effetti che l’indicata barriera avrebbe sortito sulle dinamiche idriche e geologiche dell’area sottostante;

b) un’altrettanto attenta istruttoria sulle possibili interazioni tre i due modelli di barriera ipotizzabili (idraulica e fisica), al fine di evitare duplicazioni di interventi, con inutile aggravio dei costi, nonché interazioni negative comportanti aggravamento dei rischi che si intendevano scongiurare;

c) un’analisi costi/benefici in merito alle quantità di materiale contaminato di cui la realizzazione dell’opera avrebbe richiesto la movimentazione.

In argomento altra giurisprudenza ha sottolineato l’esigenza di sottoporre l’opera di confinamento fisico delle acque ad un’analisi dell’impatto che essa ha sul territorio circostante, onde scongiurare che produca sull’ambiente più problemi di quelli che tende a risolvere (T.A.R. Sardegna, Sez. II, 12 febbraio 2008, n. 165). Si è, anzi, specificato – e forma del resto oggetto di ulteriore doglianza della ricorrente – che l’opera è soggetta a procedura obbligatoria di valutazione di impatto ambientale, ai sensi sia del d.lgs. n. 152/2006, sia del precedente art. 1, comma 1, lett. l), del d.p.c.m. n. 377/1988 (cfr. T.A.R. Sicilia, Catania, Sez. I, 20 luglio 2007, n. 1254).

Orbene – come già sottolineato – dall’esame complessivo degli atti di causa non emerge che la P.A. abbia svolto i suddetti approfondimenti istruttori, in specie le suesposte valutazioni e comparazioni, né che abbia corredato la propria opzione in favore del modello del contenimento fisico del congruo apparato motivazionale, che invece si rendeva necessario.

Ne discende che l’omissione della doverosa indicazione degli elementi tecnici, in base ai quali si è ritenuto di prescrivere l’intervento di confinamento fisico, determina l’illegittimità della decisione assunta, giacché viziata da un uso arbitrario della discrezionalità tecnica. La giurisprudenza (T.A.R. Sardegna, Sez. II, n. 165/2008 cit., concernente l’imposizione, immotivata e carente di un’adeguata istruttoria, della barriera fisica quale misura per la messa in sicurezza d’emergenza) ha chiarito, sul punto, che la sindacabilità della scelta di siffatte misure si correla al principio per il quale il giudice amministrativo ha poteri di controllo della discrezionalità tecnica, che si spingono fino alla verifica diretta dell’attendibilità delle operazioni tecniche, in relazione alla loro correttezza sotto gli aspetti del criterio tecnico e del procedimento applicativo, ma senza sostituirsi alla P.A. nell’effettuazione di valutazioni opinabili (v. in argomento C.d.S., Sez. VI, 7 novembre 2005, n. 6152).

Sotto altro e concorrente profilo, è altrettanto evidente l’illegittimità delle prescrizioni in discorso, lì dove hanno imposto la realizzazione del confinamento fisico come misura di messa in sicurezza di emergenza, peraltro da eseguire in tempi brevissimi (dieci giorni dal ricevimento degli atti recanti le determinazioni della P.A.). Ed invero, la giurisprudenza ha più volte sottolineato come il richiamo all’esigenza di intervenire in via d’urgenza sia logicamente incompatibile con la prescrizione di un intervento, quale quello basato sul confinamento fisico, la cui esecuzione e messa in opera richiede tempi verosimilmente lunghi, che ne manifestano l’inidoneità sotto i profili dell’adeguatezza e della proporzionalità al conseguimento dello scopo (cfr. T.A.R. Puglia, Lecce, Sez. I, n. 2247/2007, cit.; T.A.R. Toscana, Sez. II, n. 1540/2009, cit.).

Per quanto sin qui detto, risulta altrettanto illegittima la prescrizione relativa al progetto di bonifica dell’area, giacché tale progetto avrebbe dovuto basarsi anch’esso sul confinamento fisico: è, infatti, evidente che l’imposizione della presentazione di un progetto di questo tipo presuppone la positiva soluzione della questione circa la legittimità o meno, nella vicenda de qua, di prescrivere il modello della barriera fisica: questione che, invece, deve avere soluzione negativa.

Da quanto sin qui detto si ricava, in definitiva, la fondatezza delle molteplici censure con le quali si contesta sotto i profili ora analizzati, direttamente o in via derivata, l’imposizione dell’intervento di confinamento fisico e più in particolare:

– dei motivi da I a V del ricorso originario R.G. n. 638/2008, nonché dei motivi da I a VI formulati con il secondo gruppo di motivi aggiunti al predetto ricorso;

– dei motivi da I a VI formulati con il primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008;

– dei motivi da I a VI del ricorso originario R.G. n. 1139/2009.

Debbono parimenti condividersi le doglianze con cui si contesta l’utilizzo da parte della P.A., quale limite di accettabilità della sostanza chimica denominata MTBE, del valore (10 µg /l per le acque sotterranee) indicato dall’Istituto Superiore della Sanità con nota prot. n. 57058 IA.I2 del 6 febbraio 2001.

