Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 27-01-2012, n. 1150 Revocazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1. – Con ricorso notificato il 27 ottobre 2000, la s.p.a. Ariete Fattoria Latte Sano impugnò dinanzi al Tribunale amministrativo per il Lazio il silenzio-rifiuto formatosi sull’atto del 18 luglio 2000, con il quale essa aveva diffidato e messo in mora il Comune di Roma ad attivarsi in sede di autotutela per risolvere il contratto di compravendita – stipulato con la s.p.a. Cirio a conclusione della gara indetta con avviso in data 2 ottobre 1996 ed avente ad oggetto il trasferimento del settantacinque per cento della quota azionaria della s.p.a. Centrale del latte di Roma -, per indire una nuova gara per la corretta cessione della quota stessa e per risarcirle i danni.

La ricorrente s.p.a. Ariete affermava che: aveva partecipato al procedimento di selezione del contraente di detta vendita, conclusasi poi a trattativa diretta; la s.p.a. Cirio aveva presentato un’offerta di L. 80 miliardi (a fronte di quella di L. 37,5 miliardi da parte della s.p.a. Ariete) e si era aggiudicata la gara; l’aggiudicataria Cirio, in violazione di apposita clausola contrattuale che prevedeva il divieto di cessione ulteriore del bene in questione per la durata di cinque anni, aveva conferito il pacchetto azionario appena acquistato alla s.p.a. Eurolat da essa interamente controllata, al fine di cedere conclusivamente lo stesso pacchetto azionario alla s.p.a. Parmalat.

Con motivi aggiunti, notificati in data 14 febbraio 2001, a seguito del deposito di documentazione da parte del Comune di Roma e della Cirio, la ricorrente s.p.a. Ariete proponeva ulteriori censure, in particolare volte a sostenere l’illiceità e l’illegittimità della transazione intervenuta tra il Comune di Roma, la Cirio, la Parmalat e la Eurotat in data 7 luglio 1999, con la quale, a novazione del contratto di compravendita, la Parmalat faceva proprie le obbligazioni assunte dalla Cirio nei confronti del Comune di Roma a decorrere dalla data del trasferimento a suo favore della partecipazione nella società cessionaria, la Cirio si obbligava a corrispondere al Comune, alla data del trasferimento delle azioni a Parmalat, l’importo complessivo di L. 15.000.000.000 ed il Comune rinunciava ad ogni pretesa o diritto ai sensi del contratto di compravendita, del contratto parasociale e degli artt. 7 e 25 dello Statuto della Centrale del Latte.

Il T.a.r. adito, con la sentenza n. 506 del 28 gennaio 2003, dichiarò il proprio difetto di giurisdizione, ritenendo estranea alla giurisdizione amministrativa ogni vicenda successiva alla stipulazione de contratto ed alla procedura di selezione del contraente e, pertanto, dichiarò inammissibile il ricorso. Il T.a.r., peraltro, rilevò che, ove mai si fosse ritenuta superabile la predetta inammissibilità, l’ipotetico accoglimento del ricorso avrebbe potuto comportare solo l’ordine alla Amministrazione di rispondere alla intimazione, ma non certo la determinazione del contenuto sostanziale di tale ordine.

1.1. – A seguito di appello della s.p.a. Ariete, il Consiglio di Stato con la sentenza n. 4167 del 14 luglio 2003, dichiarò la giurisdizione del Giudice amministrativo e rinviò la causa ad altra sezione del T.a.r. originariamente adito.

1.2. – Avverso questa sentenza propose ricorso per cassazione il Comune di Roma.

La sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 9103 del 3 maggio 2005, rigettò il ricorso affermando la giurisdizione del Giudice amministrativo.

Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte ha testualmente osservato quanto segue: "2. Osserva il collegio che ai fini della identificazione della giurisdizione occorre sempre far riferimento al petitum sostanziale, anche al di là della formulazione letterale delle domande introduttive del giudizio. Nel caso che ne occupa il petitum prospettato al Tar con il suo ricorso dalla s.p.a. Ariete è letteralmente basato sulla L. n. 1034 del 1971, art. 23 bis e mira alla declaratoria dell’obbligo del Comune di rispondere, positivamente, alla sua diffida e messa in mora con la quale lo si sollecita all’esercizio dell’autotutela, utile a riparare ad un comportamento dello stesso ente illecito, oltre che omissivo. E’ ben vero come la giurisprudenza di queste Sezioni Unite ha chiarito, (sent. SS.UU., n. 10726 del 2002) che tale norma disciplina un rito che presuppone la sussistenza della giurisdizione amministrativa ma non reca alcuna modifica ai criteri di riparto delle giurisdizioni.

