Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-01-2012, n. 1303 Affitto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza 5 luglio – 15 settembre 1997 il tribunale di Bari, sezione specializzata agraria, accogliendo la domanda proposta da Ca.Do., Fr., Gi. e M. C., concedenti, nei confronti di C.G. e G., conduttori, ha dichiarato cessati i contratti di affitto inter partes aventi a oggetto un comprensorio in c.da (OMISSIS), con condanna al rilascio.

Intimato – con atto 23 gennaio 1998 – dai Ca. precetto per il rilascio C.G. ha proposto – con atto 29 gennaio 1998 – opposizione, invocando il diritto di ritenzione del complesso in questione per le migliorie apportate e chiedendo la condanna delle controparti al pagamento, a titolo di indennizzo, per le migliorie apportate, della somma di lire 800 milioni.

Costituitosi in giudizio i Ca. hanno resistito alla avversa pretesa chiedendone il rigetto e, in via riconvenzionale, la condanna degli opponenti al risarcimento dei danni patiti e da liquidare in lire un miliardo.

Svoltasi la istruttoria del caso con sentenza n. 1758/03 l’adito tribunale ha determinato in Euro 190.352,43 l’indennità spettante a C.G. per i miglioramenti apportati, rigettata la domanda riconvenzionale.

Gravata tale pronunzia in via principale da D.R. e da C.M., F., Mi. e V.M., quali eredi di C.G. e, in via incidentale da C. D., Fr., Gi. e Ma.Cr., la Corte di appello di Bari, sezione specializzata agraria, con sentenza 27 febbraio – 23 giugno 2008, in parziale riforma della pronunzia dei primi giudici, ha accolto la domanda riconvenzionale nonchè ridotto l’indennizzo spettante agli appellanti principali e, in particolare ha rideterminato "la condanna a favore degli eredi C. ed a carico dei Ca. nella minor somma finale di 35.904,08 euro, da adeguarsi ai valori monetari odierni con ulteriore rivalutazione in ragione delle variazioni degli indici Istat a decorrere dal 28 febbraio 2007, oltre agli interessi compensativi al tasso medio del 2,5% dal 29 gennaio 1998, rigettata ogni altra richiesta e confermata nel resto la impugnata decisione".

Per la cassazione di tale ultima pronunzia, notificata il 16 dicembre 2008, hanno proposto ricorso – affidato a dodici (12) motivi – D.R., C.M., F., V.M. e Mi., con atto 12 febbraio 2009.

Resistono, con controricorso e ricorso incidentale, notificato il 10 marzo 2002 e affidato a due motivi Ca.Gi. e F..

I ricorrenti principali hanno resistito con controricorso al ricorso incidentale.

Motivi della decisione

1. I ricorsi, avverso la stessa sentenza, sono riuniti.

2. Censurando gli appellanti principali gli accertamenti compiuti dai consulenti d’ufficio in grado di appello ai fini della quantificazione dell’indennità spettante ad essi ex conduttori, quanto al mancato computo del valore migliorativo della cd. fertilità residua e dello spietramento, i giudici di secondo grado hanno ritenuto infondati entrambi i rilievi.

Hanno evidenziato quei giudici:

– quanto alla pretese per l’asserita fertilità residua, nulla spetta per il solo fatto che i terreni agricoli siano stati sempre concimati con letame: il punto 6 del contratto 7 giugno 1951 prevede che tutto il letame sarà sparso nei fondi dell’azienda e i miglioramenti invocati sono strettamente connessi alla accessoria attività di coltivazione dei terreni, di talchè – da un lato – la concimazione con letame rivestiva, nell’economia del negozio, funzione integrativa del corrispettivo dovuto dal conduttore (e dunque non era indennizzabile a mente del contratto del 1951) – dall’altro – lo spargimento del letame costituisce una normale pratica colturale nell’ambito delle aziende miste a prevalenza zootecnica (comunque nessun giudicato interno si è mai formato sul punto, la previsione contrattuale del 7 giugno 1951 rappresenta un indubbio indice rivelatore di una pratica colturale del tutto consueta e per nulla eccezionale nella zona, ed è irrilevante che nel contratto del 20 novembre 1969 non trova riscontro immediato lo spargimento del letame, atteso che dal suo contenuto non è dato escludere la perdurante vigenza delle pregresse clausole accessorie);

– quanto alle pretese connesse al cd. spietramento nulla spetta al conduttore perchè tra i miglioramenti agrari non sono da considerare lo scasso profondo, lo spietramento e il decespugliamento, in quanto la loro intrinseca strumentalita all’ordinario sfruttamento del fondo, in rigorosa conformità alla sua destinazione agricola, impedisce di poter apprezzare tali attività alla stregua di opere preordinate a incrementare le sue potenzialità produttive (e ciò vale anche a prescindere dalle incertezze probatorie che non consentono di accertare se e quanto materiale sia stato asportato).