Invero, la questione è stata ampiamente dibattuta dalla giurisprudenza, la quale si è divisa sul punto in almeno tre diversi orientamenti:

– per una prima tesi, il principio di precauzione (che consente di supplire ai ritardi del Legislatore) farebbe sì che la mancata inclusione della sostanza denominata MTBE nelle tabelle allegate al d.m. n. 471/1999 ed ora nelle tabelle allegate al d.lgs. n. 152/2006 sia irrilevante, non rappresentando, di per sé, un elemento che precluda di affermare la pericolosità di tale sostanza. Ciò consentirebbe alla P.A. – tenuto anche conto del principio di proporzionalità – di avvalersi dei valori limite prospettati con parere dell’Istituto Superiore della Sanità, pur in assenza di una puntuale previsione legislativa a tal riguardo (T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, Sez. I, 25 marzo 2010, n. 93);

– l’orientamento opposto ritiene, invece, che i parametri di riferimento non possano essere fissati o modificati in sede di Conferenza di Servizi o da pareri dell’I.S.S., dovendosi, invece, intervenire a mezzo del procedimento previsto dalla legge: la questione di metodo, quindi, sarebbe pregiudiziale rispetto alla stessa questione di merito (T.A.R. Campania, Napoli, 3 maggio 2004, n. 7756, peraltro relativa a sostanza chimica diversa dal MTBE);

– per una terza tesi, infine, occorre far leva sulla nota contenuta nell’allegato 1 al d.m. n. 471 cit., la quale – con una previsione a carattere generale, valevole anche per i valori di concentrazione limite accettabili nelle acque sotterranee – consente di adottare, per le sostanze non indicate in tabella, i valori di concentrazione limite accettabili riferiti alla sostanza tossicologicamente più affine (T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 13 novembre 2008, n. 1630). Ciò permetterebbe, applicando il principio di precauzione, di superare il problema del mancato inserimento della sostanza chimica nelle tabelle allegate al d.m. n. 471/1999 ed ora di quelle allegate al d.lgs. n. 152/2006, giacché sarebbe possibile ricorrere all’interpretazione analogica delle suddette tabelle (che non conterrebbero un’elencazione tassativa), basata sull’eadem ratio (T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, 9 ottobre 2009, n. 1738). La possibilità o meno di utilizzare il limite fissato con parere dell’I.S.S. dipenderebbe, in quest’ottica, dalla correttezza dell’operazione realizzata dall’Istituto (e pertanto, nella fattispecie in esame, dalla correttezza o meno dell’assimilazione del MTBE agli idrocarburi totali, effettuata dall’I.S.S. con la nota del 6 febbraio 2001 più sopra richiamata).

Questo Tribunale si è già espresso sulla questione, aderendo all’impostazione secondo cui la lacuna normativa non può essere colmata attraverso un’attività di integrazione analogica operata da organi consultivi quali l’Istituto Superiore di Sanità o dalla P.A. competente all’approvazione del progetto, a ciò ostando il limite dell’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997, che attribuisce in via esclusiva tale potere al Ministero dell’Ambiente (v. T.A.R. Toscana, Sez. II, 24 agosto 2010, n. 4875, con la giurisprudenza ivi citata). Nello stesso senso si sono espressi, del resto anche i giudici di appello (C.d.S., Sez. VI, 8 settembre 2009, n. 5256), che hanno sottolineato come l’integrazione, da parte del Ministero, sulla base dei pareri dell’I.S.S., dei valori tabellari dettati dal d.m. n. 471/1999 debba ritenersi illegittima, non avendo né l’I.S.S., né la Conferenza di Servizi alcun potere di integrare (ove certe sostanze, ad es. il MTBE, non siano specificamente previste) quanto già disposto da un regolamento approvato a seguito di apposita procedura ai sensi dell’art. 17 del d.lgs. n. 22/1997.

Negativa essendo, dunque, la soluzione prevalente in giurisprudenza circa la questione "di metodo", osserva nondimeno il Collegio che alla stessa conclusione negativa si giunge anche qualora si superi la predetta questione pregiudiziale, addivenendo all’esame della questione "di merito".

Nel caso di specie, infatti, anche se si aderisse all’opposto orientamento dell’utilizzabilità dei pareri dell’I.S.S. per colmare la lacuna normativa in esame, rimarrebbe ferma, comunque, la conclusione dell’illegittimità dell’operato della P.A.: ciò, in ragione dell’impossibilità (riconosciuta dallo stesso I.S.S., in un ulteriore parere del 2006) di assimilare il MTBE agli idrocarburi.