Tuttavia deve osservarsi che la s.p.a. Ariete, che aveva lamentato con la diffida che il Comune anzichè reagire all’inadempimento del contraente, e quindi anzichè caducare la cessione della quota azionaria e disporre una nuova gara aveva tenuto un comportamento inerte, chiede esplicitamente che il giudice ordini che tale inerzia cessi e dichiari l’obbligo della P.A. di provvedere sulla sua istanza e, quindi, quello di operare in autotutela rimuovendo le allegate illegittimità. L’atto giudiziario del privato mira pertanto a rimuovere non tanto e non solo la inerzia della P.A. sulla quale gravava il dovere di rispondere, ma la illegittimità derivata a suo avviso dalla mancata valutazione dell’interesse pubblico alla autotutela, che pertanto, a suo avviso, era da esercitarsi provvedendo positivamente in un certo modo. La allegazione al T.a.r. riguarda dunque l’esercizio illegittimo, quanto al rapporto sostanziale fatto valere, dei poteri della Pubblica Amministrazione con conseguente lesione del suo interesse legittimo al corretto svolgimento della gara per la dismissione della Centrale del latte di Roma e dunque quello alla sua ripetizione. Il petitum quindi, è di annullamento di tutta la complessa operazione a partire dalla aggiudicazione che è stata posta in essere dal Comune per la dismissione in questione. E’ ben vero che Ariete Latte Sano avanza anche una domanda di declaratoria dell’obbligo di risolvere il contratto stipulato con la Cirio, ma ciò sempre in ragione della denunciata illegittimità della operazione ed in vista della indizione di una nuova gara, come si trae dal riferimento in ricorso alla reintegrazione in forma specifica del suo interesse legittimo leso ai sensi del D.Lgs. n. 80 del 1998, art. 35 nel testo successivo all’intervento della L. n. 205 del 2000. Parimenti tali circostanze vengono considerate quali cause di pregiudizio economico ma ciò, ancora una volta, lungi dal caratterizzare la vicenda come estranea alla G.A., delinea un assetto disciplinato dalla L. n. 205 del 2000, nel vigore della quale la domanda venne proposta. La s.p.a. Ariete infatti allegando le ragioni che a suo dire avevano indotto la P.A. a tenere il comportamento omissivo che si chiedeva di dichiarare illegittimo, tende al riesame della precedente attività amministrativa ed all’accertamento della sua illegittimità, anche al fine di una pronuncia di risarcimento del danno inteso quale diritto patrimoniale consequenziale. Siffatta domanda non fuoriesce dalla giurisdizione amministrativa ai sensi della L. n. 205 del 2000, art. 7, lett. e)". 1.3. – Il giudizio venne riassunto davanti al T.a.r. che, con la sentenza n. 2883 del 16 aprile 2006, accolse in parte il ricorso della Società Ariete, sul presupposto dell’operatività della clausola risolutiva espressa.

Il Consiglio di Stato, con sentenza n. 247 del 2006, annullò tale sentenza per difetto di contraddittorio, rinviando la causa al primo giudice.

1.4. – Il T.a.r., con la sentenza n. 7119 del 27 luglio 2007, accolse il ricorso della s.p.a. Ariete e, per l’effetto, dichiarò illegittimo il silenzio rifiuto del Comune di Roma, ordinò a quest’ultimo di dare esecuzione alla diffida notificatagli dalla ricorrente attraverso l’adozione di un provvedimento espresso, nel termine di sessanta giorni dalla comunicazione o dalla notificazione della sentenza, e condannò lo stesso Comune di Roma al risarcimento del danno in favore della s.p.a. Ariete "nei limiti e nei termini di cui in motivazione, nella misura che sarà liquidata con successivo accordo tra le parti, secondo i criteri indicati in motivazione". In particolare, il Tribunale amministrativo affermò che vi era stata un’illegittima rinegoziazione delle clausole contrattuali e che tale rinegoziazione aveva determinato la nullità degli atti di gara e di quelli contrattuali.

1.5. – Avverso tale sentenza proposero appello la Parmalat, il Comune di Roma e la Cirio.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 5845 del 26 novembre 2008, riuniti gli appelli, li accolse e, per l’effetto, respinse il ricorso di primo grado della s.p.a. Ariete, disponendo altresì la trasmissione della decisione alla Procura regionale della Corte dei conti del Lazio.

Per quanto in questa sede ancora rileva, il Consiglio di Stato ha testualmente osservato quanto segue: "146. La Sezione ritiene utile, prima dell’emissione del dispositivo, condensare in brevi punti gli argomenti svolti e le conclusioni alle quali è pervenuta, tenendo conto delle contestazioni globali alla pronuncia esposte nei tre atti di appello riuniti. 147. La tesi della rinegoziazione è smentita sia con riferimento alla struttura normativa e alla funzione del procedimento di dismissione attuato con il metodo della trattativa diretta sia per tabulas. 148. E’ in atti la prova che la trattativa diretta si è svolta attraverso una progressiva negoziazione di tutte le clausole dell’originario progetto e sulle quali l’Amministrazione ha manifestato a tutti i partecipanti (compresa l’appellata Ariete) la piena disponibilità alla modificazione. 149. La conoscenza di tale disponibilità era estesa a tutte le parti (compresa l’appellata) fin dal gennaio 1997; la piena conoscenza delle modificazioni delle varie clausole, a seguito degli interventi dialettici delle imprese ammesse alla trattativa, va riportata, a tutto concedere, al 10 giugno 1997, data nella quale Ariete e le altre partecipanti hanno accettato con sottoscrizione e rimesso il testo del contratto e dei patti parasociali così come modificato (rinegoziato se si vuole) nel corso della trattativa. 150. I patti parasociali così sottoscritti anche da Ariete prevedevano la possibilità dell’inadempimento e la sanzionavano con la penale di L. un miliardo oltre il maggiore danno: il contratto di cessione a Cirio e la successiva transazione per il trasferimento a Parmalat non modificano in alcun modo le su indicate clausole, ma si pongono come puntuale applicazione di quelle. 151. Gli atti di diritto privato posti in essere non sono nulli e, alla stregua di quanto rilevato, neppure annullabili: in ogni caso la relativa declaratoria di tali effetti non compete al Giudice amministrativo, bensì all’Autorità giudiziaria ordinaria così che la pronuncia in esame ha violato in modo consistente i canoni del riparto di giurisdizione. 152. Non è legittimato a richiedere l’esercizio di autotutela e comunque statuizioni in proposito per il tramite del rito previsto dalla L. n. 1034 del 1971, art. 21 bis il soggetto che abbia partecipato alla procedura, abbia avuto piena conoscenza di clausole asseritamente lesive e non le abbia impugnate, accettandole per contro con la sottoscrizione in calce a documenti rimessigli dall’Amministrazione.

