Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 23-06-2011) 20-09-2011, n. 34360

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1) Con ordinanza in data 15.7.2010 la Corte di Appello di Roma dichiarava inammissibile la richiesta di revisione, avanzata da D. G.A., avverso la sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Napoli il 22.6.2004, confermata dalla Corte di Appello di Napoli il 5.5.2005 e divenuta irrevocabile il 23.4.2008.

Dopo aver esaminato tutte le prove offerte con la richiesta di revisione, riteneva la Corte territoriale che esse non avevano il carattere della novità e che quindi erano inidonee, palesemente, sole o unite a quelle già valutate, a dimostrare che il condannato dovesse essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p..

Assumeva, poi, la Corte che la "consistenza" assai ridotta delle "nuove prove" addotte perdesse del tutto ingiustificata la richiesta di sospensione della esecuzione della pena a norma dell’art. 635 c.p.p..

2) Ricorre per cassazione D.G.A., a mezzo del difensore, per violazione di legge e vizio motivazionale dell’impugnata ordinanza.

Le nuove prove indicate nella richiesta di revisione, costituite da testimonianze documentazione, elaborati peritali, erano idonee ad inficiare la valenza probatoria degli elementi acquisiti nel corso del processo, per cui era configurabile l’ipotesi prevista dall’art. 630 c.p.p., lett. c).

La Corte di Appello ha illegittimamente valutato la portata, per di più travisandola, delle nuove prove dedotte e la loro idoneità a dimostrare l’innocenza del condannato, non tenendo conto che tali aspetti andavano esaminati in sede di giudizio di revisione. Inoltre la Corte territoriale, per dimostrare l’irrilevanza delle nuove prove, ha fatto riferimento alle motivazioni delle sentenze impugnate.

Secondo giurisprudenza consolidata della Suprema Corte l’esame preliminare della richiesta di revisione deve, invece, limitarsi alla sommaria delibazione delle nuove prove ed alla loro astratta idoneità a determinare la rimozione del giudicato. In tale fase non è consentito alla Corte di Appello valutare l’attitudine del "novum", ma solo accertare che sussistano i requisiti formali, giuridici per la proposizione della richiesta. Peraltro, la Corte ha valutato solo alcune delle dichiarazioni prodotte e solo parte della documentazione; nè ha fatto il minimo accenno alle modalità, al di fuori dei canoni scientifici, di assunzione della testimonianza della minore parte offesa, posta a fondamento della sentenza di condanna, pur avendo lo stesso Tribunale valutato negativamente la condotta della dr.ssa S..

La Corte di Appello ha fatto malgoverno delle norme del codice di rito, non valutando le prove offerte come "prove nuove" ed effettuando un esame nel merito. L’ordinanza impugnata è, altresì, contraddittoria nel punto in cui ha ritenuto non rilevante la prova negativa della condotta dell’imputato. La difesa nella richiesta di revisione aveva indicato come prove nuove una serie di elementi probatori, attestanti che alcun abuso sessuale poteva essere stato commesso dall’imputato. La Corte territoriale ha ritenuto che tali elementi non avessero alcun rilievo ai fini della decisione, con considerazioni peraltro non collimanti con la sentenza di condanna, che aveva fissato temporalmente e spazialmente l’abuso commesso.

Nè è stata valutata quale ulteriore prova la perizia redatta sulla persona del D.G. dal prof. I.F.; nè è stata considerata la richiesta di acquisizione dei tabulati telefonici relativi alle telefonate al 112 e al 113 e la registrazione della telefonata ricevuta da Telefono Azzurro.

Anche di recente la Suprema Corte ha ribadito che l’esame preliminare della Corte di Appello deve limitarsi ad una sommaria delibazione degli elementi di prova addotti, non essendo consentito l’anticipazione dell’apprezzamento di merito. La Corte di Appello non ha fatto corretta applicazione di tali principi, in quanto non si è limitata ad una astratta valutazione della idoneità delle nuove prove addotte a mettere in discussione la pronuncia irrevocabile di condanna, ma ha effettuato, in assenza di contraddittorio, una penetrante valutazione di merito ed ha contraddittoriamente omesso di analizzare altre testimonianze, documenti e perizie, allegate alla richiesta di revisione.

2.1) Con memoria, depositata in cancelleria in data 1.6.2011, si deduce che il P.G. nella sua requisitoria scritta incentra la sua richiesta di declaratoria di inammissibilità del ricorso su punti di merito e non di legittimità, richiamando peraltro giurisprudenza del 2007, superata da quella successiva indicata nel ricorso.