Ed invero, il metil terbutil etere (in sigla MTBE) è un composto organico di sintesi, derivante dal metanolo e dal 2metil2propanolo. Viene impiegato come additivo per la benzina per aumentarne il numero di ottani, in sostituzione del piombo tetraetile e del benzene, ed è prodotto per addizione elettrofila del metanolo all’isobutene, in presenza di un catalizzatore acido (cfr. T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, n. 1738/2009, cit.). La sua assimilazione agli idrocarburi, nel parere dell’I.S.S. di cui alla nota prot. n. 57058 IA.I2 del 6 febbraio 2001 assunta a base degli atti in questa sede impugnati, deriva dall’assimilazione del suo comportamento, sia dal punto di vista tossicologico, che di destino ambientale, ad un idrocarburo a catena lineare a basso numero di atomi di carbonio. Con successivo parere del 12 settembre 2006 (il cui contenuto è sintetizzato dalle decisioni giurisprudenziali appena ricordate), tuttavia, l’I.S.S. ha riveduto le sue valutazioni, escludendo che l’assimilazione del MTBE agli idrocarburi totali fosse dettata da affinità di tipo tossicologico, poiché il MTBE appartiene alla famiglia degli eteri e non è definibile come idrocarburo, e suggerendo che i valori limite del MTBE siano determinati non già sulla base dell'(erronea) affinità di tipo tossicologico con gli idrocarburi, ma del valore della soglia olfattiva: quest’ultimo, tuttavia, è parametro che comporta l’applicazione di limiti di concentrazione diversi, ricompresi in un "range tra 20 e 40 µg/l’ (cfr. C.d.S., Sez. VI, n. 5256/2009, cit.).

Alla luce di tali sviluppi, si deve concordare con quella giurisprudenza (T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. I, nn. 1630/2008 e 1738/2009, cit.), che ha giudicato insufficienti le spiegazioni dell’I.S.S. per fondare l’assimilazione del MTBE ai valori limite degli idrocarburi, concludendo per l’illegittimità del limite fissato nel richiamato parere del 2001 relativamente alle acque sotterranee (10 µg/l): ciò, in quanto, considerata la dubbia assimilazione tossicologica tra MTBE ed idrocarburi totali – come si è visto, smentita successivamente dallo stesso I.S.S. – il limite in discorso pare esser stato ispirato da un ingiustificato eccesso di prudenza, in violazione del principio di proporzionalità.

E va osservato, sul punto, come anche la giurisprudenza più favorevole ad ammettere, sulla base del principio di precauzione, l’integrazione della lacuna in discorso mediante i pareri dell’I.S.S. (T.A.R. Trentino Alto Adige, Trento, n. 93/2010, cit.) faccia comunque riferimento, per il MTBE, al parere del 12 settembre 2006 ed ai valori (il "range tra 20 e 40 µg/l’) in esso previsti, non già al parere del 6 febbraio 2001 ed al limite (10 µg/l) ivi stabilito.

In altre parole, è lo stesso I.S.S. a dar conto, nel parere del 12 settembre 2006, del superamento, per il MTBE, del limite originario di 10 µg/l per le acque sotterranee, frutto di una valutazione erronea (C.d.S., Sez. VI, n. 5256/2009, cit.): ove si consideri che il citato parere del 2006 è anteriore agli atti in questa sede gravati – e che quindi la P.A. avrebbe dovuto tener conto, nella Conferenza di Servizi decisoria del 30 ottobre 2007 ed in quelle successive, di detto revirement – risulta palese il difetto di istruttoria da cui sono affetti, sotto il profilo ora in esame, gli atti impugnati. Ne segue la fondatezza delle relative censure ed in particolare:

– dell’ottavo motivo del ricorso originario R.G. n. 638/2008, e del nono motivo formulato con il secondo gruppo di motivi aggiunti al predetto ricorso;

– del nono motivo dedotto con il primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008;

– del nono motivo del ricorso originario R.G. n. 1139/2009.

Da ultimo, deve essere condivisa la doglianza con cui la T.I. S.p.A. contesta la richiesta, per la verifica della contaminazione del terreno, di analisi riferite sia alla totalità del campione, sia alla frazione inferiore ai 2 mm., anziché di analisi soltanto sulla frazione inferiore ai 2 mm. e riferite alla totalità del campione. Il paragrafo "Analisi chimica dei terreni" dell’allegato 2 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152 cit., infatti, recita: "Ai fini di ottenere l’obiettivi di ricostruire il profilo verticale della concentrazione degli inquinanti nel terreno, i campioni da portare in laboratorio dovranno essere privi della frazione maggiore di 2 cm (da scartare in campo) e le determinazioni analitiche in laboratorio dovranno essere condotte sull’aliquota di granulometria inferiore a 2 mm", precisando, inoltre, che "la concentrazione del campione dovrà essere determinata riferendosi alla totalità dei materiali secchi, comprensiva anche dello scheletro". La norma impone, quindi, l’esecuzione delle analisi soltanto sulla frazione inferiore a 2 mm. e non anche sulla totalità del campione, come pare evincersi, invece, dagli atti impugnati. Ne discende la fondatezza del relativo motivo di gravame – rubricato come IX nel ricorso originario R.G. n. 638/2008, e come X nel secondo gruppo di motivi aggiunti a siffatto ricorso, nel primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008, e nel ricorso originario R.G. n. 1139/2009 – che deve, perciò, essere accolto.

Non possono essere condivise, invece, le censure con cui la società ricorrente lamenta l’illegittimità dell’equiparazione, ad opera degli atti impugnati, delle acque di falda emunte ai rifiuti (liquidi) e del conseguente assoggettamento di dette acque alla normativa in tema di rifiuti, con specifico riguardo all’obbligo di trattamento in impianti autorizzati ai sensi della suddetta normativa ed al divieto della loro reimmissione nella stessa unità geologica da cui sono state emunte.

