Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 13-07-2011) 20-09-2011, n. 34377 Domicilio eletto o dichiarato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 28.11.2008 il Tribunale di Milano in composizione monocratica dichiarava B.G. e I. M. colpevoli del reato di cui agli artt. 113, 589 c.p., perchè, in cooperazione colposa tra loro, per negligenza, imprudenza e imperizia, avevano cagionato la morte di G.S.; in particolare, perchè, in qualità di agenti della Polizia Stradale intervenuti verso le ore 0,45 del (OMISSIS) al km 13 della tangenziale (OMISSIS) in conseguenza dell’incidente che aveva coinvolto la Fiat Punto condotta da I.G. sulla quale viaggiava come passeggera la G. e che era finita su un terreno adiacente la sede autostradale, non avevano attivato, nell’immediatezza, adeguate ricerche della G., nonostante la sua presenza a bordo emergesse dal rinvenimento sull’auto di una borsetta da donna contenente i suoi documenti d’identità, e si erano allontanati dal luogo del sinistro per farvi ritorno solo alle ore 2,40 dietro insistenza dei familiari della ragazza, cosicchè la stessa era stata ritrovata, in prossimità dell’autovettura, soltanto alle ore 3,30 ed era giunta al pronto soccorso alle ore 4.45, con un ritardo nei soccorsi che aveva determinato ematoma sottodurale acuto con effetti di compressione e dislocazione delle strutture cerebrali da cui era derivato uno stato vegetativo persistente, e quindi la morte, avvenuta in (OMISSIS).

Nella sentenza i fatti venivano ricostruiti come segue. La notte del (OMISSIS) la G. viaggiava a bordo della Fiat Punto targata (OMISSIS) condotta da I.G. sulla tangenziale ovest di (OMISSIS). All’altezza del km 12,200, dopo aver sorpassato altra auto condotta da C.G., la Punto aveva urtato, con la fiancata sinistra, il guardrail, e improvvisamente aveva effettuato una deviazione a destra, era uscita di strada abbattendo la recinzione di un campo di granturco ed aveva terminato la marcia arrestandosi nel campo stesso. Il C. si era fermato ed aveva chiamato il 113, poi aveva visto uscire dal campo un ragazzo – cioè lo I. – il quale gli aveva chiesto che ora fosse e dove si trovasse; era sopraggiunto un veicolo della Società Autostrade con due dipendenti che avevano invitato il C. ad allontanarsi e alle 0,45 la centrale operativa della Polizia Stradale aveva inviato sul posto la Volante con gli Agenti B. e I., segnalando altresì al 118 la necessità di un’autoambulanza; quest’ultima era giunta sul luogo dell’incidente alle 0,51, era ripartita alle ore 1,00 trasportando I.G. ed era arrivata all’ospedale (OMISSIS) alle 1,07; mentre l’ambulanza ripartiva, era giunto un carro attrezzi, condotto da L.M., idoneo al recupero dell’autovettura; prelevata l’autovettura dal campo, gli operanti ne avevano ispezionato l’interno ed avevano rinvenuto una borsa da donna con i documenti di G.S. e due agendine con l’indirizzo e i recapiti telefonici. Alle ore 2,00, gli agenti B. e I. avevano raggiunto al Pronto Soccorso I.G., il quale però era in stato confusionale e non ricordava nulla. Alle 2,15. il padre della G. aveva contattato la Polizia Stradale di Como, ed era stato informato dell’incidente e del fatto che era stato ricoverato solo un ragazzo; aveva quindi chiamato l’ospedale (OMISSIS) ricevendo conferma di tale circostanza; la sua insistenza aveva fatto però sorgere un dubbio nell’infermiera M.E., che aveva avvisato l’agente di turno in ospedale, il quale a sua volta aveva chiamato la centrale operativa che aveva inviato nuovamente la volante sul posto. Alle 3,35 la volante aveva richiesto l’intervento del 118 avendo trovato la G. nel campo in mezzo alle pannocchie, alle 3,47 era giunta l’ambulanza che, ripartita con la ragazza alle 4,07, era arrivata all’ospedale (OMISSIS) 7 minuti dopo; la G. era poi deceduta in (OMISSIS) dopo un lungo stato vegetativo persistente derivato da un ematoma sottodurale acuto, con effetti di compressione e dislocazione delle strutture cerebrali.

Così ricostruiti i fatti, il giudice di primo grado osservava che l’imputazione doveva essere inquadrata nell’arco di tempo dalle 0,45 alle 4,07, che rappresentava il ritardo fatale, secondo l’accusa, per la G.; rilevava quindi la necessità di accertare la doverosità e possibilità del ritrovamento della ragazza fin dal primo intervento, le eventuali responsabilità per il ritardo e la sussistenza del nesso causale tra il ritardo e il decesso: sulla base del compendio probatorio acquisito – e richiamando in particolare le dichiarazioni degli imputati e quelle dei testi, le acquisizioni documentali e l’esito degli accertamenti peritali – il giudicante dava risposta affermativa ai quesiti così come prospettati e conseguentemente affermava la colpevolezza degli imputati, attribuendo tuttavia alla persona offesa un concorso di colpa determinato nella misura di un terzo, per non avere la G. utilizzato la cintura di sicurezza.

