Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 23-06-2011) 22-09-2011, n. 34443 Detenzione, spaccio, cessione, acquisto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 16.10.2009 il GUP del Tribunale di Reggio Calabria, all’esito del giudizio abbreviato, riconosceva la penale responsabilità di P.C. in ordine al delitto di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 bis per (capo A) coltivazione di 11 piante di cannabis e (capo B) detenzione di gr.

106,31 di marijuana, condannandolo alla pena di giustizia.

La pena veniva poi ridotta ad anni tre di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa dalla Corte di Appello di Reggio Calabria con sentenza in data 9.12.2010.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione il difensore di fiducia di P.C., che deduce quali motivi:

1. la violazione di legge ed il vizio motivazionale in ordine agli artt. 444 e 448 c.p.p., assumendo che la richiesta di applicazione della pena ritualmente formulata in termini e rinnovata sia nella fase preliminare all’apertura del giudizio abbreviato sia in grado di appello era stata disattesa con pronuncia incidente sul mero rito e priva di motivazione;

2. la violazione di legge ed il vizio motivazionale in relazione alla mancata derubricazione, come richiesto con l’atto d’appello, del capo d’imputazione sub A), concernente la coltivazione di una dozzina di piantine di canapa indiana di altezza inferiore a 10 cm. circa, nel fatto di lieve entità" di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Rappresenta, al riguardo, che la modestissima dimensione delle piantine, la convergenza di altri indici di valutazione e l’assenza di elementi ostativi avrebbero dovuto portare al riconoscimento del cit. D.P.R., art. 73, comma 5, laddove la sentenza impugnata taceva del tutto in ordine al reato di cui al capo A).

3. La violazione di legge ed il vizio motivazionale attesa la ricorrenza di tutti gli indici di valutazione e parametri di indagine che avrebbero dovuto permettere il riconoscimento dell’assoluta tenuità del fatto anche In ordine al reato di cui al capo B).

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e va respinto.

E’ palese la sostanziale aspecificità delle censure mosse che hanno riproposto in questa sede pedissequamente le medesime doglianze rappresentate dinanzi alla Corte territoriale e da quel giudice disattese con motivazione ampia e congrua, immune da vizi ed assolutamente plausibile.

Infatti, quanto al primo motivo di ricorso, è stata correttamente richiamata dalla Corte territoriale la pronuncia di questa Corte (Sez. 2, n. 8455 del 13.4.1995, Rv. 202359), secondo cui "Nell’ipotesi di richiesta di applicazione della pena, seguita, per il dissenso del pubblico ministero, da quella di giudizio abbreviato ritualmente accolta, resta successivamente precluso il vaglio della fondatezza o meno del suddetto dissenso, quale che sia la fase in cui ciò si verifichi". Tale orientamento è stato ribadito da più recenti pronunce di questa Corte, secondo le quali il giudice, qualora all’esito del giudizio abbreviato ritenga ingiustificato il diniego del pubblico ministero alla originaria richiesta di patteggiamento, non può pronunciare sentenza di accoglimento di tale richiesta ai sensi dell’art. 448 c.p.p. (Sez. 6, n. 1940 del 10.12.2009, Rv. 245705); e all’esito del giudizio abbreviato, il procedimento non può più essere definito con una sentenza di patteggiamento (alla quale la richiesta di rito abbreviato implica addirittura rinuncia: Sez. 3, n. 32234 dell’11.7.2007, Rv. 237023), stante la non convertibilità dell’un rito nell’altro (Sez. 1, n. 15451 del 25.3.2010, Rv. 246939). E’ intervenuto sullo specifico punto, finanche, il riscontro ed l’avallo della Corte Costituzionale la quale, con ordinanza n. 125 del 4.6.2003, ha evidenziato che "la denunciata disciplina appare, infatti, frutto di scelte normative non prive di valide giustificazioni in ordine alla configurazione e ai rapporti tra riti alternativi, che consente il sindacato del giudice sul dissenso del pubblico ministero soltanto in esito alla celebrazione del dibattimento"; e, con pronuncia n. 225 del 2003, ha ritenuto la manifesta infondatezza della questione d’illegittimità costituzionale dell’art. 448 c.p.p. nella parte in cui non prevede che il giudice possa ritenere ingiustificato il dissenso del P.M. all’applicazione della pena.