Sostiene sul punto la ricorrente che le acque di falda emunte non costituiscono rifiuti e che, perciò, sono esonerate dal regime giuridico a questi applicabile, risultando assoggettate, invece, al regime specifico ex art. 243, comma 2, del d.lgs. n. 152/2006, che ne ammette la reimmissione nella falda previo trattamento.

Ad avviso della società, l’impossibilità di qualificare le acque emunte come rifiuti si desumerebbe anzitutto dal fatto che l’art. 243, comma 2, cit., nell’ammettere (come detto) la loro reimmissione nella falda, specifica che tale possibilità è "in deroga a quanto previsto dal comma 1 dell’art. 104" del d.lgs. n. 152/2006: se il Legislatore avesse inteso le acque emunte come rifiuti, avrebbe dovuto introdurre una deroga non all’art. 104, comma 1, cit. (norma che vieta lo scarico diretto nelle acque sotterranee e nel sottosuolo), ma all’art. 192, che è norma in tema di rifiuti (ponendo essa il divieto del loro abbandono incontrollato). Nello stesso deporrebbero pure le seguenti altre norme contenute nel d.lgs. n. 152/2006:

– l’art. 185, comma 1, lett. b), che sancirebbe l’incompatibilità tra la disciplina sui rifiuti (liquidi) e quella sugli scarichi idrici;

– l’art. 242, comma 7, che, con riferimento alle procedure di bonifica, richiamerebbe espressamente per le acque emunte dalla falda il regime normativo relativo agli scarichi (anziché quello proprio dei rifiuti);

– l’art. 74, lett. ff), quale disposizione che detta la definizione di "scarico".

Pertanto, la disciplina applicabile alle acque emunte sarebbe quella in tema di scarichi e non quella in tema di rifiuti (dirimenti essendo, al riguardo, non già le caratteristiche qualitative della sostanza scaricata, ma le modalità con cui lo scarico avviene) e ciò troverebbe conferma anche in un diffuso orientamento giurisprudenziale.

Ne discenderebbe l’illegittimità della prescrizione che impone alla ricorrente di trattare le suddette acque in impianti autorizzati ai sensi della vigente normativa sui rifiuti e l’ammissibilità – poc’anzi ricordata – della loro reimmissione in falda.

Con ulteriore motivo, la ricorrente lamenta poi l’insostenibilità per essa dal lato economico, nonché la dannosità sotto il profilo ambientale, della prescrizione in discorso: invece, la soluzione proposta dalla società (reimmissione delle acque nella stessa unità geologica dalla quale sono state emunte, previo trattamento che assicuri il rispetto dei limiti di emissione previsti per gli scarichi idrici dalla Tabella 2 dell’allegato 5 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006) rispetterebbe il principio di proporzionalità e nel contempo eliminerebbe gli impatti ambientali negativi.

Nella memoria conclusiva la T.I. S.p.A. torna sulla questione, per contestare le conclusioni cui in argomento perviene la giurisprudenza di segno opposto, sottolineando che:

– non convincerebbe l’argomento per il quale le acque emunte sono rifiuti, in quanto sostanze di cui il detentore deve disfarsi, poiché anche le acque di processo potrebbero essere considerate sostanze di cui il detentore si disfa;

– sarebbe irrilevante l’inclusione delle acque emunte nella voce Q4 dell’allegato A e nell’allegato D alla Parte IV del d.lgs. n. 152/2006, poiché da un lato l’allegato A avrebbe una funzione meramente descrittiva delle categorie di rifiuti e non sarebbe idoneo allo scopo di definire se un materiale è un rifiuto o meno, dall’altro, l’inclusione di un materiale nell’elenco dei rifiuti non ne comporterebbe automaticamente la qualificazione come rifiuto;

– infine, le acque emunte sarebbero sussumibili nella nozione di "acque reflue industriali" ex art. 74, comma 1, lett. h), del d.lgs. n. 152/2006, sia in quanto derivanti da ciclo produttivo, costituendo un impianto per l’emungimento delle acque sotterranee a tutti gli effetti un’installazione sita all’interno di un’area di produzione di beni, sia sotto l’aspetto formale, atteso che la nozione di "acque reflue industriali" includerebbe residualmente tutte le altre acque, diverse, sotto il profilo qualitativo, dalle acque reflue domestiche e dalle acque meteoriche di dilavamento.

Le doglianze ora riportate sono da disattendere.

La questione è stata già affrontata da questa Sezione in una recente decisione (T.A.R. Toscana, Sez. II, 19 maggio 2010, n. 1523), alle cui argomentazioni ci si riporta integralmente.

In particolare, si è notato come la classificazione delle acque emunte quali rifiuti discenda dal dato normativo desumibile dal diritto comunitario e da quello nazionale attuativo del primo.