153. Non è invero ammissibile una reviviscenza dell’interesse legittimo, quando tale situazione giuridica sia coperta dall’inoppugnabilità degli atti che si assume lesivi; a maggior ragione, non può considerarsi validamente costituita, nell’odierna appellata, una legittimazione concernente la specifica qualità di imprenditore, che agisce a tutela della par condicio. 154. Nel caso di specie, la par condicio nei confronti dei partecipanti è stata pienamente rispettata e l’ipotesi che la conoscenza della negoziabilità delle clausole avrebbe determinato un aumento della platea delle imprese interessate è non solo frutto di un’argomentazione ipotetica priva di fondamento cognitivo, ma anche erronea per l’inesatta individuazione della natura del procedimento attivato D.L.n. 332 del 1994, ex art. 1, comma 2. 155. La normativa di riferimento, infatti, non prescrive una gara sulla falsariga della procedura ristretta e in ragione di una irrevocabile e immodificabile ipotesi contrattuale, ma incentiva una metodica d’incontro degli imprenditori interessati con l’Amministrazione al fine di conseguire il loro specifico apporto dialettico, per una modificazione calibrata delle clausole e, in genere, delle condizioni del contratto, esattamente come avviene quando può liberamente esplicarsi l’autonomia privata". 1.6. – Avverso tale sentenza – in particolare, nella parte in cui aveva affermato: "Gli atti di diritto privato posti in essere non sono nulli e, alla stregua di quanto rilevato, neppure annullabili:

in ogni caso la relativa declaratoria di tali effetti non compete al Giudice amministrativo, bensì all’Autorità giudiziaria ordinaria così che la pronuncia in esame ha violato in modo consistente i canoni del riparto di giurisdizione" – la Società Ariete propose ricorso per cassazione.

In contraddittorio con la s.p.a. Cirio Finanziaria in amministrazione straordinaria, con la A.t.i.r. (Associazione per la tutela delle istituzioni della Città di Roma e dei Romani), con la s.p.a.

Parmalat e con il Comune di Roma, le sezioni unite della Corte di cassazione, con la sentenza n. 17349/09 del 24 luglio 2009, accolsero il secondo motivo del ricorso – con il quale era stata censurata la dichiarazione del difetto di giurisdizione del giudice amministrativo sulla richiesta di dichiarazione di nullità dei contratti di compravendita e della successiva transazione, per essersi formato il giudicato implicito sulla giurisdizione del giudice amministrativo, per effetto sia della sentenza dal Consiglio di Stato n. 4167 del 2003 (cfr., supra, n. 1.1.), sia della sentenza della Corte di cassazione n. 9103 del 2005 (cfr., supra, n. 1.2.), sia della sentenza del T.a.r. n. 7119 del 2007 (cfr., supra, n. 1.4.), oggetto dell’appello deciso con la sentenza del Consiglio di Stato impugnata -, cassarono la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, affermarono la giurisdizione del giudice amministrativo e rinviarono la causa al Consiglio di Stato.

