Cass. pen. Sez. feriale, Sent., (ud. 06-09-2011) 20-09-2011, n. 34340

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con sentenza dell’8 luglio 2008, il Gup di Napoli affermava, fra gli altri, la responsabilità di Sa.Ci., D.B.L., D.B.R., A.M., P.S., P.C., S.R., C.G., Sc. S., S.G., imputati tutti del delitto di cui all’art. 416 bis c.p.p. per aver fatto parte del clan denominato Di Biasi o dei Faiano, operante nei quartieri (OMISSIS) e dedito ad estorsioni, controllo del gioco clandestino e del traffico di stupefacente, nonchè ciascuno di specifici reati quali estorsioni, favoreggiamento, intralcio alla giustizia ed induzione a non rendere dichiarazioni alla giustizia, come indicati nella epigrafe della decisione, commessi fino al (OMISSIS). La Corte di Appello di Napoli, con pronuncia del 9 giugno 2009, ribadiva la responsabilità di costoro ed riconosciuto il vincolo della continuazione fra tutti i reati rispettivamente ascritti agli imputati, procedeva a rideterminarne le pene. Osservava in motivazione che l’impianto accusatorio costituito, da intercettazioni ambientali e dalle propalazioni dei collaboratori di giustizia, aveva dimostrato la esistenza di un gruppo camorristico facente capo a D. B.M. ed a S.R., riorganizzatosi a far tempo dal 2005, dopo la scarcerazione dei detti componenti. Costoro avevano ripreso la supremazia sul territorio, sia eliminando fisicamente i loro antagonisti, sia ponendo in essere estorsioni ai danni dei commercianti del quartiere, sia richiedendo tangenti sui proventi dei fatti delittuosi commessi da altri, sia dedicandosi allo spaccio di stupefacenti, al lotto clandestino ed alla contraffazione di marchi.

La struttura aveva una cassa comune, con cui distribuiva stipendi agli affilati, aveva possesso e disponibilità di armi, ed un preciso organigramma che vedeva in posizione apicale S.R. e D. B.L., mentre ciascuno dei rimanenti imputati aveva tenuto una precisa e fattiva condotta partecipativa. Erano provati, ancora, i singoli reati fine, in base al contributo dei propalanti, confermati dai riscontri esterni, forniti dalle stesse parti offese e dalle ammissioni degli imputati. Negava che per le loro collaborazioni, sopravvenute al processo, S.R. e S.S. fossero meritevoli della speciale attenuante e procedeva a ricalcolo delle pene in conseguenza dei ritenuti concorsi formali per tutti gli appellanti.

2. Ricorrono i nominati imputati e deducono:

a) Sa.Ci., collaboratore di giustizia, si duole per il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, affidato a motivazione di stile e senza alcuna logicità e coerenza. b) D.B.R. propone due ricorsi: il primo, a ministero del difensore, contesta la declaratoria di non impugnabilità della ordinanza dibattimentale che ha rigettato la richiesta di incidente probatorio in prime cure e rileva che la Corte di Appello ha errato sul punto.

Con il secondo motivo lamenta che la motivazione è meramente apodittica e non affronta i nodi posti alla sua attenzione con il gravame concernenti la valutazione della chiamata di correo, del riscontri e la impossibilità di tenere una condotta partecipativa, stante la sua carcerazione. Si duole anche della eccessività del trattamento sanzionatorio e rileva errori nel calcolo della pena. c) Lo stesso D.B., insieme a D.B.L., A. M., P.S., P.C. propone altro ricorso con cui viene dedotta la violazione dell’art. 192 c.p.p., in tema di configurabilità del reato associativo con riguardo alle chiamate in correità che, non sono state vagliate sotto il profilo della credibilità soggettiva dei propalanti, e sotto quello della loro intrinseca veridicità. Rilevano i ricorrenti che gli imputati di reato connesso erano soggetti per lo più tossicodipendenti, dalla personalità deviata e opportunistica; mancherebbe anche la verifica della credibilità oggettiva e la pronuncia in assenza di riscontri oggettivi ed estrinseci si sarebbe affidata al criterio della convergenza del molteplice, trascurando che ciascuna delle propalazioni non ha in realtà indicato fatti specifici da cui desumere il ruolo dinamico di ciascuno degli imputati; con il secondo motivo che si riallaccia al primo, è dedotta la erroneità della decisione nella valutazione delle prove, che aveva dato luogo alla non condivisibile affermazione della esistenza del clan camorristico operante nei ed (OMISSIS). Con il terzo motivo, sempre in relazione alla associazione, si rileva la mancanza di prova sulla realizzazione degli eventi tipicizzanti tale delitto, non bastando la mera frequentazione fra imputati per desumere il metodo mafioso e la imposizione del controllo; con il 4^ motivo, si denuncia la insussistenza della aggravante delle armi, per mancanza di prova di effettiva disponibilità delle stesse e con il quinto la erronea applicazione della disciplina della recidiva; non esisterebbero elementi sintomatici di maggiore pericolosità, dato che gli imputati sono gravati di pochi precedenti non specifici; la recidiva obbligatoria ex art. 9, comma 5 non giocherebbe, poichè comunque dovrebbe valutarsi la significatività dei precedenti, non bastando al riguardo la commissione di un fatto contemplato dall’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a; sostengono i ricorrenti che anche nella obbligatoria c’è un margine valutativo e che secondo un interpretazione costituzionalmente orientata il nuovo reato debba avere caratteri comuni con i precedenti.