Sotto il primo profilo, è fondamentale la decisione della Commissione Europea 3 maggio 2000, n. 532 – 00/532/CE (adottata in sostituzione delle precedenti decisioni contenenti l’elenco dei rifiuti conformemente alla direttiva n. 75/442/CEE, e dei rifiuti pericolosi conformemente alla direttiva n. 91/689/CEE). Nel dettare un elenco dei rifiuti pericolosi (contrassegnati da un asterisco) e di quelli non pericolosi, la decisione inserisce al n. 19 ("Rifiuti prodotti da impianti di trattamento dei rifiuti, impianti di trattamento delle acque reflue fuori sito, nonché dalla potabilizzazione dell’acqua e dalla sua preparazione per uso industriale", il n. 19.13 ("Rifiuti prodotti dalle operazioni di bonifica di terreni e risanamento delle acque di falda") e, in quest’ultimo, contrassegna:

– con il codice 19.13.07, i "rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda, contenenti sostanze pericolose";

– con il codice 19.13.08, i "rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda, diversi da quelli di cui alla voce 19.13.07".

L’elenco de quo è poi riprodotto nell’allegato D alla Parte IV del d.lgs. n. 152/2006 (e cioè la Parte del cd. Codice Ambiente che regolamenta la materia della gestione dei rifiuti e della bonifica dei siti inquinati, escludendone gli scarichi idrici tranne i rifiuti liquidi costituiti da acque reflue industriali: art. 185, comma 1, lett. b) del d.lgs. n. 152/2006, nel testo applicabile ratione temporis alla presente controversia). In detto allegato, perciò, risultano elencati i rifiuti di cui alla voce 19.13.07 e quelli di cui alla voce 19.13.08 sopra menzionati.

Ad avviso del Collegio, la suesposta elencazione normativa non consente di accedere alla soluzione prospettata dalla ricorrente e ciò tanto ove si riscontri in loco la presenza di sostanze pericolose (per le quali è applicabile il codice 19.13.07), quanto di sostanze non pericolose (cui si applica il codice 19.13.08).

Secondo quanto già affermato nella sentenza n. 1523/2010 cit., l’espressione "rifiuti liquidi acquosi e concentrati acquosi prodotti dalle operazioni di risanamento delle acque di falda" deve intendersi, infatti, come comprensiva delle acque contaminate emunte dalla falda, non potendosi sostenere che essa si limiti ai rifiuti derivanti dall’attività di trattamento delle acque emunte. A tale conclusione si perviene, innanzitutto, sulla base del criterio di interpretazione letterale: l’espressione "operazioni di risanamento delle acque di falda" è, invero, più ampia di quella di "trattamento" delle stesse ed è comprensiva anche dell’attività di emungimento di dette acque. Il concetto di "risanamento" deve, secondo il Collegio, essere inteso come sinonimo di "bonifica": perciò, le operazioni di risanamento includono tutte le operazioni di messa in sicurezza e, poi, di definitiva bonifica dell’area interessata, a partire proprio dall’emungimento delle acque di falda. Dal canto loro, le espressioni "rifiuti liquidi acquosi" e concentrati acquosi" non possono che intendersi come comprensivi delle acque emunte, proprio per il riferimento al carattere "acquoso" o comunque "liquido" della sostanza. Una diversa opzione interpretativa, quale quella volta a limitare la portata applicativa delle definizioni contenute nei codici 19.13.07 e 19.13.08 ai soli rifiuti derivanti dall’attività di trattamento delle acque emunte, potrebbe – nota la sentenza n. 1523/2010 – condurre a risultati contrastanti con il dettato normativo in esame: i rifiuti prodotti dall’attività di trattamento delle acque emunte potrebbero, invero, essere rifiuti solidi, come tali certo non rientranti nelle nozioni di cui ai codici 19.13.07 e 19.13.08. Donde l’impraticabilità di una siffatta opzione ermeneutica alternativa.

In secondo luogo e sul piano sistematico, va tenuto conto del già ricordato principio comunitario di precauzione e di cautela, alla stregua del quale deve essere ricostruita la ratio dell’art. 243 del d.lgs. n. 152/2006. Sulla base di detto principio, l’orientamento giurisprudenziale cui il Collegio ritiene di dover aderire (cfr. T.A.R. Sicilia, Palermo, Sez. I, 20 marzo 2009, n. 540) ha precisato che, sebbene l’art. 243 cit. introduca un peculiare regime diversificato per le acque di falda emunte nell’ambito di interventi di bonifica di siti inquinati, di per sé esso non può tuttavia reputarsi idoneo a parificarne il regime giuridico a quello proprio delle acque reflue industriali, almeno quanto all’autorizzazione ed alla gestione dei relativi impianti di trattamento. Una lettura sistematica della previsione normativa in esame, in combinato disposto con le altre norme interessate (in particolare, gli artt. 74, 108, 124, 125, 185, 210 e 242 del d.lgs. n. 152 cit.) non può, infatti, non tener conto della natura dell’oggetto dell’attività posta in essere: oggetto consistente, alla luce dei codici CER contenuti nella decisione comunitaria prima citata e riprodotti dallo stesso d.lgs. n. 152/2006, in rifiuti liquidi.