3. I ricorrenti principali censurano la sentenza impugnata nella parte de qua con i primi cinque motivi.

Con gli stessi i ricorrenti denunziano:

– violazione e falsa applicazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – dell’art. 24 cost., artt. 2697 e 2702 cod. civ., artt. 99, 112, 115 e 116 cod. proc. civ. per avere la sentenza posto, d’ufficio, a base della decisione l’art. 6 del contratto A. – Ca. – C. del 7 giugno 1951 che così recita: "tutto il letame sarà sparso – nei fondi dell’azienda" senza considerare che ciò era inibito dal rilievo che nessuna delle parti aveva proposto specifica istanza di esaminare il predetto documento (primo motivo);

– omessa e/o contraddittoria motivazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – per avere la sentenza posto, d’ufficio, a base della decisione il mai invocato art. 6 del contratto A. – Ca.

– C. del 7 giugno 1951 che così recita: "tutto il letame sarà sparso nei fondi dell’azienda", per inferirne – senza motivazione alcuna – il principio secondo cui: "il letame rivestiva nell’economia del negozio funzione integrativa del corrispettivo dovuto dal conduttore" (secondo motivo);

– omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto decisivo, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, perchè – qualora la corte di appello si fosse data carico di verificare che l’espressione "tutto il letame sarà sparso sui fondi dell’azienda" andava interpretata nel senso di prevedere un divieto di spargimento altrove e/o di vendita a terzi del letame stesso – non si sarebbe potuti pervenire, senza motivazione alcuna, alla conclusione che detta pattuizione, invece, "rivestiva, nell’economia del negozio funzione integrativa del corrispettivo dovuto dal conduttore (cfr. pagina 5 della sentenza gravata)" (terzo motivo);

violazione e falsa applicazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – degli artt. 1362 e 1369 cod. civ.; L. n. 567 del 1992, art. 9 (sic; recte: 1962), come modificato da L. n. 11 del 71 e L. n. 203 del 1982, artt. 16 e 17, per avere la sentenza posto, d’ufficio, a base della decisione, l’art. 6 del contratto A. – Ca. – C. del 7 giugno 1951 che così recita: "tutto il letame sarà sparso nei fondi dell’azienda" senza considerare che detta interpretazione si pone in contrasto con il disposto dei predetti artt. sia perchè il C. non poteva essere tenuto ad una prestazione in natura nulla sia perchè la previsione di detta prestazione non poteva essere qualificata quale integrazione del canone, difettando i requisiti della determinatezza e della obbligatorietà (quarto motivo);

– omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto decisivo – in relazione all’art. n. 360 c.p.c., n. 5 – per non aver la sentenza spiegato le ragioni tecniche per le quali lo spargimento del letame poteva ritenersi "normale pratica colturale nell’ambito delle aziende miste a prevalenza zootecnica" (cfr pagina 6 della sentenza gravata) (quinto motivo).

4. In relazione ai riferiti motivi il ricorrente ha formulato – ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ. (applicabile nella specie ratione temporis, essendo oggetto di ricorso una sentenza pubblicata il 23 giugno 2008, cfr. D.Lgs. 2 febbraio 2006, n. 40, artt. 6 e 27 e L. 18 giugno 2009, n. 69, artt. 47 e 58,) – i quesiti di diritto nonchè le indicazioni (pur esse prescritte a pena di inammissibilità dall’art. 366-bis cod. proc. civ.) di seguito trascritti:

– dica la Suprema Corte qui adita, enunciando il correlativo principio di diritto, se, con riferimento alla fattispecie concreta, potesse porsi d’ufficio ex artt. 115 e 116, a fondamento della decisione, ex artt. 2697 e 2702 c.c., l’art. 6 del contratto del 7 giugno 1951 – non invocato da alcuna parte – che così recita: "tutto il letame sarà sparso nei fondi dell’azienda", per inferire, da ciò, la circostanza che "il letame rivestiva, nell’economia del negozio, funzione integrativa del corrispettivo dovuto dal conduttore" (pagina 5 della sentenza gravata) (in margine al primo motivo);