Nel ribadire te precedenti deduzioni e richieste, si sottolinea che, ai fini della declaratoria di inammissibilità la manifesta infondatezza va ricollegata alla assolutamente evidente "incapacità delle ragioni poste a base della richiesta a consentire una verifica circa l’esito del giudizio". 3) Il ricorso va dichiarato inammissibile.

3.1) La richiesta di revisione, prevista dall’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c) nell’ipotesi in cui "dopo la condanna sono sopravvenute o si scoprono nuove prove che, sole o unite a quelle già valutate, dimostrano che il condannato deve essere prosciolto a norma dell’art. 631 c.p.p.", va inquadrata, per una corretta interpretazione della norma, nel più generale principio, delineato dal codice di rito, del cosiddetto "diritto alla prova". 3.1.1) Tale diritto è di natura amplissima, anche perchè costituzionalmente garantito dall’art. 111 Cost., comma 3 ("… di ottenere la convocazione e l’interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore …"), nel giudizio (di primo grado) di cognizione.

In un sistema processuale come quello vigente, caratterizzato dalla dialettica delle parti, alle quali compete l’onere di allegare le prove a sostegno delle rispettive richieste, il giudice deve, pertanto, limitarsi a valutare soprattutto la pertinenza della prova al thema decidendum. Ogni diversa valutazione, collegata alla attendibilità della prova e quindi al "risultato" della stessa, esula dai poteri del giudice (l’art. 190 prevede invero che le prove sono ammesse a richiesta di parte) e finirebbe per espropriare le parti del diritto alla prova.

Tale diritto non è, però, "assoluto", ponendo lo stesso legislatore dei limiti: il giudice è tenuto, infatti, ad escludere le prove vietate dalla legge e quelle che manifestamente sono superflue o irrilevanti (art. 190 c.p.p., comma 1).

Tali principi sono stati reiteratamente ribaditi dalla giurisprudenza di questa Corte secondo cui "il diritto all’ammissione della prova indicata a discarico sui fatti costituenti oggetto della prova a carico, che l’art. 495 c.p.p., comma 2 riconosce all’imputato incontra limiti precisi nell’ordinamento processuale, secondo il disposto degli artt. 188, 139 e 190 cod. proc. pen. e, pertanto, deve armonizzarsi con il potere-dovere, attribuito al giudice del dibattimento, di valutare la liceità e la rilevanza della prova richiesta, ancorchè definita decisiva dalla parte, onde escludere quelle vietate dalla legge e quelle manifestamente superflue o irrilevanti" (cfr. Cass. pen. sez. 2 n. 2350 del 21.12.2004).

3.1.2) Per quanto riguarda il giudizio di secondo grado è altrettanto indubitabile che "… il giudice d’appello, dinanzi al quale sia dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., comma 2 deve decidere sull’ammissibilità della prova secondo i parametri rigorosi previsti dall’art. 190 c.p.p., mentre non può avvalersi dei poteri meramente discrezionali riconosciutigli dal successivo art. 603 in ordine alla valutazione di ammissibilità delle prove non sopravvenute al giudizio di primo grado" (cfr. Cass. sez. 6 n. 761 del 10.10.2006).

Laddove non venga dedotta la violazione dell’art. 495 c.p.p., il giudice di appello, in presenza di una richiesta di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, a norma dell’art. 603 c.p.p., comma 1, dispone l’integrazione istruttoria solo se ritenga che il processo non possa essere deciso allo stato degli atti. La rinnovazione del dibattimento nella fase di appello ha, infatti, carattere eccezionale, dovendo vincere la presunzione di completezza dell’indagine probatoria del giudizio di primo grado. Ad essa può, quindi, farsi ricorso solo quando il giudice la ritenga necessaria ai fini del decidere.

Nel caso in cui, invece, le nuove prove siano sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, il giudice di appello dispone la rinnovazione dell’istruzione nei limiti previsti dall’art. 495 c.p.p., comma 1 (art. 603 c.p.p., comma 2).

