Cass. civ. Sez. III, Sent., 27-01-2012, n. 1201 Opposizione all’esecuzione procedimento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto di precetto notificato il 5.11.2007, P.R., premesso che con sentenza emessa dal Tribunale di Rossano gli era stato assegnato, in sede di divisione di comunione ereditaria, unitamente ai propri germani, l’intero primo piano di una palazzina in (OMISSIS) e che P.M. e P. G. erano rimaste ancora nel possesso di un vano e di un locale sottotetto posto al primo piano, intimava alle germane P. il rilascio dei due locali entro il termine di dieci giorni. Proponevano opposizione all’esecuzione P.M. e P.G.. In esito al giudizio, il Tribunale di Rossano rigettava l’opposizione proposta con sentenza depositata il 24 giugno 2009. Avverso tale decisione le soccombenti hanno proposto ricorso per cassazione ex art. 111, comma 7 articolato in tre motivi,illustrato da memoria. Resiste con controricorso P. R..

Motivi della decisione

In via preliminare, occorre soffermare l’attenzione su una questione preliminare sollevata dal controricorrente, il quale ha eccepito l’inammissibilità del ricorso proposto in quanto alla sentenza impugnata difetterebbero – così scrive il P. – "i connotati essenziali al ricorso straordinario ex art. 111 Cost., comma 7 ovvero la definitività del provvedimento per assenza di ordinar rimedi impugnatori". E ciò, per effetto della recente L. 18 giugno 2009, n. 69 che ha abrogato l’ultima parte dell’art. 616 c.p.c. con applicazione immediata ai giudizi pendenti ai sensi dell’art. 58 legge citata per cui la sentenza emessa in esito all’opposizione all’esecuzione è impugnabile con gli ordinari mezzi impugnatorì.

L’eccezione è infondata. Se è vero infatti che l’ultimo periodo dell’art. 616 citato ("La causa è decisa con sentenza non impugnabile") è stato soppresso dalla L. n. 69 del 2009, art. 49, comma 2 ed è stato pertanto ripristinato il precedente regime che prevedeva la normale appellabilità delle sentenze in materia, deve considerarsi in senso contrario che, in caso di successione di leggi, il regime di impugnabilità dei provvedimenti giurisdizionali va desunto dalla normativa vigente quando essi sono venuti a giuridica esistenza (cfr Corte Costituzionale n. 53/2008) con la conseguenza che deve ritenersi che le sentenze pubblicate dall’1 marzo 2006 al 4 luglio 2009 (data di entrata in vigore della L. n. 69 del 2009) siano restate inappellabili.

Del resto, anche questa Corte ha già avuto occasione di statuire a riguardo, affermando che operando il principio "tempus regit actum" il regime delle impugnazioni della sentenza deve essere determinato dalla legge vigente al momento in cui l’atto viene posto in essere (Cass. n. 26294/07, n. 20414/06, n. 6099/00). Tale principio è stato peraltro ribadito da alcune decisioni successive, con specifico riferimento alla nuova formulazione dell’art. 616 c.p.c. (Cass. n. 2043/2010, n. 1402/2011). Ed è appena il caso di sottolineare che la sentenza impugnata nella specie risulta pubblicata il 24 giugno 2009, venendo così a giuridica esistenza prima dell’entrata in vigore della legge più volte citata.

Passando ad esaminare la prima doglianza, articolata sotto il profilo della violazione degli artt. 616, 163, 624 e 625 c.p.c., va osservato che le ricorrenti hanno censurato la sentenza impugnata deducendo che il giudice dell’esecuzione, davanti al quale è stato proposta l’opposizione con richiesta di sospensione, avrebbe l’obbligo di provvedere sull’istanza di sospensione e di fissare un termine perentorio per l’introduzione del giudizio di merito ex art. 616 c.p.c. con la conseguente nullità della sentenza emessa all’esito della delibazione con rito camerale senza dare i provvedimenti previsti per instaurare il giudizio di cognizione. Il motivo è infondato. A riguardo, corre l’obbligo di avvertire che l’art. 616 c.p.c., nel testo sostituito dalla L. n. 52 del 2006, art. 14 deve essere interpretato nel senso che l’introduzione del giudizio di merito nel termine perentorio fissato dal giudice dell’esecuzione all’esito dell’esaurimento della fase sommaria introdotta a norma dell’art. 615 c.p.c., comma 2, deve avvenire con la forma dell’atto introduttivo richiesta in riferimento al rito con cui l’opposizione deve essere trattata quanto alla fase a cognizione piena e, quindi, con citazione previamente notificata e poi iscritta ruolo se l’opposizione rientra nell’ambito delle controversie soggette al rito ordinario oppure con ricorso depositato presso l’ufficio cui appartiene quel giudice e poi notificato nel termine successivamente, qualora la materia rientri fra quelle soggette ad un rito in cui la causa si introduce con ricorso ed è il giudice a fissare l’udienza.

Non vi è dubbio quindi che il giudice dell’esecuzione, nel caso di specie, avrebbe dovuto assicurare la garanzia della cognizione piena alle parti emettendo i provvedimenti previsti dall’art. 616 citato all’esito dell’udienza "camerale" laddove, senza decidere sull’istanza di sospensione, ha invece fissato una nuova udienza davanti a sè, invitando le parti a produrre documenti, disponendo la comparizione del CTU e riservando infine la causa a sentenza.