Quest’ultima considerazione va particolarmente valorizzata, anche al fine di respingere l’eventuale obiezione – del tutto erronea – per cui le voci di cui ai codici CER 19.13.07 e 19.13.08 dovrebbero essere coordinate con la disciplina speciale introdotta, per le acque di falda emunte, dall’art. 243 del d.lgs. n. 152/2006, più sopra ricordata. In adesione all’orientamento già espresso con la sentenza n. 1523/2010, deve, però, ribadirsi che l’operazione interpretativa da compiere è l’opposta, dovendosi provvedere al coordinamento della portata applicativa dell’art. 243 cit. con i codici CER ora citati: ciò, in ragione della previsione di detti codici a livello, prima ancora che nazionale, comunitario, e, quindi, per la prevalenza del diritto comunitario sulla fonte interna, subordinata (qui, l’art. 243 cit.). Né potrebbe obiettarsi che i codici CER in discorso sono stati elencati da una decisione comunitaria, peraltro in applicazione di una direttiva: la dottrina ha, infatti, chiarito che anche le decisioni rivolte agli Stati hanno un’efficacia diretta nei riguardi (almeno) degli Stati stessi, vincolando esse gli Stati destinatari a tenere un certo comportamento, con il corollario che sullo Stato destinatario incomberà l’obbligo di darvi puntuale esecuzione nel proprio ordinamento, seguendo le prescrizioni indicate. E ciò è quanto si è verificato nel caso di specie, attesa la riproduzione dei codici in parola nell’allegato D alla Parte IV del d.lgs. n. 152/2006. Donde l’impossibilità di accedere ad un’opzione ermeneutica della vigente normativa nazionale (in specie dell’art. 243 del d.lgs. n. 152/2006) contrastante con la definizione delle acque emunte quali rifiuti liquidi, derivante – si ripete – dai codici CER 19.13.07 e 19.13.08, elencati dalla decisione comunitaria del 3 maggio 2000, n. 532. E l’esigenza ineludibile di un’interpretazione della normativa nazionale conforme all’ora vista disciplina comunitaria si pone, analogamente, anche per le altre norme del cd. Codice Ambiente richiamate dall’odierna ricorrente (gli artt. 185, comma 1, lett. b), 242, comma 7, e 74, lett. ff), del d.lgs. n. 152/2006).

Sotto questo aspetto – riprendendo la sentenza n. 1523/2010 cit. – non può nemmeno accedersi alla spiegazione secondo cui l’art. 243 cit. avrebbe escluso le acque emunte dal novero dei rifiuti al fine di assicurare una maggiore cautela sul piano ambientale, e cioè al fine di ovviare agli inconvenienti ed ai rischi derivanti dall’ingente quantità di liquidi che, in caso contrario, dovrebbero continuare ad essere smaltiti (laddove invece la verifica del rispetto, da parte delle acque emunte, dei limiti propri degli scarichi permetterebbe un efficace controllo dell’impatto ambientale dell’operazione). Siffatta spiegazione risulta, in effetti, completamente irragionevole ed inattendibile, risolvendosi essa nella pretesa di escludere le acque emunte dall’operazione di risanamento a causa della scarsità di misure precauzionali prese (o che possono essere prese) dal responsabile: ma è evidente che costui si deve convenientemente attrezzare per detta operazione, prendendo tutte le precauzioni necessarie a tale scopo. Invero, l’assoggettamento delle acque al regime giuridico dei rifiuti, anziché a quello degli scarichi idrici, comporta un aumento della tutela e non una sua diminuzione – contrariamente a ciò che viene sostenuto nel settimo motivo del ricorso originario R.G. n. 638/2008 e ripetuto nell’ottavo motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti a tale ricorso, nell’ottavo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008 e nell’ottavo motivo del ricorso R.G. n. 1139/2009. Si deve, pertanto, concludere che la previsione di un trattamento più rigoroso, assicurando più elevati livelli di tutela ambientale, si rivela maggiormente conforme al principio di precauzione, di matrice comunitaria.

Ne consegue l’infondatezza delle doglianze ora in esame, non potendosi in alcun modo condividere neppure le argomentazioni avanzate dalla ricorrente nella memoria conclusiva.

In primo luogo, va respinta la tesi per la quale l’inclusione nell’elenco di rifiuti, in base ai suindicati codici CER, non comporterebbe che la sostanza inclusa costituisca automaticamente rifiuto. A detta argomentazione può replicarsi – alla luce di quanto già affermato nella sentenza n. 1523/2010 – che, di fronte alla precisa definizione dei "rifiuti liquidi" contenuta nei codici CER 19.13.07 e 19.13.08, non è ammissibile la soluzione per cui la disciplina applicabile alla fattispecie andrebbe individuata di volta in volta, in funzione delle esigenze di salvaguardia ambientale del caso concreto. Nemmeno può sostenersi che, poiché ogni refluo civile od industriale sarebbe di per sé inquadrabile all’interno di un codice, le definizioni contenute nei codici CER sopra riportati sarebbero irrilevanti e le acque emunte rimarrebbero scarichi, tranne che, per volontà del gestore o altra circostanza, non perdano le caratteristiche degli scarichi. È, invero, inammissibile rimettere alla semplice volontà del gestore la riconducibilità o meno delle acque emunte dalla falda alla nozione di "rifiuti liquidi" di cui ai codici CER 19.13.07 o 19.13.08 e, pertanto, alla disciplina ad essi applicabile, poiché ciò consentirebbe al privato di sottrarsi, a suo arbitrio, all’applicazione della disciplina comunitaria.