La netta distinzione tra le due diverse ipotesi è pacificamente riconosciuta, per cui quando in appello venga richiesta l’assunzione di nuove prove, il giudice di appello è obbligato a disporre la rinnovazione del dibattimento se le nuove prove di cui si chiede l’assunzione siano sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, mentre negli altri casi solo se ritenga di non essere in grado di decidere allo stato degli atti. li sistema delineato dal legislatore è, quindi, assolutamente lineare e coerente. La parte che non abbia fatto richiesta dei mezzi di prova nei limiti e nei termini di cui all’art. 495 può (a parte il caso di ammissioni di prove ex art. 507 c.p.p. cui non può non far seguito l’ammissione delle eventuali prove contrarie), successivamente, vedersi riconosciuto il diritto alla prova soltanto se si tratti di prove nuove o scoperte dopo il giudizio di primo grado. In tal caso (e solo in tal caso) vi è una sorta di "restituzione in termini", venendo la parte rimessa nella situazione preesistente; sicchè il giudice deve decidere sull’ammissione della prova secondo i criteri di cui al combinato disposto dell’art. 495, comma 1 (richiamato dall’art. 603 c.p.p., comma 2) e art. 190 c.p.p., potendola quindi rigettare soltanto se "manifestamente superflua o irrilevante". Il diritto alla prova nel giudizio di appello si presenta, quindi, "affievolito" e circoscritto nei confini sopra delineati.

3.1.3) Nel giudizio di cassazione, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d) è possibile dedurre, con il ricorso, la mancata assunzione di una prova decisiva, a condizione, però, che la parte ne abbia fatto richiesta anche nel corso dell’istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall’art. 495 c.p.p., comma 2.

Non è consentita invece, stante la natura stessa del giudizio di legittimità, dedurre l’esistenza di nuove prove sopravvenute e che, quindi, non era stato possibile richiedere nei giudizi di merito.

L’art. 609 c.p.p., comma 2 prevede, invero, che "La Corte decide, altresì, le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello" (comma 2). E1 consentito, pertanto, "superare i limiti del devolutum e dell’ordinata progressione dell’impugnazione soltanto per le violazioni di legge che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello, come nell’ipotesi di ius superveniens e per le questioni di puro diritto, sganciate da ogni accertamento del fatto, rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio. Non sono proponibili per la prima volta in cassazione, invece, le questioni giuridiche che presuppongono un’indagine di merito che, incompatibile con il sindacato di legittimità, deve essere richiesta o almeno prospettata nella sua sede naturale" (Cass. pen. sez. 5 n. 9360 del 13.8.1998; Cass. pen. sez. 2 n. 48308 del 15.10.2004; Cass. pen. sez. 4 n. 6829 del 2009).

3.1.4) Risulta evidente, allora, che il "diritto alla prova" subisce, nella progressione dei vari gradi del giudizio di cognizione, limitazioni ed affievolimenti, previsti dal legislatore al fine evidente di evitare che, nel corso degli stessi, vengano rimesse completamente in discussione le intervenute acquisizioni probatorie.

Di tanto non può non tenersi conto nella interpretazione della norma che prevede, in presenza di nuove prove sopravvenute dopo la condanna, la richiesta di revisione. Trattandosi di una impugnazione straordinaria che consente di travolgere il giudicato, la richiesta va valutata rigorosamente. Come si legge nella relazione preliminare al codice di procedura penale, si è introdotto "un procedimento preliminare di delibazione, da parte della stessa Corte di Appello, dell’ammissibilità della richiesta di revisione, al fine di evitare impugnazioni pretestuose o palesemente infondate, per cui si spiega la possibilità e la previsione di una condanna del richiedente al pagamento di una somma determinata a favore della cassa delle ammende".

Ed infatti il legislatore ha introdotto dei limiti di carattere generale con l’art. 631 c.p.p. (già peraltro "anticipati" nell’art. 630 c.p.p., comma 1, lett. c), prevedendo che, a pena di inammissibilità della domanda, gli elementi in base ai quali si chiede la revisione debbano essere tali da dimostrare, se accertati, che il condannato deve essere prosciolto a norma degli artt. 529, 530 o 531.

Niella ipotesi, quindi, di richiesta di revisione formulate ex art. 630, comma 1, lett. c) debbono ricorrere due condizioni e cioè che:

a) dopo la condanna siano sopravvenute o si scoprano nuove prove; b) tali prove, sole o unite a quelle già valutate, dimostrino che il condannato debba essere prosciolto a norma dell’art. 631 (che, come si è visto richiama gli artt. 529, 530 e 531). Condizioni queste poste dal legislatore a pena di ammissibilità della domanda.

Di tanto bisogna tener conto nella interpretazione dell’art. 634 c.p.p. che consente la declaratoria, anche di ufficio ed inaudita altera parte, di inammissibilità della richiesta quando non vi sia stata l’osservanza delle disposizioni previste, tra l’altro, dall’art. 631, ovvero quando la richiesta medesima risulti manifestamente infondata. Ma perchè la Corte di Appello possa accertare che le nuove prove sopravvenute siano idonee, come recita l’art. 631 c.p.p., a determinare il proscioglimento del condannato è necessario che ne venga valutata non solo la pertinenza, ma anche la rilevanza in relazione a quanto già accertato nel giudizio di cognizione.