Quanto ai ravvisati profili di colpa nella condotta degli imputati, la sentenza richiamava, tra l’altro, la prassi operativa illustrata dal teste M.F., comandante della sottosezione di Polizia stradale ove prestavano servizio gli attuali imputati, il quale aveva indicato tre momenti successivi dell’intervento in caso di incidente stradale: la verifica della presenza di persone ferite e il soccorso degli stessi, la delimitazione della zona e l’effettuazione di rilievi, infine la rimozione dei veicoli. Il primo giudice evidenziava poi anche alcuni dati accertati dagli stessi imputati: la Punto aveva percorso, dall’uscita della carreggiata, m. 53,50, arrestandosi in posizione parallela alla carreggiata, alla distanza di m. 9,80 dalla corsia di emergenza e di m. 1.80 dal limitare del campo di granturco e da un fossato che correva parallelamente alla tangenziale: l’autovettura aveva le portiere chiuse, quella anteriore sinistra introflessa e quella anteriore destra estroflessa, i finestrini anteriori infranti e il parabrezza in sede che presentava una deformazione a cupola nella parte superiore destra.

Quanto al nesso causale tra il ritardo nei soccorsi – derivato dal comportamento colposo addebitato agli imputati B. e I. – e la morte della G., il giudicante ne rilevava la sussistenza ancorando il proprio convincimento alle varie perizie e consulenze medico-legali, espletate nel corso del procedimento, che riteneva del tutto condivisibili; in particolare, era emerso che: la lesività encefalica originaria, consistita in ematoma sottodurale acuto con effetti di compressione e dislocazione delle strutture cerebrali, era stata trattata con chirurgia d’emergenza dopo oltre cinque ore dalla lesione, a seguito di arrivo in ospedale dopo quattro ore, mentre i migliori risultati in termini di recupero funzionale e di mortalità si hanno con interventi entro le tre ore dal traumatismo; le condizioni della G. erano progressivamente peggiorate dal momento dell’incidente fino all’arrivo in ospedale, ed il ritardo del soccorso aveva considerevolmente aggravato il decorso del caso; la G. era entrata in uno stato vegetativo persistente e il decesso si era verificato dopo oltre cinque anni – con una sopravvivenza sorprendente per durata – sicuramente a causa dell’evento traumatico.

A seguito di rituale gravame proposto dal difensore degli imputati, la Corte d’Appello di Milano confermava l’impugnata decisione e, in risposta alle deduzioni degli appellanti – i quali avevano eccepito la nullità della notifica dell’avviso dell’udienza preliminare e di tutti gli atti successivi, contestato i ritenuti profili di colpa quanto alle modalità ed ai tempi della ricerca della G., e formulato doglianze in ordine al diniego delle attenuanti generiche ed all’entità della pena, senza muovere alcuna specifica censura in ordine al nesso di causalità – dava conto del proprio convincimento con argomentazioni che possono così riassumersi: 1) Appariva infondata l’eccezione di nullità dell’udienza preliminare e di tutti gli altri atti successivi – sollevata dalla difesa sul rilievo dell’asserita nullità della notifica dell’avviso per detta udienza agli imputati perchè effettuata, a seguito del decesso del difensore di fiducia avv.to La Monica presso il quale vi era stata elezione di domicilio, allo studio del secondo difensore di fiducia ai sensi dell’art. 161 c.p.p., comma 4, – posto che: a) la morte del difensore domiciliatario aveva determinato l’impossibilità della notifica – ipotesi contemplata dalla prima parte dell’art. 161 c.p.p., comma 4 – e quindi la notifica era stata effettuata mediante consegna al difensore (nella specie, secondo difensore di fiducia) così come stabilito dallo stesso articolo: detta modalità di notifica aveva tra l’altro certamente assicurato l’effettiva conoscenza dell’avviso da parte degli imputati, essendo stato l’avviso stesso consegnato al difensore di fiducia; b) non risultava pertinente il precedente giurisprudenziale evocato dagli appellanti, trattandosi di un caso sostanzialmente diverso: nella fattispecie oggetto della sentenza richiamata dalla difesa, in seguito alla morte del domiciliatario, il giudice di merito aveva illegittimamente fatto rivivere una precedente dichiarazione di domicilio e, risultata inefficace la notifica presso il domicilio dichiarato, aveva eseguito la notifica presso un difensore d’ufficio nominato nell’occasione; la Suprema Corte, dovendo decidere in merito alla richiesta di restituzione in termine per l’impugnazione di sentenza contumaciale, aveva enunciato il principio secondo cui le notificazioni effettuate al difensore d’ufficio vanno considerate in via generale di per sè inidonee a dimostrare l’effettiva conoscenza del procedimento in capo all’imputato, salvo che la conoscenza sia desumibile aliunde, ovvero si dimostri che il difensore d’ufficio è riuscito a rintracciare il proprio assistito e ad instaurare un effettivo rapporto professionale con lo stesso; 2) quanto alla ricostruzione degli orari, appariva singolare che fossero state proposte scansioni temporali differenti da quelle indicate dagli stessi imputati nelle loro relazioni di servizio; la "concitazione del momento", addotta dagli appellanti a giustificazione delle errate annotazioni, non poteva spiegare un errore nell’indicazione degli orari; comunque, la prospettazione difensiva tendente a spostare in avanti l’orario di accesso all’ospedale per sentire I. – prolungando così i tempi della prima ricerca -risultava smentita anche dall’orario della telefonata in ospedale del padre della G. il quale aveva chiamato la Polizia Stradale di Como alle 2,15 e l’ospedale (OMISSIS) intorno alle 2,30, quando però B. e I. si erano già allontanati dopo aver sentito I.; di tal che, doveva essere confermata e condivisa la ricostruzione cronologica effettuata dal giudice di primo grado, peraltro sulla base degli atti predisposti dagli stessi imputati, 3) la ristrettezza del tempo dedicato alla prima ricerca non era tuttavia l’elemento fondamentale della colpa addebitata agli imputati, posto che l’area da esplorare aveva una lunghezza di poco più di 50 metri (m. 53,50 dall’uscita dell’autovettura dalla carreggiata fino al punto di arresto) e, dunque, se le ricerche fossero state condotte con attenzione, sarebbe stato sufficiente anche un tempo limitato;

