Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-01-2012, n. 1202

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con lodo arbitrale, reso esecutivo in data 19.10.03 il Ministero degli affari esteri veniva condannato al pagamento della complessiva somma di Euro 5.316.161,88 in favore della Media Coop, ora Co.Ce.P. Spa. Avverso il detto lodo il Ministero proponeva appello e nel corso del giudizio le parti stipulavano una transazione in cui concordavano la rinuncia della Co.ce.p alla somma di Euro 536.344,06 e l’abbandono del giudizio da parte del Ministero. A seguito di precetto notificato dalla Cocep, il Ministero proponeva opposizione ed in esito a tale giudizio il Tribunale di Roma dichiarava la nullità del precetto con sentenza depositata in data 28 ottobre 2008.

Avverso la detta sentenza la Cocep ha quindi proposto ricorso per cassazione articolato in due motivi. Resiste con controricorso, illustrato da memoria il Ministero. Il collegio ha disposto la motivazione semplificata.

Motivi della decisione

Con la prima doglianza, deducendo la nullità della sentenza per omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, parte ricorrente ha censurato la tesi del Tribunale secondo cui, in difetto di un termine espresso entro il quale l’Amministrazione debba comunicare il decreto di approvazione, quest’ultimo può considerarsi valido anche se emanato in ritardo. Così argomentando, il Tribunale avrebbe omesso del tutto di pronunciarsi su un punto decisivo della controversia, vale a dire sul fatto che la mancata comunicazione del decreto di approvazione entro il termine di trenta giorni comporti il mancato perfezionamento dell’iter amministrativo, determinando quindi l’inefficacia del contratto anche per la parte privata.

Con la seconda doglianza, articolata sotto il profilo della nullità della sentenza per violazione e/o falsa applicazione di legge, il ricorrente lamenta che il giudice del merito avrebbe errato quando ha ritenuto che la Cocep non potesse notificare al Ministero una diffida ad adempiere con effetto risolutivo ma avrebbe dovuto seguire la procedura diretta a far maturare il silenzio rifiuto della P.A.. Ha quindi concluso il motivo di impugnazione con quattro distinti quesiti di diritto cumulativi.

Sia l’una che l’altra doglianza sono inammissibili. Quanto alla prima, deve tenersi presente che, ai sensi dell’art. 366 bis cod. proc. civ., introdotto dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 6, applicabile alle sentenze pubblicate dal 2 marzo 2006, ove sia denunciato un vizio motivazionale ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, così come è avvenuto nel caso di specie, la censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, oltre a richiedere sia l’indicazione del fatto controverso, riguardo al quale si assuma l’omissione, la contraddittorietà o l’insufficienza della motivazione sia l’indicazione delle ragioni per cui la motivazione sarebbe inidonea a sorreggere la decisione (Cass. ord. n. 16002/2007, n. 4309/2008 e n. 4311/2008). Nella specie, il motivo non è accompagnato da alcun momento di sintesi. Ora, posto che la norma di cui all’art. 366 bis citato non può essere interpretata nel senso che il momento di sintesi possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo di ricorso, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione, il motivo in esame deve essere dichiarato inammissibile, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c.. Quanto alla seconda, l’inammissibilità discende da un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, va considerato che, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, la formulazione del quesito di diritto di cui all’art. 366 bis cod. proc. civ. deve avvenire in modo rigoroso e preciso, evitando quesiti multipli o cumulativi. (Cass. n. 5471/08, n. 1906/08). In secondo luogo, va sottolineato che i quesiti formulati non solo non contengono le informazioni necessarie a consentire una risposta utile alla definizione della controversia ma si esauriscono in generici interpelli, rivolti alla Suprema Corte invitandola a compiere vari accertamenti: esattamente a) se nella fattispecie de qua si possa invocare l’applicabilità del termine di cui alla L. n. 241 del 1990, art. 2; b) se l’art. 2 citato abbia comportato l’eliminazione della procedura di formazione del silenzio rifiuto; c) se il termine di trenta giorni integri l’atto privatistico: d) se decorso il termine, la parte privata abbia la possibilità di avvalersi del diritto potestativo di cui al R.D. n. 827 del 1924, art. 114. E ciò, nonostante il consolidato orientamento di questa Corte, secondo cui il ricorrente ha invece l’onere di procedere all’enunciazione di un principio di diritto diverso da quello posto a base del provvedimento impugnato e, perciò, tale da implicare un ribaltamento della decisione adottata dal giudice a quo, formulando un quesito che deve costituire la chiave di lettura delle ragioni esposte e porre la medesima Corte in condizione di rispondere ad esso con l’enunciazione di una "regula iuris" che sia, in quanto tale, suscettibile di ricevere applicazione in casi ulteriori rispetto a quello sottoposto all’esame del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata. Ciò vale a dire che la Corte di legittimità deve poter comprendere dalla lettura del solo quesito, inteso come sintesi logico-giuridica della questione, l’errore di diritto asseritamene compiuto dal giudice e quale sia, secondo la prospettazioni del ricorrente, la regola da applicare" (cfr S.U. n. 3519/2008). Il ricorso per cassazione in esame deve essere pertanto dichiarato inammissibile. Segue la condanna della ricorrente alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 12.200,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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