Ne consegue che nel giudizio di appello, celebrato a seguito di giudizio abbreviato, deve senz’altro escludersi la possibilità della rivalutazione del Giudice circa il dissenso del P.M. in ordine alla richiesta di applicazione concordata della pena.

Non meno corretta ed esaustiva è la motivazione addotta a sostegno del diniego del riconoscimento dell’attenuante (e non già titolo autonomo di reato come sostenuto dal ricorrente, attesa la giurisprudenza consolidata di questa Corte di legittimità) di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

E’ stato, al riguardo, giustamente posto in risalto il numero delle dosi medie singole ricavabili (196,2) dai 106,31 grammi di cannabis sequestrati, le modalità di occultamento dello stupefacente in diversi punti dell’abitazione, il rinvenimento della bilancia elettronica di precisione, con sensibilità da un grammo a 3 chilogrammi, e l’estrema accuratezza della sorveglianza dell’immobile con impianto di videosorveglianza, con telecamera e rilevatore di presenza e accensione di un grosso faro nelle ore notturne. Infatti, tale risoluzione s’inquadra perfettamente nello stabile orientamento di questa Corte secondo cui ai fini della concedibilità o del diniego della circostanza attenuante del fatto di lieve entità ( D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5), il giudice è tenuto a valutare complessivamente tutti gli elementi indicati dalla norma, sia quelli concernenti l’azione (mezzi, modalità e circostanze della stessa), sia quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa): dovendo, conseguentemente, escludere la concedibilità dell’attenuante quando anche uno solo di questi elementi porti a escludere che la lesione del bene giuridico protetto sia di "lieve entità". E in un tale contesto valutativo, ove la quantità di sostanza stupefacente si riveli considerevole, la circostanza è di per sè sintomo sicuro di una notevole potenzialità offensiva del fatto e di diffusibilità della condotta di spaccio (Cass. Pen. Sez. 4, 21.11.2007, n. 47188; v. anche Sez. 4, 22.4.2007, n. 18357 e Sez. un. 21.6.2000, n. 17).

Ma tale complessiva valutazione, che parrebbe concernere solo il fatto di cui al capo B), deve ritenersi afferisca anche al reato di cui al capo A).

Invero, è stato affermato (cass. Pen. Sez. 6, n. 49528 del 13.10.2009, rv. 245648) che costituisce condotta penalmente rilevante qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti anche quando sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.

Nè può ritenersi che nel caso di specie, l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite con la sentenza, n. 28605 del 24.4.2008, in linea con la pronuncia della Corte Cost. n. 360 del 1995, sia stato disatteso dalla Corte territoriale: se spetta, comunque, al giudice verificare in concreto l’offensività della condotta ai fini della punibilità della coltivazione non autorizzata delle piante sequestrate, è chiaro come tale offensività sia stata nettamente, benchè implicitamente, ritenuta da entrambi i giudici di merito per effetto della contestualità del rinvenimento delle piantine di cannabis e dei plurimi quantitativi di marijuana e cannabis in vari punti dell’appartamento.

Come è noto, infatti, il termine marijuana si riferisce alla inflorescenze femminili essiccate delle piante di cannabis appartenenti preferibilmente, ma non necessariamente, al genotipo volgarmente detto "canapa indiana".

Ne consegue che la tipologia di stupefacente rinvenuto è indissolubilmente legata alla coltivazione casalinga di cannabis e, quindi, suo diretto e pregresso prodotto.

Sicchè la valutazione espressa dalla Corte distrettuale con il richiamo a tutte le circostanze sopra evidenziate circa la destinazione dello stupefacente allo spaccio e alla preclusione della ravvisabilità dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 in ordine ai "fatti contestati" senza alcuna distinzione tra quelli relativi al capo A) e il capo B), deve ritenersi inglobante l’apprezzamento dell’offensività ella condotta di coltivazione domestica nel caso di specie, chiaramente finalizzata alla produzione dello stupefacente, di sua specifica derivazione, per lo smercio.

Consegue il rigetto del ricorso e, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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