Con il sesto motivo, per quanto riguarda la commisurazione della pena, i ricorrenti si dolgono della inadeguatezza della motivazione, specie per il diniego delle generiche, e con il settimo censurano la motivazione ritenuta carente in ordine alla applicazione delle misure di sicurezza ed in particolare quella della casa di lavoro.

In ultimo si deduce dal D.B. l’erroneità della motivazione in ordine alla affermata responsabilità per il capo N, non essendo emerso il dolo specifico nè alcun elemento costitutivo del reato, posto che le minacce sono state rivolte a persone diverse dai collaboratori di giustizia.

Il D.B.R. ha, inoltre, depositato memoria, con motivi aggiunti, inerenti al già denunciato difetto di adeguata motivazione sui presupposti della sua condanna. d) S.R.:

si duole perchè non gli è stata riconosciuta la attenuante ex L. n. 203 del 1991, art. 8 e sulla mancata prevalenza delle concesse attenuanti generiche con motivazione insufficiente ed incoerente, e) C.G.:

ripropone la questione sulla possibilità, che gli è stata negata di revocare a seguito di nuove emergenze (nel suo caso la collaborazione di S.R.) la richiesta di processo alternativo e deduce difetto di motivazione in ordine alla valutazione delle prove riprendendo le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e mettendone in evidenza le discrasie. f) S.S.:

Enuncia che, con assoluto difetto di motivazione, avvenuta per relationem rispetto alla analoga posizione di S.R., gli sia stata negata la concessione della attenuante speciale. g) S.G., che ha proposto motivo analogo a quello che precede, ponendo l’accento su una diversa interpretazione della missiva indirizzata ad un altro collaboratore, la cui scoperta aveva influito negativamente sulla sua attendibilità, ha con successiva istanza rinunziato al ricorso.

Motivi della decisione

I ricorsi sono da dichiarare inammissibili, con le consequenziali statuizioni in tema di spese ed ammenda da versare alla cassa. Per il D.B. è però da rilevare la esattezza dei rilievi relativi alla determinazione della pena, con conseguente ricalco della stessa e tanto incide sul criterio delle spese dal cui pagamento va esentato.

1. I ricorsi dei collaboratori di giustizia.

I gravami del Sa. e degli S. sono sostanzialmente centrati sul trattamento sanzionatorio, in relazione alla cui determinazione, non può che preliminarmente ribadirsi la insindacabilità da parte di questa Corte, delle valutazioni di merito compiute dal giudice di secondo grado in detta materia, purchè espresse con adeguato iter argomentativo. Nella specie è poi da osservare;

1. Sa.Ci.:

Rammentato che la concessione o meno delle attenuanti generiche rientra nell’ambito di un giudizio di fatto rimesso alla discrezionalità del giudice, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del reo, non ha alcun fondamento la doglianza di inadeguatezza della motivazione, posto che la corte di merito ha fatto esplicito riferimento alla gravità dei fatti commessi dal Sa. quale criterio per escludere la meritevolezza del beneficio.