Per quanto in questa sede ancora rileva, la Corte relativamente alla censura accolta, ha: a) innanzitutto, richiamato il principio enunciato con la precedente sentenza n. 9103 del 2005 e la motivazione che ne è alla base, traendone la conclusione che da tale sentenza "emerge che le S.U. hanno affermato la giurisdizione dell’AGA ai fini della domanda di annullamento di tutta la complessa operazione, ivi compresa la stessa declaratoria dell’obbligo della p.a. di annullamento dei contratti, quale forma di reintegrazione in forma specifica"; b) in secondo luogo, affermato che "In ogni caso, anche a prescindere dalla predetta sentenza, il giudicato sulla giurisdizione del Giudice amministrativo nei confronti di tutte le parti presenti nel presente giudizio si è formato implicitamente per effetto della sentenza del T.a.r. 27 luglio 2007, n. 7119 cfr., supra, n. 1.4., oggetto dell’appello deciso dal Consiglio di Stato, con la sentenza attualmente impugnata per cassazione. Va, infatti, osservato che tale sentenza del T.A.R. ha statuito sulla nullità dei contratti di diritto privato tra il Comune, la Cirio, Eurolat e Parmalat. Questa sentenza che è stata oggetto di appello da parte di Cirio, Parmalat e del Comune di Roma, non è stata però censurata sotto il profilo del difetto di giurisdizione, in merito alla statuizione di nullità dei contratti detti"; c) infine, precisato che, a seguito delle sentenze delle stesse sezioni unite nn. 24883 e 28545 del 2008 sulla nuova interpretazione dell’art. 37 cod. proc. civ., "volta a delinearne l’ambito applicativo in senso restrittivo e residuale, ne consegue che: 1) il difetto di giurisdizione può essere eccepito dalle parti anche dopo la scadenza del termine previsto dall’art. 38 cod. proc. civ. (non oltre la prima udienza di trattazione), fino a quando la causa non sia stata decisa nel merito in primo grado; 2) la sentenza di primo grado di merito può sempre essere impugnata per difetto di giurisdizione; 3) le sentenze di appello sono impugnabili per difetto di giurisdizione soltanto se sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito, operando la relativa preclusione anche per il giudice di legittimità; 4) il giudice può rilevare anche d’ufficio il difetto di giurisdizione fino a quando sul punto non si sia formato il giudicato esplicito o implicito. In particolare, il giudicato implicito sulla giurisdizione può formarsi tutte le volte che la causa sia stata decisa nel merito, con esclusione per le sole decisioni che non contengano statuizioni che implicano l’affermazione della giurisdizione", con la conseguenza che, nel caso di specie, "la sentenza impugnata non poteva affermare la giurisdizione del giudice ordinano, relativamente alla dichiarazione di nullità o di annullamento dei contratti in questione intervenuti tra il Comune di Roma e le altre parti private, essendosi sul punto formato il giudicato implicito, per mancanza di impugnazione relativamente alla giurisdizione della sentenza del T.A.R.". 2. – A seguito di tale sentenza riassunsero il giudizio dinanzi al Consiglio di Stato tutte le originarie appellanti – compresa Ariete in relazione all’appello avverso la sentenza del TAR n. 3347 del 2007 – chiedendo l’accoglimento dei propri motivi di censura e sostenendo, in particolare: la Società Ariete, la necessità di pronunciarsi nuovamente, in conseguenza di detta pronuncia, su tutto l’operato dell’Amministrazione municipale, dal suo inizio sino alla sottoscrizione dell’atto di transazione del 1999; la Società Parmalat, l’avvenuta formazione del giudicato sui fatti ricostruiti dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 5845 del 2008, cassata dalla Suprema Corte esclusivamente per motivi attinenti alla giurisdizione.

Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1156/10 del 1 marzo 2010, dichiarò inammissibile l’atto di riassunzione della Società Ariete Latte Sano, respinse gli appelli e confermò la sentenza di primo grado del T.a.r. n. 7119 del 2007. 3. – Avverso tale sentenza la s.p.a. Cirio Finanziaria in amministrazione straordinaria e la s.p.a Parmalat hanno proposto ricorso per revocazione, ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 395 c.p.c., nn. 4 e 5, e art. 112 cod. proc. civ., e art. 111 Cost., allo stesso Consiglio di Stato, chiedendo: la Cirio che, per effetto dell’accoglimento del ricorso, venisse accolto in fase rescissoria l’appello da essa proposto contro la sentenza del T.a.r. n. 7119 del 2007 (cfr, supra, n. 1.4.), tenendo ferme le statuizioni della sentenza del Consiglio di Stato n. 5845 del 2008 (cfr., supra, n. 1.5.); la Parmalat che, ribadito il medesimo petitum, in via gradata, la sentenza impugnata venisse quantomeno riformata, nella parte in cui aveva omesso di riscontrare la intervenuta decadenza dal diritto di impugnare la deliberazione di aumento del capitale della s.p.a.

Eurolat, ai sensi dell’art. 2379-ter cod. civ., e quindi l’assoluta intangibilità non solo del trasferimento azionario dalla Cirio alla Eurolat, ma anche (ed a maggior ragione) di quello successivo dalla Eurolat al Gruppo Parmalat, in quanto riguardante le azioni di Eurolat e non quelle della Centrale del latte di Roma.

Il Comune di Roma, costituitosi anche in tale sede – premesso che tutta la complessa vicenda era ormai definita ed intangibile -, ha chiesto che i ricorsi fossero dichiarati inammissibili o, comunque, infondati, chiedendo altresì che fossero esplicitamente ribaditi la correttezza della dichiarata nullità di tutti i contratti stipulati dalle parti ed il conseguente obbligo della Parmalat di restituire il pacchetto azionario all’Amministrazione comunale in vista dell’eventuale proponenda azione esecutiva in caso di inadempimento dell’obbligo medesimo.

Il Consiglio di Stato, con a sentenza n. 7599/10 del 21 ottobre 2010, ha dichiarato inammissibili i ricorsi per revocazione proposti dalla Cirio finanziaria e dalla Parmalat, nonchè improcedibili, per difetto di interesse, i ricorsi per revocazione, incidentali subordinati, proposti dalla s.p.a. Ariete Fattoria Latte Sano.