4) anche l’assunto difensivo sulle condizioni di I. risultava smentito dagli stessi imputati: costoro infatti, nella loro relazione sugli accertamenti urgenti, avevano scritto che lo I. – al quale era stato chiesto se a bordo del veicolo vi erano altre persone – "non ricordava assolutamente nulla": l’imputato I. aveva testualmente dichiarato in dibattimento che lo I. "non ci sapeva dire circostanze utili per quanto riguarda la dinamica dell’evento infortunistico, anche perchè la persona diciamo non ricordava effettivamente da dove arrivasse e dove era diretto"; tale ammissione eliminava ogni dubbio in merito alla percezione, da parte degli imputati, dello stato confusionale dello I., attestato peraltro anche da altri testimoni che lo avevano visto prima ancora del ricovero all’ospedale (OMISSIS); di tal che, nessun valore poteva avere l’affermazione del C., uno dei componenti dell’equipaggio del 118, circa il fatto che lo I. fosse "orientato nel tempo e nello spazio": ciò poteva significare che I. era cosciente della propria situazione, ma certo non dimostrava, stando a quanto riferito dagli altri testimoni e dagli stessi imputati, che egli fosse in grado di rispondere a domande relative alla dinamica dell’incidente e alla presenza a bordo dell’auto di altre persone;