E’ da mettere in evidenza poi che tali attenuanti non vanno intese come oggetto di una benevola concessione da parte del giudice, nè l’applicazione di esse costituisce un diritto in assenza di elementi negativi, ma la loro concessione deve avvenire come riconoscimento della esistenza di elementi di segno positivo, suscettibili di positivo apprezzamento (Cass. Sez. 1, 4-11-2004 n. 46954). Nel caso di specie, con i motivi di appello l’imputato si era limitato ad invocare in modo del tutto generico la concessione del beneficio ex art. 62 bis c.p., senza indicare alcun elemento meritevole di favorevole valutazione. Il giudice del gravame, pertanto, nell’esame della doglianza, non era tenuto a un pregnante onere di motivazione.

2. S.R., S.G. e S.S.:

I tre si sono doluti essenzialmente della mancata concessione della attenuante speciale, che come è noto , presuppone per la sua operatività, ex art. D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 8, convertito con L. 12 luglio 1991, n. 203, che l’attività di collaborazione con la giustizia venga effettivamente esplicata, sicchè deve escludersene l’applicazione quando la dissociazione riguardi fatti diversi da quelli in relazione ai quali l’attenuante s’invoca, ovvero quando il contributo intervenga in presenza di un quadro probatorio che aveva già consentito l’individuazione dei concorrenti nel reato.

(fra le tante Sez. 5, Sentenza n. 33373 del 25/06/2008 Ud. (dep. 12/08/2008).

Tale è il caso in esame, poichè, per come esposto nella impugnata sentenza, nessun dato significativo era pervenuto dalle indicate collaborazioni, sopravvenute al processo, in una fase di in cui, peraltro, si era già avuta la piena discovery delle prove e si era dato corso al rito abbreviato, con accettazione da parte degli imputati dei risultati probatori acquisiti.

La motivazione, perfettamente in linea con il sopra richiamato orientamento interpretativo, coerente dal profilo logico ai fatti, non è quindi sindacabile. Anche per quanto riguarda il S., non può avere ingresso la censura di illogicità della pronuncia per avere contraddittoriamente concesso le attenuanti generiche e non anche quella speciale, poichè il ricorrente sottende una rinnovata valutazione dei fatti, che certo non è consentita in questa sede;

resta da ribadire ancora la differenza di presupposti per la concessione delle generiche e l’attenuante speciale, per cui non è incompatibile il diniego della seconda pur in presenza della concessione delle prime, specie considerando la puntuale motivazione sulla questione resa dal giudice di merito.

3) D.B.R. e 4) D.B.L., A.M., P.S., P.C. le posizioni possono essere esaminate congiuntamente, posto che alcuni dei temi sono assolutamente coincidenti.

E’ da dichiarare la inammissibilità di tutti i ricorsi, con la precisazione dianzi enunciata per la determinazione della pena, ferma restando la infondatezza della impugnazione del D.B. per i restanti motivi, a) L1 eccezione procedurale del solo D.B. R.:

E’ da rigettare il motivo relativo alla violazione dell’art. 596 c.p.p., in relazione alla negata impugnabilità della ordinanza dibattimentale, che in prime cure aveva rigettato la richiesta di incidente probatorio da egli avanzata. Secondo il ricorrente, la corte distrettuale non poteva limitarsi alla mera declaratoria negativa, ma doveva esaminare nel merito la richiesta.

Invero, il D.B., che pure da atto della esattezza del principio di diritto richiamato nella decisione di merito, non formula un compiuto e specifico motivo, giacchè non enuncia nemmeno genericamente quale incidenza concreta abbia avuto la mancata ammissione del mezzo probatorio sulla sua posizione. Tale notazione, che senz’altro sarebbe esaustiva per la declaratoria di rigetto, è ancora da accompagnare dalla osservazione che il ricorrente aveva chiesto di accedere al rito abbreviato, con la conseguente accettazione di tutto il materiale probatorio fino a quel momento raccolto, che rappresenta il limite oltre il quale il quadro a suo carico non è più modificabile, salvo il potere di integrazione ex officio, che egli come tale avrebbe solo potuto sollecitare e che il giudice ha peraltro escluso, non ritenendo, motivatamente, sussistere alcuna necessità. b) i motivi attinenti la responsabilità:

Parimenti infondate sono le doglianze successive, relative alla vantazione del materiale raccolto a suo carico, costituito come detto da dichiarazioni eteroaccusatorie provenienti da coimputati e dai consequenziali riscontri. In realtà, con entrambi i ricorsi, sul punto di identico tenore, il D.B. ed i rimanenti ricorrenti, D.B.L., A.M., P.S., P.C., che si sono avvalsi di un unico difensore, nel richiamare la violazione dell’art. 192 c.p.p. prospettano censure di merito, tentando di introdurre il ragionevole dubbio della inesistenza del fatto associativo e da questo anche il dubbio della loro partecipazione.