– dica la Suprema Corte qui adita, enunciando il correlativo principio di diritto, se, con riferimento alla fattispecie concreta, sia contraria al disposto degli artt. 1362 e 1369 c.c. la ravvisata interpretazione del cit(ato) art. 6 del contratto del 7 maggio 51 (che recita: "tutto il letame sarà sparso nei fondi dell’azienda") – nel senso di prevedere una "funzione integrativa del corrispettivo dovuto dal conduttore" (p. 5 sentenza gravata) – non essendo conforme alla natura ed all’oggetto del contratto stesso la previsione di un canone nullo L. n. 567 del 1962, ex art. 9, come modificato dalla L. n. 11 del 1971 e comunque privo degli indispensabili requisiti della "determinatezza" e dell’obbligatorietà (in margine al quarto motivo);

– dica la Suprema Corte qui adita se, con riferimento alla fattispecie concreta, la fertilità residua acquisita, per lo spargimento del letame nei fondi dell’azienda a opera dei ricorrenti e loro danti causa potesse tecnicamente ritenersi normale pratica colturale non indennizzabile per le vie di cui alla L. n. 203 del 1982, artt. 16 e 11, seconda la preventiva acquisizione di particolari dati in proposito e senza motivazione sul punto (in margine al quinto motivo).

5. Premesso quanto sopra osserva – in limine – la Corte che il secondo, il terzo e il quinto motivo sono inammissibili perchè non conformi al modello di cui all’art. 366-bis cod. proc. civ..

Come assolutamente incontroverso nella giurisprudenza decisamente maggioritaria di questa Corte regolatrice – da cui, senza alcuna motivazione, totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti principali – nel vigore dell’art. 366-bis cod. proc. civ. nel caso si muova alla sentenza impugnata censura sotto il profilo della esistenza, in questa, di un vizio di motivazione la illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione.

La relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (tra le tantissime, in termini, ad esempio, Cass. 31 agosto 2011, specie in motivazione).

Certo che nella specie tale chiara indicazione è assolutamente carente è palese, già sotto tale profilo, la inammissibilità delle censure sviluppate con i motivi secondo e terzo.

Quanto al quinto lo stesso è inammissibile atteso che anzichè concludersi – in relazione al vizio dedotto – con la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, prospetta un quesito di diritto.

6. Il primo motivo – secondo cui i giudici non potevano porre a base della loro decisione una clausola contrattuale non espressamente invocata in giudizio, ancorchè risultante da un contratto in atti, senza ombra di dubbio regolante i rapporti tra le parti – è manifestamente infondato.

Come ripetutamente affermato da una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte regolatrice – il giudice di appello, pur in mancanza di specifiche deduzioni sul punto, deve valutare tutti gli elementi di prova acquisiti, quand’anche non presi in considerazione dal giudice di primo grado, poichè in materia di prova vige il principio di acquisizione processuale, secondo il quale le risultanze istruttorie comunque ottenute, e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale siano formate, concorrono tutte indistintamente alla formazione del convincimento del giudice (in termini, ad esempio, Cass. 12 luglio 2011, n. 15300, nonchè Cass. 12 settembre 2003, n. 13430).

Contrariamente a quanto suppone la difesa di parte ricorrente, deve ribadirsi – del resto – che il principio relativo all’onere della prova, di cui all’art. 2697 cod. civ., non implica affatto che la dimostrazione dei fatti costitutivi del diritto preteso debba ricavarsi esclusivamente dalle prove offerte da colui che è gravato del relativo onere, senza poter utilizzare altri elementi probatori acquisiti al processo, poichè nel vigente ordinamento processuale vale il principio di acquisizione, secondo il quale le risultanze istruttorie, comunque ottenute e quale che sia la parte ad iniziativa o ad istanza della quale sono formate, concorrono tutte, indistintamente, alla formazione del convincimento del giudice, senza che la diversa provenienza possa condizionare tale formazione in un senso o nell’altro (Cass. 19 gennaio 2010, n. 739; Cass. 10 ottobre 2008, n. 25028) .

Si osserva – infine – al riguardo, che le eccezioni vietate in appello, ai sensi dell’art. 345 c.p.c., comma 2, sono soltanto quelle in senso proprio, ovvero "non rilevabili d’ufficio", e non, indiscriminatamente, tutte le difese, comunque svolte dalle parti per resistere alle pretese o alle eccezioni di controparte, potendo i fatti su cui esse si basano e risultanti dalle acquisizioni processuali essere rilevati di ufficio dal giudice alla stregua delle eccezioni "in senso lato" o "improprie" (Cass. 19 maggio 2011, n. 11015).

