Cass. civ. Sez. VI, Sent., 26-01-2012, n. 1138 Diritti politici e civili

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

I ricorrenti indicati in rubrica hanno proposto separati ricorsi per cassazione, sulla base di tre motivi illustrati con memoria, nei confronti del Ministero dell’Economia e delle Finanze avverso il decreto in data 18 novembre 2009, con il quale la Corte di appello di Trieste ha rigettato le domande di equa riparazione per violazione del termine ragionevole di durata di un giudizio da loro promosso davanti al Tar Lazio con ricorso del 19 dicembre 1995, definito con sentenza del 13 marzo 2003, appellata davanti al Consiglio di Stato con gravame ancora pendente alla data della domanda introduttiva del giudizio per equa riparazione (22 maggio 2009).

La Corte di merito ha fondato la propria decisione sul presupposto che i ricorrenti non potessero non avere consapevolezza dell’esito sfavorevole della lite, come si desume dalla parte motiva della sentenza del Tar Lazio, con conseguente esclusione di qualsiasi sofferenza o patema d’animo per la durata del processo.

Il Ministero intimato ha resistito con separati controricorsi.

All’odierna udienza è stata disposta, a norma dell’art. 335 c.p.c., la riunione dei ricorsi in quanto attinenti all’impugnazione del medesimo provvedimento.

Nella camera di consiglio il collegio ha deliberato che la motivazione della sentenza sia redatta in forma semplificata.

Motivi della decisione

Con i primi due motivi ciascuno dei ricorrenti, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, si duole che la Corte di appello abbia rigettato la domanda di equa riparazione, affermando che la consapevolezza, da parte dei ricorrenti medesimi, dell’esito sfavorevole della lite da loro promossa escludeva la sussistenza del patema d’animo di cui hanno chiesto il ristoro. I motivi sono fondati.

Infatti, in caso di violazione del termine di durata ragionevole del processo, il diritto all’equa riparazione di cui alla L. n. 89 del 2001, art. 2 spetta a tutte le parti del processo, indipendentemente dal fatto che esse siano risultate vittoriose o soccombenti e dalla consistenza economica ed importanza del giudizio, a meno che l’esito del processo presupposto non abbia un indiretto riflesso sull’identificazione, o sulla misura, del pregiudizio morale sofferto dalla parte in conseguenza dell’eccessiva durata della causa, come quando il soccombente abbia promosso una lite temeraria, o abbia artatamente resistito in giudizio al solo fine di perseguire proprio il perfezionamento della fattispecie di cui al richiamato art. 2, e dunque in difetto di una condizione soggettiva di incertezza, restando irrilevante l’asserita consapevolezza da parte dell’istante della scarsa probabilità di successo dell’iniziativa giudiziaria.

Dell’esistenza di queste situazioni, costituenti abuso del processo, deve dare prova puntuale l’Amministrazione, non essendo sufficiente, a tal fine, la deduzione che la domanda della parte sia stata dichiarata manifestamente infondata (Cass. 2006/7139; 2008/24269;

2010/9938).

La Corte di appello di Trieste – nel rigettare i ricorsi osservando che i ricorrenti non potevano non avere consapevolezza dell’esito sfavorevole della lite, come si desume dalla parte motiva della sentenza del Tar Lazio, con conseguente esclusione di qualsiasi sofferenza o patema d’animo per la durata del processo – non si è uniformata agli orientamenti sopra enunciati e il decreto impugnato deve essere conseguentemente annullato. Resta assorbito il terzo motivo di ricorso, con il quali i ricorrenti si dolgono dell’eccessivo importo delle spese processuali liquidate a loro carico, dovendosi comunque procedere, in conseguenza dell’annullamento del decreto impugnato, ad una nuova liquidazione delle spese del giudizio di merito.

Non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 c.p.c., comma 2. Si deve, in primo luogo, osservare che non si rinvengono in atti elementi che, alla stregua del principio in precedenza richiamato, consentano di ritenere che i ricorrenti abbiano promosso, con abuso del processo, una lite temeraria in difetto di una condizione soggettiva di incertezza e che pertanto non si sia nella specie verificato il pregiudizio morale conseguente all’eccessiva durata della causa, tenuto conto che questo si verifica di regola come effetto della violazione medesima e non abbisogna di essere provato sia pure attraverso elementi presuntivi (Cass. 2005/21088;

2006/7139). Rilevato che il giudizio presupposto è stato promosso davanti al Tar Lazio con ricorso del 19 dicembre 1995, definito con sentenza del 13 marzo 2003, appellata davanti al Consiglio di Stato con gravame ancora pendente alla data della domanda introduttiva del giudizio per equa riparazione (22 maggio 2009), la durata complessiva di tale giudizio va stabilita in tredici anni e sette mesi, con conseguente superamento nella misura di otto anni e sette mesi del termine ragionevole di durata, determinato in tre anni per il giudizio di primo grado e in due anni per quello di appello, alla stregua dei parametri fissati dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo e della Corte di cassazione.

In ordine al criterio per indennizzare la parte del danno non patrimoniale subito nel processo presupposto va considerato che la CEDU, in due decisioni (Volta et autres c. Italia, del 16 marzo 2010;

Falco et autres c. Italia, del 6 aprile 2010) ha ritenuto che potessero essere liquidate, a titolo di indennizzo per il danno non patrimoniale da eccessiva durata del processo, in relazione ai singoli casi e alle loro peculiarità, somme complessive d’importo notevolmente inferiore a quella di mille Euro annue normalmente liquidata, con valutazioni del danno non patrimoniale che consentono al giudice italiano di procedere, in relazione alle particolarità della fattispecie, a valutazioni più riduttive rispetto a quelle in precedenza ritenute congrue (v. Cass. 2010/14753; 2010/15130).

Nel caso di specie – considerati i margini di valutazione equitativa adottabili in conformità dei criteri ricavabili dalla sopra menzionata giurisprudenza della CEDU e valutate le specificità del caso in relazione al protrarsi della procedura dinanzi al Tar Lazio oltre i limiti ragionevoli di durata, tenuto conto, in particolare, che nè dal decreto impugnato nè dai ricorsi per cassazione risulta l’avvenuto deposito, nel giudizio presupposto, di istanze sollecitatorie di parte – a ciascuno dei ricorrenti va liquidata in via equitativa, per danno non patrimoniale, la somma di Euro 7.000,00 con gli interessi legali dalla domanda, al cui pagamento deve essere condannato il Ministero soccombente.

Le spese del giudizio di merito e quelle del giudizio di cassazione seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo, in base alle tariffe professionali previste dall’ordinamento italiano con riferimento al giudizio di natura contenziosa (Cass. 2008/23397;

2008/25352) e tenuto conto della pluralità di ricorrenti, che però nel giudizio presupposto e in quello di merito davanti alla Corte di appello di Trieste hanno agito unitariamente (cfr. Cass. 2010/10634).

P.Q.M.

La Corte accoglie i primi due motivi, assorbito il terzo. Cassa i decreti impugnati e, decidendo nel merito, condanna il Ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento in favore di ciascuno dei ricorrenti della somma di Euro 7.000,00, oltre agli interessi legali dalla domanda.

Condanna il Ministero soccombente al pagamento in favore dei ricorrenti delle spese del giudizio di merito, che si liquidano in Euro 2.850,00 di cui Euro 2.000 per competenze ed Euro 50,00 per esborsi, oltre a spese generali e accessori di legge.

Condanna inoltre il Ministero soccombente al pagamento in favore dei ricorrenti delle spese del giudizio di cassazione, che si liquidano in Euro 1.000, di cui Euro 900,00 per onorari, oltre a spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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