5) relativamente all’adeguatezza delle ricerche, dato incontrovertibile era che tra le 0,45 – momento dell’intervento degli imputati – e le 3,35, orario del ritrovamento della ragazza, le ricerche non avevano avuto esito positivo, nonostante l’area di ricerca non fosse particolarmente ampia, trattandosi di poco più di 50 metri da percorrere in lunghezza e qualche metro da tenere d’occhio in larghezza: la G. era stata ritrovata nel fossato distante m. 1,80 dall’auto, con la testa all’altezza della parte anteriore dell’autovettura, e a breve distanza, sempre nel fossato, il padre aveva trovato il giorno dopo le scarpe, la maglietta e la trousse; 6) che la G. fosse uscita volontariamente dalla macchina, appariva effettivamente certo, ma ciò non poteva assumere valenza di elemento a favore degli imputati; la ricostruzione più plausibile rimaneva quella del giudice di primo grado, secondo cui la ragazza aveva fatto pochi passi ed era rimasta nel fossato ove poi era stata trovata: e ciò, sia per le condizioni della ragazza, che certamente non le consentivano di muoversi molto, sia per le considerazioni svolte nella sentenza impugnata in ordine alla posizione delle pannocchie e, di conseguenza, a quella del corpo della ragazza già al momento della rimozione dell’auto; date le sue condizioni, la G., dunque, non poteva trovarsi molto lontano e comunque non oltre il raggio utile per le ricerche, tenuto anche conto che poi sarebbe ritornata vicino alla macchina per restare infine nel fossato; per cui, pur a voler considerare tutte le implicazioni della prospettazione più favorevole agli imputati, le ricerche sarebbero risultate ugualmente malaccorte e del tutto inadeguate: la spiegazione di ciò era ravvisabile nel fatto che fin quando non era stata rimossa l’autovettura e non era stato appurato che all’interno del veicolo vi erano una borsa da donna e bagagli riferibili a più d’una persona, non si era fatta strada neppure agli operanti l’ipotesi della presenza di un’altra persona; 7) B. e I., dunque, oltre a determinare un grave ritardo nell’acquisizione di elementi utili, omettendo di accedere immediatamente all’abitacolo dell’autovettura, neppure dopo il rinvenimento della borsa e dei bagagli si erano convinti della presenza di un’altra persona a bordo dell’auto; avevano invece pensato – così come dagli stessi dichiarato – che il conducente aveva commesso un furto e si erano quindi portati in ospedale a chiedergli chiarimenti, così trascurando anche il segno lasciato sul parabrezza dall’impatto del capo della G. a seguito dell’incidente, traccia che anch’essa, per la sua collocazione e per la univocità del significato, avrebbe dovuto far capire che sull’auto vi era anche un passeggero; 8) quanto alla prospettazione difensiva secondo cui al momento del ritrovamento della borsetta sarebbe forse stato già troppo tardi per salvare la G., la stessa non poteva trovare condivisione posto che: a) il controllo sull’auto poteva e doveva essere fatto subito, e comunque prima della rimozione, che aveva richiesto diverso tempo: non vi erano infatti seri ostacoli a questo intervento, come già evidenziato dal primo giudice; b) inoltre, il fatto che alle ore 2,00 il B. e lo I. fossero già in ospedale per sentire lo I. stava a significare che, dopo il ritrovamento della borsetta, era trascorso ancora un tempo pari a più di un’ora e mezza prima che la ragazza venisse trovata, e anche questo intervallo di tempo era stato indicato dai periti e consulenti medico-legali come sufficiente per essere fatale; c) al di là di questo rilievo, rimaneva comunque ferma la valutazione di responsabilità degli imputati per non avere in precedenza eseguito ricerche adeguate e per non avere controllato immediatamente l’interno dell’autovettura; 9) conclusivamente, la responsabilità degli imputati, appariva integra nei suoi diversi e concorrenti profili: a) non aver attivato immediatamente adeguate ricerche, contrariamente alla procedura più corretta in questi casi, riassunta dal teste M., comandante della sezione di Polizia Stradale; b) non aver controllato immediatamente l’interno dell’autovettura, che avrebbe consentito di rilevare i segni inequivoci della presenza di un passeggero; c) l’avere comunque, una volta rilevati tali segni, male interpretato gli stessi, dando luogo ad un ulteriore ritardo per andare inutilmente in ospedale a sentire lo I., invece di procedere subito ad ulteriori e più accurate ricerche; andava pertanto ribadita la valutazione in ordine alla grave colpa degli imputati, fermo restando il nesso causale – specificamente non contestato nell’impugnazione – tra il ritardo nei soccorsi, derivato da tale condotta, e l’evento verificatosi.

Avverso detta sentenza ricorrono per cassazione gli imputati, con distinti atti di impugnazione – ma di identico contenuto ed anche graficamente sovrapponigli -deducendo censure che possono così riassumersi: A) Nullità della sentenza per erronea applicazione della legge nonchè per inosservanza delle norme processuali penali – Avrebbe errato la Corte distrettuale nel disattendere l’eccezione, tempestivamente formulata, di nullità della notifica dell’avviso di fissazione dell’udienza preliminare agli imputati e di tutti gli atti conseguenti e successivi; al riguardo i ricorrenti sostengono quanto segue: entrambi gli imputati avevano effettuato regolare elezione di domicilio presso il difensore di fiducia Avv. La Monica; l’Ufficiale Giudiziario in sede di notifica dell’avviso di conclusione delle indagini aveva dato atto dell’impossibilità di effettuare l’incombente atteso il decesso dell’Avv. La Monica; le notifiche erano state quindi eseguite ex art. 161 cod. proc. pen., comma 4, presso il domicilio del codifensore di fiducia Avv. Leonardo Mazza di Roma, con conseguente asserita nullità della notifica così eseguita non potendo addebitarsi agli imputati l’omessa comunicazione del mutamento di domicilio: ad avviso dei ricorrenti, quando non risulti dagli atti che l’imputato sia a conoscenza della morte del suo difensore di fiducia presso cui aveva eletto domicilio, non dovrebbe ritenersi applicabile il disposto dell’art. 161 c.p.p., u.c..