In particolare, per quanto in questa sede rileva, il Consiglio di Stato, dopo aver richiamato, ribadendoli, i principi enunciati dallo stesso Consiglio in materia di revocazione per errore di fatto e di revocazione per contrasto tra giudicati:

a) ha dichiarato inammissibili tutti i motivi di revocazione per errore di fatto, dedotti dalla Cirio finanziaria e dalla Parmalat, in quanto – contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, le quali avevano denunciato l’omesso od incompleto esame delle censure o delle eccezioni formulate in grado d’appello avverso la sentenza del T.a.r. n. 7119 del 2007 – ha ritenuto che il Consiglio di Stato, con la sentenza impugnata, ha trattato, valutato e pronunciato, esplicitamente o implicitamente, su dette censure od eccezioni ed ha, quindi escluso che si sia in presenza di errori revocatori;

b) ha dichiarato inammissibile anche il motivo di revocazione per assunto contrasto con altra sentenza passata in giudicato – cioè tra la sentenza impugnata e la precedente sentenza dello stesso Consiglio di Stato n. 5845 del 2008 -, osservando che tale motivo "non tiene conto che il giudizio revocatorio, pur se prospettato sulla base di motivi attinenti ad errori di fatto ovvero sulla base di motivi attinenti ad un contrasto tra giudicati, non può mai tradursi in un terzo grado di giudizio, qualora detti motivi risultino espressamente esaminati e disattesi con puntuali interpretazioni effettuate anche in relazione alle censure ed alle eccezioni prospettate dalle parti". 4. – Avverso tale sentenza hanno proposto ricorso alle sezioni unite della Corte di cassazione sia la s.p.a. Parmalat – deducendo due motivi di censura e chiedendo che la Corte "cassi anche l’impugnata sentenza, con ogni pronuncia consequenziale" -, sia, con "Controricorso adesivo" la s.p.a. Cirio Finanziaria in amministrazione straordinaria, chiedendo "l’accoglimento del ricorso di Parmalat S.p.a., con ogni conseguenza di legge".

Resistono, con distinti controricorsi, la s.p.a. Ariete Fattoria Latte Sano e Roma Capitale (già Comune di Roma).

La s.p.a. Cirio, la s.p.a. Cirio Finanziaria, la s.p.a. Granarolo, la s.p.a. Granarolo Felsinea, la s.p.a. Eurolat, il Comitato difesa lavoratori Centrale del latte, la A.t.i.r. (Associazione per la tutela delle istituzioni della Città di Roma e dei Romani), J. P. Morgan-Guarantee Trust of New Jork e Morgan Guaranty Trust of New Jork, benchè ritualmente intimati, non si sono costituiti nè hanno svolto attività difensiva.

Tutte le parti costituite hanno depositato memorie.

5. – All’esito dell’odierna udienza di discussione, il Procuratore generale ha concluso per l’inammissibilità del ricorso o, in subordine, per il suo rigetto.

Motivi della decisione

1. – Dal momento che il "Controricorso adesivo" della s.p.a. Cirio Finanziaria in amministrazione straordinaria deve essere qualificato come ricorso incidentale adesivo (cfr. la sentenza n. 26505 del 2009), i ricorsi principale della s.p.a. Parmalat ed incidentale della s.p.a. Cirio Finanziaria in amministrazione straordinaria, in quanto proposti contro la stessa sentenza, debbono essere riuniti ai sensi dell’art. 335 cod. proc. civ..

2. – Con il primo (con cui deduce: "Difetto di giurisdizione – D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 110, nonchè art. 362 c.p.c., art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, e art. 111 Cost., comma 8 -. Violazione dei limiti interni della giurisdizione del giudice amministrativo.

Violazione e falsa applicazione del D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 106 nonchè degli artt. 395 e 396 c.p.c. Eccesso di potere giurisdizionale") e con il secondo motivo (con cui deduce: "Difetto di giurisdizione – D.Lgs. 2 luglio 2010, n. 104, art. 110 nonchè art. 362 c.p.c., art. 360 c.p.c., comma 1, n. 1, e art. 111 Cost., comma 8 -. Violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo. Estensione della giurisdizione amministrativa generale di legittimità alla cognizione di diritti soggettivi") – i quali possono essere esaminati congiuntamente per la loro stretta connessione – la ricorrente s.p.a. Parmalat – premesso che la sentenza del Consiglio di Stato viene impugnata per motivi inerenti alla giurisdizione, e che "il Consiglio di Stato ha stravolto … la funzione stessa del giudizio revocatorio facendone un mezzo di integrazione e ampliamento della decisione sottoposta alla revocazione e per di più, per dichiarare inammissibile la revocazione, ha fondato il proprio iter argomentativo su affermazioni riguardanti diritti, sottratti alla sua cognizione quando si esuli dalla giurisdizione del giudice amministrativo" -critica la sentenza impugnata, sostenendo che i Giudici a quibus: a) hanno ecceduto, in violazione delle norme richiamate in rubrica, i limiti interni della propria giurisdizione, piegando il rimedio a finalità che non gli sono proprie; al riguardo, la ricorrente sostiene, in particolare, che il Consiglio di Stato: a1) con riferimento al motivo di revocazione concernente i dedotti vizi di ultrapetizione riscontrabili nella decisione impugnata a proposito degli effetti giuridici derivanti sulla titolarità del pacchetto azionario della Centrale del Latte in ragione della invalidità degli atti stipulati dal Comune di Roma, anzichè limitarsi ad escludere la natura revocatoria dell’errore denunciato o a negare la sussistenza del vizio di ultrapetizione, ha illegittimamente proceduto ad integrare la sentenza impugnata per revocazione, ciò nella parte in cui afferma (pag. 29): "In definitiva, da quanto sopra detto, emerge che nell’impugnata decisione non è riscontrabile alcun errore revocatorio (tanto meno immediatamente percepibile alla stregua degli atti di causa) laddove (a maggior chiarimento della sentenza di primo grado sul punto specifico) viene esplicitamente precisato che spetta al Comune decidere sugli atti di disposizione del pacchetto azionario riacquisito (s’intende in via automatica), per effetto della accertata nullità genetica degli atti di disposizione del pacchetto medesimo"; a2) con riferimento al motivo di revocazione concernente l’omessa pronuncia sulla dedotta impossibilità giuridica della "automatica riacquisizione" di detto pacchetto azionario da parte del Comune di Roma – in ragione della intervenuta inimpugnabilità, ai sensi dell’art. 2379-ter cod. civ., della deliberazione di aumento del capitale sociale della s.p.a. Eurolat e del conseguente conferimento delle predette azioni in favore di quest’ultima -, anzichè limitarsi ad escludere la natura revocatola dell’errore denunciato, ha illegittimamente proceduto ad integrare la sentenza impugnata per revocazione, ciò nella parte in cui afferma che gli effetti ulteriori della accertata nullità degli originari atti stipulati dal Comune di Roma "dipenderanno dalle future determinazioni che riterrà di assumere lo stesso Comune valutando discrezionalmente ogni possibile soluzione giuridica che sia idonea a ripristinare la legalità violata e che nel contempo valga a soddisfare al meglio gli interessi pubblici e privati in gioco" (pagg. 32-33), con la conseguenza di dare "della decisione impugnata una lettura del tutto arbitraria, finendo per configurare un potere discrezionale del Comune nella tutela di posizioni soggettive piene di soggetti terzi e di verifica dell’applicazione di preclusioni come quella dell’art. 2379-ter c.c., che invece certo non possono essere compresse da un potere discrezionale pubblico" (cfr. Ricorso, pag.