Nella concreta fattispecie, invero, le censure esorbitano dai limiti della critica al governo dei canoni di valutazione della prova, per tradursi nella prospettazione del fatto storico alternativa a quella fatta argomentatamente propria dal giudice del merito e nell’offerta di una diversa (e per i ricorrenti pia favorevole) valutazione delle emergenze processuali e del materiale probatorio (cfr. in argomento Sez. 5, 19 maggio 2005, Rossi), mentre "l’indagine di giustificativa della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l’esistenza di un logico apparato argomentativo, senza la possibilità di verificarne la rispondenza alle acquisizioni processuali. E’ da aggiungere che l’illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi" (Sez. un., 24 novembre 1999, Spina, in Cass. pen., 2000, p. 862; Sez. un., 24 settembre 2003 n. 47289, RV 226074) e che, anche dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., lett. e), al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti rimanendo oggetto di tale giudizio la contrarietà di un provvedimento a norme di legge ed estraneo ad esso, invece, il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Sez. 5, 22 marzo 25006, Cugliari).

Ciò posto, nessun vizio è riscontrabile nella parte della sentenza impugnata che è pervenuta alla conferma della statuizione di primo grado in relazione ai reati in questione attraverso la considerazione delle varie prove acquisite e la corretta radicazione del significato dimostrativo loro attribuito dal giudice. In particolare, va evidenziato che – trattandosi, in relazione ai capi in esame, di c.d.

"doppia conforme" – la motivazione della sentenza di appello si salda con quella di primo grado per formare un unico complesso corpo argomentativo" (Sez., 6, sent. n. 8868 del 2000) e dalla motivazione della sentenza del Tribunale si evince che il giudice del merito ha – con accertamento incensurabile in questa sede perchè congruamente motivato individuato gli elementi decisivi per riscontrare l’ipotesi accusatoria.

Infatti, a prescindere dal rilievo che il D.B.R., come anche gli indicati rimanenti ricorrenti, non si confronta dialetticamente con le pronunce di merito e non indica in quali passaggi, sia stata abbandonata la corretta tecnica argomentativa e la adeguata valutazione dei fatti, la corte ha, in risposta ai suoi motivi di appello, posto in luce che la posizione di costui era attinta da plurime chiamate in reità sul punto tutte convergenti e quindi idonee a delinearne il ruolo associativo ed a riscontrarlo;

ha, poi, specificatamente osservato che le obbiezioni del D.B. sulla incidenza negativa del suo stato di detenzione sullo stato di associato, era da superare in base alla considerazione che,comunque,egli non si era dissociato durante tale restrizione, tant’è che appena cessata la detenzione aveva ripreso la sua attività criminale in favore del clan. E’ noto, poichè risalente e consolidato, il principio affermato da questa corte secondo cui se una organizzazione criminale di tipo mafioso richieda ai partecipi la loro definitiva adesione, fino a quando non abiurino o vengano a morte, la perdurante appartenenza al gruppo di persona della quale sia provata l’affiliazione può essere correttamente ritenuta in qualunque momento, se manchi la notizia di una sua intervenuta dissociazione, anche in assenza della prova di condotte attualmente riferibili al fenomeno associativo, ed anche nel caso di arresto e di condanna, con il temperamento che, poichè la condotta di partecipazione ad una associazione per delinquere non consiste della sola "affectio societatis", in caso di stabile isolamento dell’interessato dal gruppo (in forza di detenzione prolungata e senza soluzione di continuità) occorre la prova della permanenza di un contributo oggettivamente apprezzabile alla vita ed all’organizzazione del gruppo stesso, anche se a carattere solo morale. Nel caso di specie, appunto, come rilevato dalle corti di merito, lo stato di detenzione non solo non aveva impedito il mantenimento dei contatti e quindi di una posizione partecipativa, ma era stata seguita da un immediato reinserimento nella vita attiva della societas, sintomo inequivoco di permanenza.