Evocando a sostegno del proprio assunto anch’essi il medesimo precedente della giurisprudenza di questa Corte (Sez. 1^, n. 3954 del 6.12.2007, De Andreis) richiamato dalla Corte distrettuale (e da questa valutato in senso opposto alla tesi difensiva), precisano ancora i ricorrenti quanto segue: "la questione non è, infatti, se gli imputati per il tramite del secondo difensore avessero avuto o meno notizia della notifica dell’atto, ma se alla luce della sopravvenuta impossibilità di notifica al difensore domiciliatario (del cui decesso gli imputati non erano a conoscenza) si configuri l’ipotesi di cui al capoverso dell’art. 161, comma 4 che impone di applicare le modalità di notifica ex art. 157 e 159. Accertata, infatti, la violazione delle regole sulle modalità di esecuzione della notifica ritualmente eccepita nei termini, anche in mancanza di dimostrazione o di allegazione della mancata conoscenza dell’atto da parte dell’imputato, doveva essere dichiarata la nullità di ordine generale non assoluta." (così testualmente a pagg. 3-4 dei due ricorsi); B) Nullità della sentenza ex art. 606 c.p.p., lett. b) ed c) per erronea applicazione della legge penale, nonchè per mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata assoluzione degli imputati dal reato loro ascritto – I ricorrenti deducono vizio di motivazione in ordine alle valutazioni probatorie e, con il richiamo a talune testimonianze, riproducono pedissequamente e letteralmente (da pag. 5 di ciascuno dei due ricorsi fino all’ultima pagina) le medesime formulazioni già oggetto dei motivi di appello (da pag. 3 a pag. 8 dell’atto di appello) in punto di responsabilità (con i ricorsi non sono state dedotte doglianze in ordine al trattamento sanzionatorio che era stato invece censurato con i motivi di appello).

Motivi della decisione

I ricorsi devono essere dichiarati inammissibili per le ragioni di seguito indicate.

La dedotta eccezione in rito è manifestamente infondata per le plurime ragioni di seguito indicate.

"In primis", deve ritenersi assolutamente insussistente la denunciata nullità.

Ed invero, è testualmente stabilito nell’art. 161 c.p.p. che nel caso di dichiarazione o elezione di domicilio l’imputato ha l’obbligo di comunicare ogni mutamento del domicilio dichiarato o eletto, ed in mancanza di tale comunicazione la notificazione è eseguita mediante consegna al difensore; nel citato art. 161 cod. proc. pen. è altresì stabilito che: a) nello stesso modo si procede quando la dichiarazione o l’elezione di domicilio mancano o sono insufficienti o inidonee; b) si applicano le disposizioni degli artt. 157 e 159 solo quando risulta che, per caso fortuito o forza maggiore, l’imputato non è stato nella condizione di comunicare il mutamento del luogo dichiarato o eletto.

Nella concreta fattispecie gli imputati avevano eletto domicilio presso uno dei due difensori di fiducia, l’avvocato La Monica, e, a seguito del decesso di quest’ultimo, l’atto era stato notificato mediante consegna al secondo difensore di fiducia di entrambi gli imputati, e cioè l’avvocato Leonardo Mazza; la morte del domiciliatario aveva reso dunque chiaramente inidonea quella elezione di domicilio – posto che l’elezione (a differenza della dichiarazione) di domicilio è legata ad una persona fisica ben determinata e non ad un luogo – e gli imputati non avevano comunicato alcun mutamento del domicilio. In materia è stato enunciato il seguente, e condivisibile, principio assolutamente pertinente in relazione alla concreta fattispecie: "Nel caso in cui l’imputato abbia eletto domicilio presso lo studio del difensore, il quale tuttavia ne muti successivamente la dislocazione, all’interessato incombe l’obbligo di comunicare il cambiamento, con la conseguenza che, mancando tale comunicazione ed essendo divenuta impossibile la notificazione presso il domicilio non revocato, questa deve essere effettuata mediante consegna al difensore, ai sensi dell’art. 161, comma 4 e, dunque, al suo nuovo recapito, rivestendo tuttavia, in tal caso, il professionista, non più veste di domiciliatario, ma di semplice consegnatario" (Cass. 5^ 11 ottobre 2000, Gimona, RV 219231).

Nè può rilevare se gli imputati avessero avuto o meno conoscenza della morte del domiciliatario; ed invero le modalità di notificazione da osservare non possono certo dipendere da una circostanza del tutto incerta ed aleatoria quale è la conoscenza (e quando?), o meno, da parte dell’imputato dell’avvenuto decesso del suo domiciliatario, nè a tale circostanza può attribuirsi la valenza di caso fortuito o forza maggiore; è peraltro assolutamente ragionevole presumere che, nella specie, gli imputati avessero avuto immediatamente conoscenza della morte del loro domiciliatario tenuto conto che costui era anche uno dei due difensori di fiducia e che quindi esisteva un rapporto fiduciario ancor più pregnante.

Donde l’assoluta regolarità della notifica avvenuta mediante consegna dell’atto al (secondo) difensore di fiducia.

Ma ulteriori considerazioni, che si ritiene opportuno svolgere per completezza argomentativa, e lo stesso precedente giurisprudenziale evocato dai ricorrenti per come di seguito si avrà modo di precisare, evidenziano ancor più la manifesta infondatezza della censura in esame.