19);

b) con riferimento a quest’ultima censura, ha ecceduto anche, in violazione delle norme richiamate in rubrica, i limiti esterni della propria giurisdizione, in quanto con il passaggio argomentativo da ultimo riprodotto – decisivo ai fini della negazione dell’errore revocatorio – afferma una giurisdizione sui diritti estranea alla giurisdizione amministrativa, come è dimostrato dall’atto di diffida notificato (anche) alla s.p.a. Parmalat, con il quale si intima la consegna senza ritardo dei certificati azionari rappresentativi della partecipazione nella Centrale del Latte.

2.1. – Il ricorso incidentale adesivo della s.p.a. Cirio Finanziaria in amministrazione straordinaria non contiene richieste di cassazione della sentenza impugnata per ragioni diverse da quelle fatte valere dalla ricorrente principale, limitandosi appunto ad argomentare adesivamente a sostegno dei motivi dedotti con il ricorso principale, sicchè sarà sufficiente esaminarlo congiuntamente al ricorso principale.

3. – Entrambi i ricorsi sono inammissibili.

3.1. – Il Consiglio di Stato, con la sentenza impugnata, ha dichiarato inammissibili i ricorsi per revocazione proposti contro la sentenza dello stesso Consiglio di Stato n. 1156 del 2010 – sentenza che ha formato oggetto di impugnazione per motivi inerenti alla giurisdizione proposta dalle stesse odierne ricorrenti con il ricorso n. 14587 del 2010, anch’esso discusso nell’odierna udienza -, perchè ha ritenuto insussistenti tutti gli errori revocatori denunciati.

In particolare, quanto agli errori di fatto, perchè – contrariamente a quanto sostenuto dalle ricorrenti, le quali avevano denunciato l’omesso od incompleto esame delle censure e/o delle eccezioni formulate in grado d’appello avverso la sentenza del T.a.r. n. 7119 del 2007 – ha ritenuto che il Consiglio di Stato, con la sentenza impugnata per revocazione, ha trattato, valutato e pronunciato, esplicitamente od implicitamente, su tutte dette censure od eccezioni ed ha, quindi, escluso la sussistenza di errori revocatori; quanto al motivo di revocazione per assunto contrasto con altra sentenza passata in giudicato – cioè della sentenza impugnata per revocazione con la precedente sentenza dello stesso Consiglio di Stato n. 5845 del 2008 -, perchè tale motivo "non tiene conto che il giudizio revocatorio, pur se prospettato sulla base di motivi attinenti ad errori di fatto ovvero sulla base di motivi attinenti ad un contrasto tra giudicati, non può mai tradursi in un terzo grado di giudizio, qualora detti motivi risultino espressamente esaminati e disattesi con puntuali interpretazioni effettuate anche in relazione alle censure ed alle eccezioni prospettate dalle parti".

Questa essendo la ratio decidendi della sentenza impugnata, deve essere immediatamente ribadito il principio di diritto enunciato fin dalla sentenza di queste sezioni unite n. 6891 del 1986, per il quale, in sede di ricorso per cassazione avverso la sentenza che ha pronunciato sull’impugnazione per revocazione, può insorgere questione di giurisdizione soltanto con limitato riguardo al potere giurisdizionale in ordine alla statuizione sulla revocazione medesima, restando invece esclusa la possibilità di mettere in discussione detto potere sulla precedente decisione di merito (cfr. anche, nello stesso senso, ex plurimis e tra le ultime, l’ordinanza n. 20600 del 2008 e la sentenza n. 24301 del 2010).