Dirimente è, poi, l’osservazione che le stesse norme invocate dalla società dimostrano come, ai fini che qui interessano, le acque emunte debbano qualificarsi come rifiuti: la T.I. S.p.A., infatti, a confutare l’importanza dell’inserimento delle citate acque nell’elenco dei rifiuti di cui all’allegato D al d.lgs. n. 152/2006, richiama l’introduzione di detto allegato, lì dove si legge che "l’inclusione di un determinato materiale nell’elenco non significa tuttavia che tale materiale sia un rifiuto in ogni circostanza", atteso che "la classificazione del materiale come rifiuto si applica solo se il materiale risponde alla definizione di cui all’articolo 1, lettera a), della direttiva 75/442/CE". Poiché, però, la più volte menzionata decisione comunitaria 3 maggio 2000, n. 532, nel dettare l’elenco dei rifiuti, in conformità alla direttiva n. 75/442/CEE (oltre che dei rifiuti pericolosi in conformità alla direttiva n. 91/689/CEE), riporta i codici 19.13.07 e 19.13.08, è evidente, ad avviso del Collegio, la volontà del Legislatore comunitario di includere le acque emunte dalla falda tra i rifiuti liquidi. Le definizioni di cui ai codici CER ora ricordati – riportate anche nell’allegato D alla Parte IV del d.lgs. n. 152/2006 – valgono, inoltre, a superare l’argomento della troppa genericità e del carattere soltanto descrittivo della nozione di "rifiuti" contenuta nell’allegato A alla predetta Parte IV (evidenziato in particolare dal carattere omnicomprensivo della voce Q16 di tale allegato): ai fini che qui interessano, infatti, si deve avere riguardo all’elenco delle sostanze contenuto nell’allegato D, in aggiunta a quello dettato dall’allegato A.

Ancora, è agevole replicare all’argomento per cui, ai fini della qualificazione delle acque emunte in chiave di rifiuti, è irrilevante che di esse ci si debba disfare, ben potendo le acque di processo essere considerate sostanze di cui il detentore si disfa. In realtà, la non riutilizzabilità delle acque emunte e, quindi, l’esigenza di disfarsene, è elemento probatorio che si aggiunge alle definizioni contenute nei codici 19.13.07 e 19.13.08 e che pertanto, considerata non da sola, ma unitamente a tali definizioni, vieppiù conferma la classificazione di dette acque come rifiuti.

Infine, è evidente che le acque emunte dalla falda non derivano direttamente da un ciclo produttivo (con cui hanno una connessione labile e del tutto indiretta) e, dunque, non si possono ricondurre alla definizione di "acque reflue industriali" ex art. 74, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006. A nulla vale, in contrario, il criterio formale della natura residuale di tale definizione, che deve essere contemperata con le altre definizioni normative più sopra menzionate, dalle quali si desume la sussunzione delle acque di falda emunte nel novero dei rifiuti liquidi.

Il Collegio è ben consapevole dell’esistenza di un orientamento giurisprudenziale di segno opposto a quello fin qui illustrato, richiamato dalla società ricorrente nelle sue difese, che è imperniato sulla disciplina speciale ex art. 243 del d.lgs. n. 152 cit. e che ha recentemente trovato recepimento in una decisione del Consiglio di Stato (C.d.S., Sez. VI, n. 5256/2009, cit.).

Secondo questo orientamento, peraltro niente affatto consolidato (cfr. le osservazioni che sul punto formula T.A.R. Sicilia, Palermo, n. 540/2009, cit.), deve distinguersi tra acque emunte dalla falda e posteriormente reimmesse in questa, alle quali si applicherebbero i valori di contaminazione di cui al d.m. n. 471/1999, ed acque emunte non destinate alla reimmissione, per le quali sarebbe, invece, sufficiente, ai sensi dell’art. 243 cit., l’osservanza dei limiti di emissione stabiliti per le acque reflue industriali, allorché vengano scaricate in acque superficiali. Il Collegio, tuttavia, ritiene di dissentire motivatamente da tale orientamento, per le ragioni più sopra esposte ed anche giacché la distinzione tra acque reimmesse ed acque non reimmesse in falda, non è accolta dalla decisione comunitaria n. 532 del 2000: le definizioni riportate nei codici 19.13.07 e 19.13.08, ivi elencati, non contengono alcuna distinzione – ai fini della qualificazione delle acque prodotte dalle operazioni di risanamento della falda come rifiuto liquido – che sia basata sul destino di tali acque. Tutte le acque derivanti da dette operazioni, che siano destinate o meno ad essere reimmesse nella falda, secondo la disciplina comunitaria restano rifiuti liquidi: esse, perciò, vanno assoggettate al trattamento dettato per questi ultimi, senza alcuna distinzione e, soprattutto, senza che ci si possa rimettere in proposito alla scelta discrezionale ed arbitraria del responsabile, come discenderebbe, per il Collegio, dall’orientamento qui criticato.