Ed invero, l’atto, come detto, fu notificato agli imputati mediante consegna all’avvocato Mazza il quale era il secondo difensore di fiducia di entrambi gli imputati. Orbene – e ferma restando la ritualità della notifica per quanto sopra detto – il rapporto fiduciario esistente tra l’avvocato Mazza e gli imputati stessi non consente dubbi di sorta anche per quel riguarda l’effettiva conoscenza dell’atto da parte degli imputati: effettiva conoscenza che, come è noto, rileva in tema di restituzione nel termine, e rappresenta la condizione indispensabile per legittimare il diniego della richiesta di restituzione nel termine per impugnare una sentenza contumaciale (art. 175 c.p.p., comma 2) come più volte affermato da questa Corte con plurime decisioni, ivi compresa quella evocata dai ricorrenti, che, dunque, in quanto concernente un diverso tema, non è pertinente in relazione alla questione qui posta con i ricorsi. Tale decisione, infatti, si riferisce ad un caso di denuncia di nullità – per asserita irregolarità della notifica – posta a base della richiesta di restituzione nel termine per impugnare una sentenza contumaciale, istituto, quest’ultimo (art. 175 c.p.p., comma 2,), oggetto di intervento legislativo (L. 22 aprile 2005 n. 60) finalizzato ad obbligare il giudice, a fronte dell’allegazione dell’imputato di non avere avuto cognizione di un atto, a verificare non tanto la conoscenza "formale", quanto, soprattutto, la conoscenza concreta ed effettiva dell’atto e/o del procedimento in relazione al quale sia formulata la richiesta di restituzione nel termine; nel caso in esame si verte invece in ipotesi di denuncia di una irritualità nel procedimento di notifica che avrebbe determinato, secondo la tesi difensiva, una nullità della "vocatio in jus":

trattasi, dunque, di eccezione da vagliare esclusivamente in relazione alla procedura di notificazione quale disciplinata dall’art. 161 c.p.p., non vertendosi in tema di restituzione del termine per l’impugnazione di sentenza contumaciale.

Il precedente giurisprudenziale evocato dalla difesa offre tuttavia, indirettamente, argomenti che addirittura confortano proprio quanto sostenuto dai giudici di merito nel rigettare la eccezione sollevata dalla difesa degli imputati. Nel caso oggetto della sentenza citata dagli stessi ricorrenti, si trattava di notifica effettuata, in conseguenza della morte del difensore domiciliatario, ad un difensore di ufficio, e la Corte di Cassazione ha ritenuto siffatta modalità di notifica di per sè inidonea a dimostrare l’effettiva conoscenza del procedimento in capo all’imputato, posto che si trattava di notifica effettuata, per l’imputato, presso il difensore di ufficio e non di fiducia: non era dunque in discussione solo la regolarità formale della notifica, bensì (ed è cosa diversa) la idoneità della notifica, così eseguita, a dimostrare l’effettiva conoscenza del procedimento da parte dell’imputato in relazione alla richiesta di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale;

nella fattispecie esaminata dalla Corte di Cassazione con la sentenza in argomento, la notifica era avvenuta, come detto, presso un difensore di ufficio (e non di fiducia) e la Corte stessa ha tuttavia precisato che, pur laddove si tratti di difensore di ufficio, ben può ritenersi raggiunta anche la prova dell’effettiva conoscenza del procedimento ove si dimostri che il difensore di ufficio "sia riuscito a rintracciare il proprio assistito e a instaurare con lui un effettivo rapporto professionale"; la assoluta inconsistenza giuridica della tesi dei ricorrenti risulta dunque evidente sulla scorta dello stesso precedente giurisprudenziale dai medesimi evocato (ma in tal senso vi sono tante altre decisioni), tenuto conto che l’atto è stato notificato mediante consegna al (co)difensore di fiducia con il quale la sussistenza di un effettivo rapporto professionale non era dunque assolutamente in discussione (e neanche è stato contestato con il ricorso) proprio in virtù del mandato fiduciario rilasciato dagli imputati (anche) a detto difensore (oltre che a quello domiciliatario, poi deceduto). E’ opportuno ricordare che – sempre in tema di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale la cui disciplina è tra l’altro caratterizzata da rigorose garanzie a favore dell’imputato – questa Corte non ha mancato di rimarcare in più occasioni la differenza tra la notifica presso il difensore di ufficio e quella presso il difensore di fiducia, avendo esplicitamente affermato che la notifica della sentenza contumaciale effettuata nei confronti del difensore di fiducia costituisce prova di una conoscenza effettiva (Sez. 1, n. 16002 del 06/04/2006 Cc. – dep. 10/05/2006 – Rv. 233615), ulteriormente precisando che "in tema di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale, ai sensi del disposto di cui all’art. 175 cod. proc. pen., comma 2, come novellato dalla L. n. 60 del 2005, la notificazione presso il difensore di fiducia è del tutto equiparabile, ai fini della conoscenza effettiva dell’atto, alla notifica all’imputato personalmente" (Sez. 1, n. 2432 del 12/12/2007 Cc. – dep. 16/01/2008 – Rv. 239207); nella motivazione di quest’ultima sentenza è testualmente, e significativamente, precisato quanto segue: "La citata equiparazione, lungi dal ridursi ad una mera fictio iuris, è ampiamente giustificata dalla natura e dalla sostanza del rapporto professionale che intercorre tra l’avvocato difensore nominato di fiducia dall’imputato e l’imputato stesso, il quale proprio nel momento in cui da il mandato al professionista con riguardo ad uno specifico procedimento, dimostra (o conferma) di essere effettivamente a conoscenza di tale procedimento. E’, pertanto, del tutto ragionevole ritenere che, anche successivamente alla nomina, il perdurante rapporto professionale intercorrente tra l’imputato e il difensore di fiducia continua a consentire al primo di mantenersi informato sugli sviluppi del procedimento e di concordare con il difensore le scelte difensive ritenute più idonee". Ovviamente resta ferma la possibilità per l’imputato di vincere tale presunzione attraverso un’idonea prova in contrario: prova contraria nel caso in esame non sussistente, nulla avendo allegato il B. e lo I. in tal senso.