E’ stato anche precisato che è inammissibile il ricorso per cassazione, proposto ai sensi dell’art. 362 cod. proc. civ. e dell’art. 111 Cost., con il quale si censura la valutazione delle condizioni di ammissibilità dell’istanza di revocazione da parte del Consiglio di Stato, giacchè con esso non viene posta una questione circa la sussistenza o no del potere giurisdizionale di operare detta valutazione e, dunque, dedotta una violazione dei limiti esterni alla giurisdizione del giudice amministrativo, rispetto alla quale soltanto è consentito ricorrere in sede di legittimità in base alle anzidette norme (cfr. la sentenza n. 9150 del 2008).

Deve altresì premettersi più in generale che, secondo il costante orientamento di queste sezioni unite, anche a seguito dell’inserimento della garanzia de giusto processo nella formulazione dell’art. 111 Cost., il sindacato delle sezioni unite della Corte di cassazione sulle decisioni rese dal Consiglio di Stato è limitato all’accertamento dell’eventuale sconfinamento dai limiti esterni della propria giurisdizione da parte dello stesso Consiglio, cioè all’esistenza di vizi che riguardano i caratteri essenziali di tale funzione giurisdizionale e non il modo del suo esercizio, restando, perciò, escluso ogni sindacato sui limiti interni di tale giurisdizione, cui attengono gli errores in iudicando o in procedendo (cfr., ex plurimis, l’ordinanza n. 3688 del 2009 e le sentenze nn. 12539 e 16165 del 2011).

Deve infine premettersi che, come già dianzi accennato, con la sentenza n. 1149/12 pubblicata in data odierna – alla cui motivazione deve farsi necessario riferimento -, sono stati rigettati i ricorsi proposti per motivi inerenti alla giurisdizione dalle stesse odierne ricorrenti (R.g. n. 14587 del 2010) avverso la sentenza del Consiglio di Stato n. 1156 del 2010, oggetto anche dei ricorsi per revocazione dichiarati inammissibili dalla sentenza impugnata.

3.2. – Tanto premesso, tutte le censure sono inammissibili.

3.2.1. – In particolare, quanto alla censura dianzi sintetizzata sub n. 2, lettera a1), è indispensabile fare riferimento al brano della sentenza del Consiglio di Stato n. 1156 del 2010, dove si afferma:

"L’obbligo del Comune di pronunciarsi sulla diffida deriva invece dal vizio genetico degli atti stipulati e dalla loro intrinseca inidoneità a produrre effetti. Quindi, la presa d’atto cui fa riferimento il TAR equivale, nella sostanza, ad una dichiarazione dell’inefficacia, a causa della loro nullità, degli atti negoziali e lascia impregiudicati i provvedimenti successivi rimessi al Comune per quanto attiene agli atti di disposizione del pacchetto azionario riacquisito, compresa l’eventuale indizione di una nuova procedura di alienazione" (n. 6.16 della Motivazione in diritto).

La censura in esame si appunta sul brano della sentenza impugnata del seguente testuale tenore: "In definitiva, da quanto sopra detto, emerge che nell’impugnata decisione non è riscontrabile alcun errore revocatorio (tanto meno immediatamente percepibile alla stregua degli atti di causa) laddove (a maggior chiarimento della sentenza di primo grado sul punto specifico) viene esplicitamente precisato che spetta al Comune decidere sugli atti di disposizione del pacchetto azionario riacquisito (s’intende in via automatica), per effetto della accertata nullità genetica degli atti di disposizione del pacchetto medesimo" (pag. 29).

Il nucleo della censura sta in ciò, che il Consiglio di Stato, con tale ultima affermazione, anzichè limitarsi ad escludere la natura revocatoria dell’errore denunciato o a negare la sussistenza del vizio di ultrapetizione, ha illegittimamente proceduto ad integrare la sentenza impugnata per revocazione – nella parte in cui afferma che, a seguito della dichiarata nullità dei contratti di cessione e di transazione aventi ad oggetto il "pacchetto azionario" della s.p.a. Centrale del latte, tale pacchetto "deve intendersi riacquisito in via automatica" dal Comune di Roma -, così travalicando i limiti della propria giurisdizione con il piegare il rimedio della revocazione a finalità che non gli sono proprie e con il fondare il proprio iter argomentativo su affermazioni riguardanti diritti – cioè la "riacquisizione automatica" di detto pacchetto azionario da parte del Comune di Roma – sottratti alla sua cognizione.

Tale censura non attiene al potere giurisdizionale esercitato dal Consiglio di Stato in ordine alla statuizione di inammissibilità della proposta istanza di revocazione, ma esprime l’inammissibile tentativo di rimettere in discussione la legittimità dell’esercizio di tale potere in riferimento alla precedente decisione di merito, cioè alla sentenza del Consiglio di Stato n. 1156 del 2010. Infatti, la specifica ratio decidendi della sentenza impugnata sta nel rilievo che, sul punto della "riacquisizione" del predetto pacchetto azionario, non è riscontrabile alcun errore revocatorio (tanto meno immediatamente percepibile alla stregua degli atti di causa), in quanto il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 1156 del 2010, ha inteso soltanto precisare, "a maggior chiarimento della sentenza di primo grado sul punto specifico", che "spetta al Comune decidere sugli atti di disposizione del pacchetto azionario riacquisito (s’intende in via automatica), per effetto della accertata nullità genetica degli atti di disposizione del pacchetto medesimo". Del resto, la sostanza della censura è la medesima di quella dedotta con il terzo motivo del ricorso incidentale della s.p.a. Cirio in amministrazione straordinaria, motivo dichiarato infondato con la richiamata sentenza n. 1149/12 pubblicata in data odierna, per insussistenza del denunciato eccesso di potere giurisdizionale.