In esatta applicazione dello stesso, ha,dunque,messo in evidenza come non risultava che il D.B. fosse stato escluso dalla associazione, nè che si fosse verificato per suo volontà altro fatto da cui desumere il recesso o la cessazione dalla sua qualità di associato; a fronte di tale motivazione, che non manifesta alcuna illogicità. Il D.B. si limita invero a ribadire le stesse considerazioni svolte con l’appello, cui come detto il giudice del gravame ha dato adeguata risposta.

Per concludere la posizione del D.B., è da rilevare che l’ottavo motivo, con cui vengono proposte doglianze in ordine alla ravvisabilita dell’ipotesi delittuosa di cui all’art. 377 bis c.p., è anch’esso palesemente inammissibile, posto che non tiene conto della riqualificazione del fatto nel delitto di cui all’art. 611 c.p.p., già avvenuta in prime cure. Si è in presenza, perciò di una totale e palese distonia tra l’impugnazione e la decisione.

Del tutto inammissibili sono le censure mosse dai ricorrenti rimanenti, già sopra indicati, in punto di responsabilità, poichè nessuno di costoro ha indicato, in relazione alla sua specifica posizione, sulla quale la Corte di merito si è diffusamente impegnata per mettere in rilievo i dati salienti che individuavano la condotta partecipativa, quali fossero gli specifici errori commessi nella valutazione delle prove e nella spiegazione dell’iter decisionale. Ribadito che la motivazione si presenta completa e priva di salti logici, non può revocarsi in dubbio che i passaggi del ricorso sulle asserite violazioni di legge in relazione alle propalazioni accusatorie o alla configurabilità del reato associativo, sia dal profilo oggettivo che soggettivo, sono affidati a mere enunciazioni di massime e richiami giurisprudenziali, che da sole non bastano ad integrare il requisito richiesto dalla lettera C dell’art. 581 c.p.p., poichè, come affermato dalla giurisprudenza di questa corte, la invocazione dei principi di diritto non è sufficiente a configurare quella critica specifica, mirata e necessariamente personale della sentenza impugnata, valida per la posizione di ciascun concorrente, che è, appunto, richiesta dalla legge con la locuzione "indicazione degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta" di cui alla citata norma. Non è del pari fondato il motivo di doglianza concernete le armi, anch’esso meramente ripetitivo di quello formulato con l’appello.

E’ da ribadire che la circostanza aggravante di cui all’art. 416 bis c.p., comma 4, per la cui integrazione è sufficiente la semplice "disponibilità di armi" da parte dell’associazione e non anche l’effettiva utilizzazione delle stesse (Cass. Sez. 6, 26-1-2004 n. 17249; Sez. 6, 14-12-1999/8-5-2000 n. 5400), ha natura oggettiva ed è senz’altro applicabile, ai sensi dell’art. 59 c.p., comma 2, anche a carico del concorrente esterno che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Per la sua natura oggettiva, la circostanza, come ben delineato nella motivazione dei giudici di merito, si riferisce a tutta la associazione e non al singolo individuo, eventualmente assolto da reati specifici in tema di armi.

Peraltro, ed il fatto è pacifico e non contestato, i giudici di merito hanno indicato la esistenza oggettiva di un arsenale a favore del clan e tale acquisizione non è contestata da ricorrenti come fatto storico, ma solo con riferimento ad un profilo di consapevolezza soggettiva, ampiamente desumibile dai relativi indici elencati dal giudice di merito.

Del pari non hanno pregio le doglianze relative alla vantazione della recidiva. Premesso che un tale motivo non è stato proposto in appello dai due D.B. e che l’ A. e il P. si erano limitati a lamentarsi della misura dell’aumento, sicchè invero la questione proposta ha carattere di novità, è da ribadire che la recidiva, semplice, reiterata o infraquinquennale, è obbligatoria, secondo la previsione dell’art. 99 c.p., comma 5, nel caso in cui il soggetto commetta un nuovo delitto incluso fra quelli indicati dall’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a), non rilevando se il delitto per il quale vi è stata precedente condanna rientri o meno nell’elencazione di cui al menzionato art. 407 c.p.p. (Sez. 1, Sentenza n. 46875 del 12/11/2009).