Manifestamente infondate sono le censure concernenti l’affermazione di colpevolezza che, attraverso considerazioni già compiutamente vagliate dal giudice dell’appello, e pur se dedotte sotto gli asseriti profili di violazione di legge e vizio motivazionale, tendono sostanzialmente ad una rivalutazione delle risultanze processuali non consentita in sede di legittimità. Giova sottolineare che, secondo il consolidato orientamento della Suprema Corte, il vizio di motivazione deducibile in sede di legittimità deve, per espressa previsione normativa, risultare dal testo del provvedimento impugnato (Sez. Un. N. 6402/97, imp. Dessimone ed altri, RV. 207944; Sez. Un., ric. Spina, 24/11/1999, RV. 214793; Sez. Un. ric. Jakani, ud. 31/5/2000, RV. 216260; Sez. Un., ric. Petrella, ud. 24/9/2003, RV. 226074), o – a seguito della modifica apportata all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 – da "altri atti del procedimento specificamente indicati nei motivi di gravame"; il che vuoi dire – quanto al vizio di manifesta illogicità – per un verso, che il ricorrente deve dimostrare in tale sede che l’iter argomentativo seguito dal giudice è assolutamente carente sul piano logico e che, per altro verso, questa dimostrazione non ha nulla a che fare con la prospettazione di un’altra interpretazione o di un altro iter, quand’anche in tesi egualmente corretti sul piano logico: ne consegue che, una volta che il giudice abbia coordinato logicamente gli atti sottoposti al suo esame, a nulla vale opporre che questi atti si prestavano ad una diversa lettura o interpretazione, ancorchè munite di eguale crisma di logicità.

Nella concreta fattispecie la decisione impugnata si presenta formalmente e sostanzialmente legittima ed i suoi contenuti motivazionali – quali sopra riportati (nella parte narrativa) e da intendersi qui integralmente richiamati onde evitare superflue ripetizioni – forniscono, con argomentazioni basate su una corretta utilizzazione e valutazione delle risultanze probatorie, esauriente e persuasiva risposta ai quesiti concernenti il tragico evento oggetto del processo: la Corte distrettuale, dopo aver analizzato tutti gli aspetti della vicenda (successione cronologica dei fatti, condotta degli Agenti della Polizia Stradale B. e I., nesso causale tra tale condotta e l’evento, tenendo conto a tale ultimo riguardo degli accertamenti peritali) ha spiegato le ragioni per le quali ha ritenuto sussistente la penale responsabilità degli imputati. Con le dedotte doglianze i ricorrenti, per contrastare la solidità delle conclusioni cui è pervenuto il giudice del merito, non hanno fatto altro, dunque, che riproporre in questa sede – attraverso considerazioni e deduzioni svolte prevalentemente in chiave di merito – tutta la materia del giudizio, adeguatamente trattata, in relazione ad ogni singola tematica, dalle conformi ed integrative sentenze di primo e secondo grado. A tale ultimo proposito mette conto sottolineare che già il primo giudice, con puntuali argomentazioni, aveva analizzato le prospettazioni difensive dando adeguatamente conto delle proprie determinazioni, quanto alla ritenuta colpevolezza degli imputati, seguendo un percorso motivazionale caratterizzato da una particolare completezza argomentativa e dalla puntualità dei riferimenti. Trattandosi di conferma della sentenza di primo grado in punto di responsabilità (avendo la Corte di merito ridimensionato il trattamento sanzionatorio), la sentenza d’Appello deve intendersi dunque integrata dalla diffusa ed articolata motivazione addotta dal Tribunale a fondamento del convincimento espresso: è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (in termini, "ex plurimis", Sez. 3, n. 4700 del 14/02/1994 Ud. – dep. 23/04/1994 – Rv. 197497; conf. Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 Ud. – dep. 05/12/1997 – Rv. 209145; conf. Sez. 4, n. 38824 del 17/09/2008 Ud. – dep. 14/10/2008 – Rv. 241062). A ciò aggiungasi che i ricorrenti – pur a fronte delle specifiche argomentazioni svolte dalla Corte distrettuale in aggiunta a quelle del primo giudice ed in risposta ai motivi di appello – con i ricorsi hanno in gran parte ripetuto pedissequamente e letteralmente i motivi di appello (cfr. da pag 3 a pag. 8 dell’atto di appello e da pag. 5 di ciascuno dei due ricorsi fino all’ultima pagina), ancora una volta con riferimento ai profili di colpa ravvisati dai giudici di merito nella condotta degli imputati, tra l’altro omettendo qualsiasi specifica deduzione in ordine al nesso di causalità puntualmente vagliato da entrambi i giudici, di primo e secondo grado. Al riguardo giova ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte è stato enunciato, e più volte ribadito, il seguente, e condivisibile, principio di diritto: "E’ inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici.