In definitiva – si ribadisce -, i ricorrenti non hanno posto una questione di sussistenza o no del potere del Consiglio di Stato di dichiarare inammissibile il predetto motivo di revocazione nè hanno dedotto una violazione dei limiti esterni della giurisdizione del giudice amministrativo, ma hanno inammissibilmente tentato di rimettere in discussione o, quantomeno, di "limitare" gli effetti della sentenza di merito del Consiglio di Stato n. 1156 del 2010, quanto all’affermata "riacquisizione" del più volte menzionato pacchetto azionario della Centrale del latte.

3.2.2. – Quanto poi alle censure dianzi sintetizzate sub n. 2, lettere a1) e b), le stesse sono parimenti inammissibili sia per le medesime ragioni dianzi argomentate, sia perchè non è stata specificamente censurata la vera e propria ratio decidendi della sentenza impugnata e, conseguentemente, non è stata specificamente dedotta una questione di giurisdizione riguardo al potere giurisdizionale concernente la statuizione sulla dichiarata inammissibilità della revocazione.

La sentenza impugnata così riassume il motivo di revocazione, per errore di fatto, dedotto: "3.8. Sempre con riguardo al predetto motivo di revocazione riguardante l’avvenuta riacquisizione in via automatica di detto pacchetto azionario da parte del Comune di Roma, le difese della Cirio e della Parmalat pongono altresì in evidenza che la sentenza impugnata avrebbe totalmente omesso di pronunciarsi sulla dedotta censura concernente la violazione dell’art. 2379-ter cod. civ. Infatti, non sarebbe stato in alcun modo considerato che la mancata proposizione tempestiva della azione di invalidità della delibera di aumento di capitale della società Eurolat e del successivo conferimento in favore di quest’ultima delle azioni della Centrale del Latte renderebbe comunque, in base alle previsioni di detta norma, del tutto intangibile tale delibera e quindi assolutamente impossibile la retrocessione di tali azioni in favore del Comune" (pagg. 29-30).

Così riassunta la censura, il Consiglio di Stato – dopo aver richiamato alcune argomentazioni della sentenza n. 1156 del 2010 che, a suo giudizio, consentono di ritenere non omessa la pronuncia sulla questione sollevata dalle odierne ricorrenti – ha testualmente concluso: "A giudizio di questo Collegio, tali argomentazioni contengono esse stesse una implicita risposta sostanziale anche in ordine alla invocata disciplina dell’art. 2379-ter cod. civ., dovendosi in ogni caso escludere che detta disciplina societaria sia stata totalmente ignorata per un evidente abbaglio nella lettura degli atti e quindi per una clamorosa svista in ordine alla dedotta censura. E soprattutto che tali vizi emergano con immediatezza dalla motivazione della decisione in esame" (pag. 32).

Orbene – a fronte di tale specifica ratio decidendi – le ricorrenti deducono ancora una volta che il Consiglio di Stato, anzichè limitarsi ad escludere la natura revocatoria dell’errore denunciato, ha illegittimamente proceduto ad "integrare" la sentenza impugnata per revocazione – nella parte in cui afferma che gli effetti ulteriori della accertata nullità degli originari atti stipulati dal Comune di Roma "dipenderanno dalle future determinazioni che riterrà di assumere lo stesso Comune valutando discrezionalmente ogni possibile soluzione giuridica che sia idonea a ripristinare la legalità violata e che nel contempo valga a soddisfare a meglio gli interessi pubblici e privati in gioco" -, con la conseguenza di dare della decisione impugnata una lettura del tutto arbitraria e di configurare un potere discrezionale del Comune nella tutela di posizioni soggettive piene di soggetti terzi (nella specie, dell’Eurolat), in tal modo eccedendo i limiti esterni della propria giurisdizione, nella misura in cui è affermata una giurisdizione su diritti estranea alla giurisdizione amministrativa.

E’ del tutto evidente, anche con riferimento alle censure in esame, che le ricorrenti, omettendo di criticare specificamente la su individuata ratio decidendi, non deducono l’illegittimo esercizio del potere giurisdizionale da parte del Consiglio di Stato in ordine alla statuizione di inammissibilità del proposto motivo di revocazione, ma esprimono ancora una volta l’inammissibile tentativo di rimettere in discussione la legittimità dell’esercizio di tale potere in riferimento alla precedente decisione di merito, cioè alla sentenza del Consiglio di Stato n. 1156 del 2010. 4. – Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate nel dispositivo.

P.Q.M.

Riuniti i ricorsi, li dichiara inammissibili e condanna le ricorrenti, in solido tra loro, alle spese, che liquida in complessivi Euro 20.200,00, ivi compresi Euro 200,00 per esborsi, in favore di ciascun controricorrente, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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