Una diversa interpretazione della norma, come quella prospettata dal ricorrente, porterebbe inevitabilmente, sulla base di un giudizio astratto di idoneità delle nuove prove, a far luogo indiscriminatamente al giudizio di revisione, dovendosi, nell’ipotesi di superamento del vaglio di ammissibilità, disporre l’emissione del decreto di citazione, da parte del Presidente della Corte di Appello, ai sensi dell’art. 636 c.p.p.. E tanto risulta ancora più evidente con riguardo all’attuale disciplina della revisione, che rende impropria la distinzione tra una fase rescindente ed una fase rescissoria, "non essendo più previsto uno stadio della procedura che si concluda con la revoca o l’annullamento della precedente sentenza" (cfr. Cass. sez. n. 29660 del 17.6.2003).

3.1.4.1) La rigorosa valutazione, imposta dal legislatore, della richiesta di revisione (ad evitare lo svolgimento di un "quarto grado" di giudizio), risulta sostanzialmente ribadita, tranne qualche isolata decisione, peraltro non sempre correttamente interpretata, dalla giurisprudenza di questa Corte.

Con la già citata sentenza n. 29660/2003 si affermava che: "… attesa la espressa previsione nell’art. 634 c.p.p., come autonoma causa di inammissibilità della richiesta, della manifesta infondatezza, della medesima, risulta attribuito alla Corte d’appello, nella fase preliminare prevista dalla medesima disposizione, un limitato potere-dovere di valutazione, anche nel merito, della oggettiva potenzialità degli elementi addotti dal richiedente, ancorchè costituiti da "prove" formalmente qualificabili come "nuove", a dar luogo ad una necessaria pronuncia di proscioglimento. Appare dunque necessaria e legittima la delibazione prognostica circa il grado di affidabilità e di conferenza dei nova, che non si traduca in un’approfondita e indebita anticipazione del giudizio di merito". Sulla stessa linea si muove anche la pronuncia della sez. 5 (cfr. ord. n. 11659 del 22.11.2004) e, più di recente, della sez. 1 (sent. n. 40815 del 14.10.2010.). A ben vedere anche le decisioni che apparentemente (per come massimate) danno della norma una interpretazione meno rigorosa ("l’esame preliminare della Corte di Appello circa il presupposto della non manifesta infondatezza deve limitarsi ad una sommaria delibazione degli elementi di prova addotti, in modo da verificare l’eventuale sussistenza di una infondatezza rilevabile "ictu oculi" e senza necessità di approfonditi esami, dovendosi ritenere preclusa in tale sede una penetrante anticipazione dell’apprezzamento di merito …") non si discostano sostanzialmente dalla linea interpretativa in precedenza ricordata. Con la sentenza da ultimo citata, infatti, la sezione 6, esaminando il caso concreto, evidenziava che la Corte di Appello non si era limitata ad un’astratta valutazione circa l’attitudine del novum addotto a sostegno della richiesta di revisione a porre in discussione il fondamento della pronuncia irrevocabile di condanna. La Corte territoriale, infatti, "ha proceduto ad approfonditi apprezzamenti di merito, escludendo, da un lato, la persuasività ed affidabilità delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia … in ragione dello stretto rapporto di amicizia esistente tra quest’ultimo ed il condannato …". La Corte territoriale, quindi, si era spinta ad una valutazione sul "contenuto" delle dichiarazioni, formulando un giudizio di inattendibilità delle stesse, e, su tali basi, aveva ritenuto che la prova nuova addotta fosse inidonea a porre in discussione la pronuncia irrevocabile di condanna.

In conclusione può enunciarsi (e, sotto certi aspetti, ribadirsi) il seguente principio di diritto: ai fini della declaratoria di inammissibilità prevista dall’art. 634 c.p.p. è consentito alla Corte di Appello valutare la pertinenza, rilevanza ed idoneità delle "nuove prove", sulla base di quanto prospettato nella stessa richiesta di revisione, a far luogo ad una pronuncia di proscioglimento, senza, però, procedere ad alcuna valutazione in ordine alla loro verosimiglianza ed attendibilità. 3.2) A tale principio, pur con qualche "eccesso motivazionale", si è sostanzialmente attenuto la Corte territoriale.