La mancanza di specificità del motivo, invero, dev’essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate dalla decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell’impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato senza cadere nel vizio di aspecificità conducente, a mente dell’art. 591 comma 1 lett. e), all’inammissibilità" (in termini, Sez. 4, n. 5191 del 29/03/2000 Ud. – dep. 03/05/2000 – Rv. 216473; conf.: Sez, 5, n. 11933 del 27/01/2005, dep. 25/03/2005, Rv. 231708); ed ancora:

"In tema di ricorso per cassazione, i relativi motivi non possono limitarsi al semplice richiamo "per relationem" ai motivi di appello, allo scopo di dedurre, con riferimento ad essi, la mancanza di motivazione della sentenza che si intende impugnare. Requisito, infatti, dei motivi di impugnazione è la loro specificità, consistente nella precisa e determinata indicazione dei punti di fatto e delle questioni di diritto da sottoporre al giudice del gravame. Conseguentemente, la mancanza di tali requisiti rende l’atto di impugnazione inidoneo ad introdurre il nuovo grado di giudizio ed a produrre effetti diversi dalla dichiarazione di inammissibilità" (Sez. 5, n. 2896 del 09/12/1998 Ud. – dep. 03/03/1999 – Rv. 212610).

Per mera completezza espositiva, talune precisazioni si impongono, infine, con riferimento alla prescrizione del reato. Alla data odierna – avuto riguardo alla data del decesso della G. (8 gennaio 2004), al titolo del reato ed alla pena per lo stesso prevista – risulterebbe cronologicamente decorso il termine massimo di prescrizione, pari a sette anni e sei mesi con riferimento al termine prescrizionale previsto dall’art. 157 c.p., sia nella formulazione antecedente alla riforma di cui alla legge "ex Cirielli", sia nelle disposizioni come modificate dalla riforma stessa (che, ove fossero risultate ancor più favorevoli, avrebbero dovuto trovare applicazione essendo stata pronunciata la sentenza di primo grado in data 28 novembre 2008 e quindi successivamente all’entrata in vigore della L. n. 151 del 2005: cfr. Sez. Un., n. 47008/09 del 29 ottobre 2009, rv 244810).

Orbene, mette conto tuttavia sottolineare che: a) il termine massimo di prescrizione (di sette anni e mezzo) certamente non era decorso al momento della pronuncia della sentenza di appello (30 giugno 2010);

b) bisognerebbe peraltro verificare e calcolare anche i periodi di sospensione desumibili dagli atti a disposizione di questo ufficio;

c) tale verifica risulta tuttavia del tutto superflua perchè irrilevante, posto che la prescrizione maturata successivamente alla sentenza oggetto del ricorse per cassazione non può comunque avere incidenza alcuna in presenza di gravame inammissibile per causa originaria di inammissibilità (come nel caso in esame, trattandosi di doglianze in parte manifestamente infondate ed in parte generiche nonchè non deducibili in sede di legittimità perchè concernenti apprezzamenti di merito formulati dal giudice di appello con argomentazioni prive di qualsiasi connotazione di illogicità): e ciò, alla luce dei principi enunciati in materia dalle Sezioni Unite di questa Corte (cfr. Sez. Un. 22/11/2000 De Luca e 27/6/2001 Cavalera).

Alla declaratoria di inammissibilità segue, per legge, la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonchè (trattandosi di causa di inammissibilità riconducibile alla volontà, e quindi a colpa, dei ricorrenti: cfr. Corte Costituzionale, sent. N. 186 del 7-13 giugno 2000) al versamento a favore della cassa delle ammende di una somma che si ritiene equo e congruo determinare in Euro 300,00 (trecento) ciascuno.

P.Q.M.

Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quello della somma di Euro 300,00 in favore della Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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