Peraltro, anche alla stregua della giurisprudenza ora riportata, pur se si accedesse alla pretesa della ricorrente di reimmettere nella falda le acque emunte, a queste dovrebbero applicarsi, comunque, i valori di contaminazione di cui al d.m. n. 471/1999. Dunque, di reimmissione nella falda potrebbe, se del caso, parlarsi ove la T.I. S.p.A. fosse disposta ad accollarsi l’onere di assoggettare le acque emunte dalla falda al trattamento in impianti autorizzati secondo la vigente normativa in tema di rifiuti e cioè proprio l’onere che la società intende evitare con le doglianze in esame (tanto è vero che la soluzione da essa proposta comporta il rispetto dei limiti di emissione previsti per gli scarichi idrici dalla Tabella 2 dell’allegato 5 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006). Se ne desume l’infondatezza dei motivi tramite i quali tali doglianze sono state dedotte, e precisamente:

– il sesto ed il settimo motivo del ricorso originario R.G. n. 638/2008, nonché il settimo e l’ottavo motivo del secondo gruppo di motivi aggiunti a tale ricorso;

– il settimo e l’ottavo motivo del primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008;

– il settimo e l’ottavo motivo del ricorso originario R.G. n. 1139/2009.

In definitiva, effettuata la riunione dei ricorsi indicati in epigrafe e dichiarati inammissibili i ricorsi R.G. n. 1706/2008 e R.G. n. 608/2010, nonché il primo e terzo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008, il secondo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008 ed i motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1139/2009, i rimanenti gravami (ricorso originario R.G. n. 638/2008 e secondo gruppo di motivi aggiunti allo stesso; primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008; ricorso originario R.G. n. 1139/2009) devono essere accolti nella parte in cui sono volti a censurare le prescrizioni, recate dagli atti impugnati, concernenti:

la richiesta di integrare il sistema di messa in sicurezza d’emergenza della falda già adottato, con la realizzazione di una barriera di contenimento fisico in aggiunta al sistema di emungimento "lungo il fronte del P.V." (punto vendita) "a valle idrogeologico dell’area", nonché di presentare un progetto di bonifica delle acque di falda basato sul confinamento fisico dell’intera area;

l’adozione, quale valore di riferimento per il MTBE, del limite previsto dalla note dell’I.S.S. prot. n. 57058 IA.I2 del 6 febbraio 2001;

la richiesta, per la verifica della contaminazione del terreno, di analisi riferite sia alla totalità del campione, sia alla frazione inferiore ai 2 mm.

Per conseguenza, le suddette prescrizioni devono essere annullate.

I ricorsi in parola non possono, invece, trovare accoglimento nella parte in cui censurano il diniego, espresso negli atti impugnati, alla richiesta della società di reimmissione delle acque emunte nella falda, senza sottoporre le acque stesse al trattamento in impianti autorizzati ai sensi della normativa vigente in tema di rifiuti, ma garantendo (solo) il rispetto dei limiti di cui alla Tabella 2 dell’allegato 5 alla Parte IV – Titolo V del d.lgs. n. 152/2006.

Deve essere, inoltre, respinta la domanda di risarcimento dei danni avanzata dalla ricorrente, perché rimasta del tutto sfornita di apparato probatorio. Si ricorda, sul punto, che, secondo l’insegnamento della giurisprudenza costante (cfr., ex multis, C.d.S., Sez. VI, 23 marzo 2009, n. 1716), in materia di risarcimento del danno, vertendosi in tema di diritti soggettivi, trova piena applicazione il principio dell’onere della prova, e non, invece, l’onere del principio di prova che, almeno tendenzialmente, si applica in materia di interessi legittimi.

Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo nei confronti dei Ministeri e degli Enti costituiti, ritenuti prevalenti i profili di accoglimento del gravame, rispetto a quelli di sua reiezione, mentre si fa luogo a compensazione delle spese nei confronti delle Amministrazioni non costituite e delle controinteressate, parimenti non costituite.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana – Seconda Sezione – così definitivamente pronunciando sui ricorsi indicati in epigrafe, e dispostane previamente la riunione:

a) dichiara inammissibili i ricorsi R.G. n. 1706/2008 e R.G. n. 608/2010, il primo ed il terzo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 638/2008, il secondo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008 ed i motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1139/2009;

b) accoglie il ricorso originario R.G. n. 638/2008, il secondo gruppo di motivi aggiunti a questo, il primo gruppo di motivi aggiunti al ricorso R.G. n. 1706/2008, nonché il ricorso originario R.G. n. 1139/2009, nei limiti analiticamente specificati in motivazione, per l’effetto annullando gli atti con essi impugnati, sempre nei limiti specificati in motivazione;

c) respinge la domanda di risarcimento dei danni.

Condanna indivisamente i Ministeri dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, della Salute e dello Sviluppo Economico, l’I.S.P.R.A. e l’Istituto Superiore della Sanità al pagamento in favore della società ricorrente delle spese e degli onorari di causa, che liquida in misura forfettaria in complessivi Euro 6.000,00 (seimila/00), più accessori di legge.

Compensa integralmente le spese ed onorari nei confronti delle parti non costituite.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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