Ha, innanzitutto, ritenuto che le dichiarazioni rese da G. G. e B.M. non presentassero "quel carattere di attitudine dimostrativa dell’assunto difensivo (nel senso attribuito e voluto dal proponente) …". La Corte di Appello, pur considerando "vere" le loro dichiarazioni in relazione alle informazioni ricevute dalla parte offesa, ha ritenuto, da un lato, che la circostanza della telefonata fatta per scherzo a Telefono Azzurro era stata già valutata dai giudici di merito e, dall’altro, che costituivano mere supposizioni dei dichiaranti l’assunto che l’amica loro raccontava tutto e che quindi se ciò non era avvenuto, solo per tale fatto, significava che le molestie non si erano verificate". Sulla base di tali rilievi, adeguatamente argomentati, la Corte ha ritenuto che, in riferimento, alle predette dichiarazioni, palesemente, non potesse parlarsi di "prova nuova" idonea a porre in discussione il giudicato.

Quanto alle relazioni tecniche dell’arch. L.A. e dell’ing. Ga.Ro., volte a dimostrare che, stante le caratteristiche dell’appartamento, qualsiasi tipo di suono era percepibile da persone di normale udito, esse non giovavano certo all’intento revisionistico, stante la assoluta ininfluenza dell’accertamento alla luce di quanto accertato in giudizio e cioè che 1) N. aveva sempre dichiarato che lo zio approfittava di lei quando erano soli in casa oppure con la presenza nell’appartamento del piccolo S. di circa 4/5 anni che veniva però "collocato" davanti al televisore a vedere video cassette; 2) N. non aveva fatto mai riferimento a sue manifestazioni verbali di opposizione tali da poter essere percepite da terzi; 3) Il D.G. poneva in essere gli abusi adottando idonee precauzioni. Con motivazione altrettanto puntuale ed immune da vizi logici la Corte territoriale ha correttamente ritenuto che la consulenza della psicologa dr.ssa D.S. non potesse costituire "prova nuova". Dopo aver richiamato la giurisprudenza di questa Corte, secondo cui possono costituire prove nuove quelle che, pur incidendo su un tema già oggetto di indagine, siano fondate su tecniche diverse ed innovative, ha rilevato che la relazione D. S. non aveva certamente siffatte "caratteristiche", essendosi la predetta limitata "a rivisitare il giudizio espresso dal prof. V. in merito alle dichiarazioni a lui rese dalla minore e a riconsiderare, altresì, le ulteriori dichiarazioni dalla stessa fornite in sede di incidente probatorio …". Quanto alle ulteriori "nuove prove" offerte (in particolare, in relazione alle frequenze scolastiche, all’orario di servizio del D.G., alla prestazione di attività di infermiere e di elettricista dopo la ordina attività lavorativa) al fine di dimostrare il carattere menzognero delle dichiarazioni accusatorie della minore, esse erano "nuove" soltanto nella allegazione. Dell’attendibilità della minore si erano, infatti, già diffusamente occupati i giudici della cognizione ed i nuovi elementi prospettati erano assolutamente irrilevanti e quindi palesemente inidonei a consentire un proscioglimento dell’istante. Risultava, infatti, dalle dichiarazioni della minore che gli abusi avvenivano all’interno dell’abitazione e dalle stesse parziali ammissioni dell’imputato emergeva che la bambina si recava nella sua abitazione per essere aiutata nello svolgimento dei compiti di inglese.

Infine, quanto alla relazione psichiatrica-forense del prof. I. F., ha rilevato la Corte che essa risulta altrettanto irrilevante non essendo il comportamento del D.G., per come accertato dai giudici della cognizione, espressione di una "pedofilia compulsiva".

La Corte territoriale, quindi, con motivazione corretta in diritto, esaustiva ed immune da vizi logici, ha ritenuto che le prove offerte (specificamente o implicitamente esaminate) fossero irrilevanti e quindi inidonee a ribaltare il giudicato.

3.2.1) Le censure del ricorrente, a parte i rilievi sulla interpretazione e portata della norma su cui ci si è già diffusamente soffermati in precedenza, si risolvono, per il resto, in deduzioni di mero fatto non proponibili in questa sede di legittimità, oppure nella denuncia di omessa motivazione su singole, specifiche richieste. A tale ultimo proposito va ricordato, però, che "Nella motivazione della sentenza il giudice di merito non è tenuto a compiere un’analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni che hanno determinato il suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; nel qual caso devono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata" (Cass. pen. Sez. 4 n, 1149 del 24.10.2005 – Mirabilia; v. anche Cass. sez. un. n. 36757 del 2004 Rv. 229688).

3.3) Il ricorso va, quindi, dichiarato inammissibile, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al versamento in favore della cassa delle ammende di sanzione pecuniaria che pare congruo determinare in Euro 1.000,00, ai sensi dell’art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali ed al versamento della somma di Euro 1.000,00 in favore della cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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