Ciò premesso, se può ritenersi certa la violazione, da parte del giudice dell’opposizione, del disposto di cui all’art. 616 c.p.c., violazione censurabile in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 e non n. 3, come inammissibilmente hanno fatto le ricorrenti, appare opportuno, per converso, portare l’attenzione sul rilievo, avanzato dal controricorrente, secondo il quale la doglianza, proposta dalle ricorrenti, non meriterebbe comunque di essere accolta per un duplice ordine di considerazioni. Ed invero, si dovrebbe tener presente, in primo luogo, che le ricorrenti non hanno mai sollevato la questione nel giudizio di opposizione all’esecuzione; in secondo luogo, che esse, all’udienza del 21 maggio 2009, hanno espressamente richiesto che la causa venisse rimessa in decisione. Pertanto – così conclude il contro ricorrente – andrebbe applicato il principio del raggiungimento dello scopo che consente la conservazione dell’attività giuridica svolta quante volte sia stata realizzata, come nella specie, senza compressione del contraddittorio e del diritto di difesa delle parti. Ciò, senza considerare che, a norma dell’art. 157 c.p.c., la nullità non può essere opposta dalla parte che vi ha rinunciato anche tacitamente.

Tali argomenti meritano attenzione. Ed invero, già in altra decisione, questa Corte ha statuito il principio di diritto secondo cui la trattazione da parte del giudice adito della controversia con un rito diverso da quello previsto non determina alcuna nullità del procedimento e della sentenza successivamente emessa, se la parte non deduca e dimostri che dall’adozione di un rito diverso le sia derivata lesione del diritto di difesa. (cfr Cass. n. 9163/95).

Ora, le ricorrenti si sono limitate, nel caso di specie, ad eccepire la nullità del procedimento per il solo fatto della diversità di rito adottato, senza nulla dedurre in tema di violazione del proprio diritto di difesa e senza prospettare in concreto le ragioni che non hanno potuto valere in loro difesa e che avrebbero potuto farlo invece qualora il giudice dell’opposizione avesse dato corso ai provvedimenti di cui all’art. 616 c.p.c..

Nè vale osservare in senso contrario che in tal modo si renderebbe facoltativa l’osservanza delle norme procedimentali previste dalla legge, condividendosi a riguardo le considerazioni svolte in motivazione da Cass. n. 9163/95, secondo cui "principio generale del nostro ordinamento processuale è quello della tassatività delle cause di nullità, per cui non può essere dichiarata la nullità per l’inosservanza di una determinata norma, ove tale nullità non sia espressamente prevista, temperato dall’altro, per cui la nullità può pronunciarsi qualora l’inosservanza impedisca all’atto di raggiungere il proprio scopo malgrado non esista un’espressa comminatoria di legge. I principi ora enunciati comportano, quindi, non già l’irrilevanza dell’inosservanza di un determinato rito, ma la inidoneità di tale inosservanza a determinare, di per sè stessa ed in difetto di espressa previsione, la nullità del procedimento, ove, ciò malgrado, lo scopo voluto dalla legge sia comunque stato raggiunto".

Passando all’esame delle successive doglianze, va premesso che la seconda per violazione dell’art. 112 c.p.c. è conclusa dal seguente quesito di diritto: "il giudice dell’opposizione ha la funzione giurisdizionale di esaminare il titolo giudiziario posto a base dell’esecuzione solo sotto il profilo della regolarità estrinseca e non certo sotto il profilo del suo contenuto decisorio per cui pronuncia oltre i limiti della domanda quando istruisce la causa e decide intervenendo (modificandolo o integrandolo) sul contenuto decisorio del titolo" mentre l’ultima per violazione dell’art. 2909 c.c. e dell’art. 12 preleggi, è conclusa dal seguente quesito: "il giudice dell’opposizione all’esecuzione deve interpretare il titolo giudiziale passato in giudicato secondo le regole di interpretazione fissate dall’art. 12 preleggi per cui viola tali norme il giudice che comprende in una quota ereditaria assegnata con quel titolo un immobile non compreso nella quota ereditaria assegnata all’opposto".

Nell’uno nè l’altro dei quesiti di diritto riportati, risulta formulato in maniera compiuta ed autosufficiente così da soddisfare le prescrizioni di cui all’art. 366 bis c.p.c.. Ed invero, posto che la norma citata non può essere interpretata nel senso che il quesito di diritto possa desumersi implicitamente dalla formulazione del motivo di ricorso, poichè una siffatta interpretazione si risolverebbe nell’abrogazione tacita della norma in questione (Cass. n. 23153/07, ord. n. 4646/08 e n. 21979/08), deve altresì sottolinearsi che il quesito di diritto deve compendiare:

a) la riassuntiva esposizione degli elementi di fatto sottoposti al giudice di merito;

b) la sintetica indicazione della regola di diritto applicata dal quel giudice;

c) la diversa regola di diritto che, ad avviso del ricorrente, si sarebbe dovuta applicare al caso di specie.

Sono pertanto, inammissibili i motivi, conclusi da quesiti che si limitino a dettare la regola di condotta cui deve attenersi il giudice senza riassumere gli elementi di fatto sottoposti al giudice del merito, senza indicare in maniera specifica l’errore o gli errori compiuti e senza enunciare il principio di diritto da applicare, tale da implicare un ribaltamento della decisione adottata dal giudice a quo (cfr S.U. n. 3519/2008, Cass. n. 19769/08). Il ricorso per cassazione in esame deve essere pertanto rigettato. Al rigetto del ricorso segue la condanna delle ricorrenti in solido alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna le ricorrenti in solido alla rifusione delle spese processuali che liquida in Euro 1.800,00 di cui Euro 200,00 per esborsi oltre accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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