E’ stato affermato, poi, che l’art. 99 c.p.p., comma 5, non limita il potere-dovere del giudice di adeguamento della pena al caso concreto, introducendo un "automatismo sanzionatorio" correlato ad una presunzione iuris et de iure di pericolosità sociale del recidivo reiterato, a seguito della L. n. 251 del 2005 che statuisce l’obbligatorietà della valutazione della recidiva reiterata, con conseguente impossibilità per il giudice di escluderla nel giudizio di bilanciamento con le concorrenti circostanze attenuanti, anche ad effetto speciale, che non sono le uniche astrattamente possibili del quadro normativo. Al riguardo questa corte ha ammesso la praticabilità di una soluzione interpretativa diversa da quella posta a base di dubbi di costituzionalità ipotizzati, cui fanno implicitamente riferimento i ricorrenti, e tale da determinare il possibile superamento di detti dubbi (o da renderli comunque non rilevanti), affermando che anche quando, per la tipologia del reato ascritto, l’aumento di pena per la recidiva sia obbligatorio ai sensi dell’art. 99 c.p., comma 4, non sussiste, in presenza di attenuanti, il divieto del giudizio di bilanciamento tra queste ultime e la recidiva, essendo precluso solo quello di prevalenza delle prime sulla seconda. (Sez. 1, Sentenza n. 17313 del 15/04/2008 Ud. (dep. 24/04/2008) Rv. 239620). Il giudice deve, quindi, procedere al giudizio di bilanciamento, soggetto al regime limitativo di cui all’art. 69 c.p., comma 4, tra le circostanze attenuanti e la contestata recidiva reiterata, soltanto quando ritenga quest’ultima effettivamente idonea ad influire sul trattamento sanzionatorio del fatto per cui si procede;ove la ritenga, invece, inapplicabile, egli deve tenere conto soltanto delle circostanze attenuanti, non essendovi alcuno spazio per il giudizio di comparazione (Sez. 6, Sentenza n. 10405 del 07/02/2008 Ud. (dep. 06/03/2008) Rv. 239018).

In ultimo va rilevato che, anche se la Consulta non si è pronunciata sulla legittimità costituzionale della disciplina di cui all’art. 99 c.p., comma 5, la più severa disciplina della recidiva reiterata nel caso di realizzazione di un delitto di cui all’art. 407 c.p.p., comma 2, lett. a, non appare irragionevole in quanto limitata a fattispecie specifiche, caratterizzate da notevole allarme sociale, indice del perdurare della capacità a delinquere del reo e tale trattamento sanzionatorio "aggravato" è il risultato di una scelta legislativa non in contrasto con i principi costituzionali, essendo finalizzata a punire più severamente, sia pure comprimendo gli spazi di discrezionalità del giudice, chi abbia continuato a commettere reati nonostante le precedenti condanne che, evidentemente, non hanno avuto un’efficacia dissuasiva ed appare, quindi, giustificato il diverso trattamento, ai fini della pena, nei confronti di chi continui a commettere reati, senza che possa ravvisarsi alcuna disparità di trattamento rispetto al complice correo nel medesimo delitto.

Non hanno, dunque, di che dolersi i ricorrenti, essendo stata la motivazione del primo giudice, richiamata dalla Corte, adeguata in fatto e aderente ai sopra menzionati principi.

Parimenti inammissibile è il sesto motivo relativo al trattamento sanzionatorio, che è anch’esso proposto in forma generica e non individualizzata, senza alcun confronto dialettico con la pronuncia impugnata, che si è fatta carico di valutare le singole posizioni con adeguata esposizione delle ragioni di fatto, come tali insindacabili in queste sede, che conducevano alla conferma delle pene inflitte in prime cure.

Anche il settimo motivo concernente il difetto di motivazione in ordine alla ragione della applicazione della misura di sicurezza della casa di lavoro non ha alcun fondamento, dato che il giudice di appello ha richiamato espressamente la valutazione operata in prime cure in base all’accertamento di un grado qualificato di pericolosità sociale, più intenso di quello presunto dalla legge per le altre misure ex art. 417 c.p.; il ricorrente A. non ha dunque, ragione di dolersi della omissione.

Fondato è invece il motivo proposto dal solo D.B.R. che rileva come la pena infettagli sia stata erroeneamente computata.

In effetti, questa Corte ha riscontrato l’errore di calcolo, denunciato dall’imputato ed avvalendosi del poteri conferiti dall’art. 619 c.p.p., comma 2, deve procedere alla rettifica della quantità della pena inflitta, che è da determinare in anni 10 e mesi quattro di reclusione, pari alla diminuzione di un terzo della pena indicata in sentenza di appello (anni 15 e mesi sei di reclusione), che la Corte distrettuale per evidente errore di calcolo matematico ha determinato in misura superiore.

5) C.G..

La eccezione, cui peraltro la corte di appello ha adeguatamente risposto, di nullità della sentenza per inosservanza delle disposizioni in materia di giudizio abbreviato, è palesemente infondata.

E’ principio pacifico che la ammissione del rito speciale, avvenuta con il provvedimento ordinatorio adottato dal giudice della udienza preliminare, comporta l’effetto della irretrattabilità della relativa richiesta.

E’ stato chiarito che la richiesta di giudizio abbreviato deve considerarsi revocabile dall’imputato che l’ha presentata fino a che non abbia prodotto i propri effetti e cioè finchè non sia stato emesso dal giudice il provvedimento dispositivo del rito (come esplicitamente affermato dalla pronuncia (fra le tante Cass., Sez. 1A, 9 luglio 2008, n. 32905, De Silva, massima n. 240683 e Sez. 4A, 28 marzo 2008, n. 19528, Gjieta,Sez. 1, Sentenza n. 27578 del 23/06/2010).

E tale è il caso del C., posto che il rito era stato disposto dal Gip, nella forma ordinaria, senza alcuna necessità di integrazione probatoria; erra poi il ricorrente, con argomentazioni che sono state già confutate dai primi giudici, ad indicare nella sopravvenuta volontà dei coimputati S. di collaborare con la giustizia e quindi nella integrazione probatoria disposta dal giudice, consistita nella assunzione dei loro interrogatori, una ipotesi assimilabile a quella prevista dall’art. 441 bis c.p.p., comma 4.

La fattispecie invocata è del tutto differente, quanto ai presupposti che giustificano la revoca del rito: l’ambito di applicazione è quello ben diverso delle contestazioni di cui all’art. 423 c.p.p., comma 1 e la eccezione, come tale non estensibile ad altre ipotesi, ha giustificazione nella sopravvenienza di nuove emergenze, tant’è che la detta facoltà è esclusa quando si tratti di fatti o circostanze già noti all’imputato.

Anche il motivo concernente la nullità della sentenza per erronea valutazione della prova dichiarativa è affetto da inammissibilità e ciò per un duplice ordine di ragioni: in primo luogo, esso è meramente ripetitivo di quello formulato in appello, senza un confronto specifico ed effettivo con le argomentazioni espresse dal giudice di appello; in ogni caso, poi, esprime una rivalutazione di puro merito in ordine ai fatti ascritti, che si contrappone a quella effettuata dalla Corte. Peraltro, l’iter argomentativo seguito dal giudice distrettuale non mostra le denunciate mancanze di logicità, dato che oltre ad una adeguata analisi della prova dichiarativa e la indicazione dei riscontri oggettivi, viene messo in evidenza, per il capo P (favoreggiamento consistito nell’avere affidato un suo moto veicolo ai componenti del clan camorristico) il punto centrale della obbiettiva conoscenza del soggetto, cui la moto di sua proprietà era stata affidata; tale aspetto soggettivo era riscontrato non solo da convergenti dichiarazioni accusatorie, relative alla concessione in uso al capo clan, ma anche dalle stesse dichiarazioni del C., che aveva esplicitamente rifiutato, nel corso di indagini, di dare il nome delle persone che ne avevano la disponibilità. Tanto basta per il configurare il dolo del delitto che si identifica in quello generico e consiste nella consapevolezza dell’agente di fuorviare, con la propria condotta, le ricerche poste in essere dalla competente autorità nei confronti dell’indagato nella ragionevole coscienza dell’apprezzabilità del suo contributo di aiuto al detto soggetto.

In conclusione, in aderenza al disposto di cui all’art. 616 c.p.p., i ricorrenti, ad eccezione del D.B.R., sono da condannare al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento delle somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

P.Q.M.

Letto l’art. 619 c.p.p., comma 2, rettifica nei confronti di D. B.R. la quantità della pena che determina in anni 10 mesi 4 di reclusione. Dichiara inammissibili tutti i ricorsi e condanna i ricorrenti, ad eccezioni di D.B.R., al pagamento delle spese processuali e ciascuno al versamento delle somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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