7. Quanto al quarto motivo lo stesso non può trovare accoglimento perchè, per un verso, inammissibile, per altro, manifestamente infondato.

7.1. In merito alla evidenziata inammissibilità si osserva che nel quesito che lo conclude pur denunziandosi la violazione, da parte del giudice del merito degli artt. 1362 e 1369 cod. civ. non vengono in alcun modo indicate le ragioni dell’apodittica affermazione secondo cui i giudici del merito, avrebbero violato, nell’interpretare la clausola in questione, le disposizioni di legge sopra richiamate.

7. 2. In realtà deve ribadirsi – al riguardo – ulteriormente (in termini opposti rispetto a quanto suppone la difesa dei ricorrenti principali), che per sottrarsi al sindacato di legittimità, l’interpretazione data dal giudice di merito ad un contratto non deve essere l’unica interpretazione possibile, o la migliore in astratto, ma una delle possibili, e plausibili, interpretazioni; sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 20 novembre 2009 n. 24539; Cass. 2 maggio 2006, n. 10131, tra le tantissime).

7. 3. Pur prescindendo dagli, assorbenti, rilievi che precedono, comunque, non può dubitarsi della correttezza della interpretazione data dai giudici a quibus alla clausola contrattuale in discussione.

Sia tenuto presente la sua formulazione letterale, avuto riguardo alla natura e all’oggetto del contratto.

In particolare, certo che si era a fronte a un contratto di affitto agrario, non controverso che è primario obbligo dell’affittuario, oltre che quello di pagare il canone anche di procedere alla normale e razionale coltivazione del fondo e alla sua conservazione e manutenzione (cfr., art. 5, legge 3 maggio 1982, n. 203, nonchè Cass. 14 dicembre 2006, n. 26843; Cass. 4 febbraio 2002, n. 1439), pacifico che la clausola in questione faceva obbligo, ai conduttori, di spargere tutto il letame nei fondi dell’azienda allo scopo di conservane (e, eventualmente, aumentarne la produttività) è palese che del tutto correttamente i giudici del merito, accertato che i conduttori hanno osservato, puntualmente, l’obbligo assunto quanto allo spargimento del letame sui terreni dell’azienda, hanno escluso che gli stessi potessero pretendere un indennizzo per avere dato esecuzione al contratto.

E’ pacifico, infatti, presso una più che consolidata giurisprudenza di questa Corte regolatrice che non sono indennizzabili gli interventi, ancorchè per ipotesi migliorativi del fondo, eseguiti in esecuzione di un espresso obbligo contrattuale (tra le altre, nel senso che affinchè l’affittuario abbia diritto all’indennità per i miglioramenti apportati al fondo rustico è necessario che i miglioramenti siano stati eseguiti per fatto o patto successivi al perfezionamento del contratto di atto e non in esecuzione di un patto anteriore o coevo rispetto ad esso, attesto che qualora l’obbligo di eseguire miglioramenti sia previsto espressamente nel contratto si è a fronte di un atto ad meliorandum, con la conseguenza, pertanto, che l’adempimento di tale obbligo non da diritto al conduttore a pretendere indennizzi di sorta, al termine del rapporto, ad esempio, Cass. 14 dicembre 2007, n. 26300).

8. Con il sesto motivo, i ricorrenti principali censurano la sentenza impugnata denunziando: "omessa e/o insufficiente motivazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – su un fatto controverso per essersi ritenuto, senza spiegazione alcuna, che la semplice trascrizione delle pagine 86, 88 e 114 della consulenza tecnica di ufficio – in cui nulla viene detto in ordine al fatto che la relazione I. (sub doc. n. 14 della produzione dell’avv. Giuseppe Chiarolla, a sua volta allegata sub doc n. 4 della produzione seconde cure) attesta che "l’ampliamento si riferisce alla stalla e non già ai trulli preesistenti e che la concessione in sanatoria riguarda l’intero complesso, esteso mq. 360 – soddisfa il requisito del doveroso controllo della esattezza di quanto asserito dai ctu", assumendo che all’evidenza la sentenza desume dai documenti in atti delle circostanze che da questi non risultano assolutamente.

Conclude il motivo la seguente affermazione: la questione di diritto di cui al presente motivo, può essere risolta, rispondendo al seguente quesito: "dica la Suprema Corte qui adita se nella fattispecie concreta, il doveroso controllo della esattezza delle risultanze della relazione di ufficio – secondo cui l’ampliamento si riferiva ai trulli anzichè alla stalla preesistente nonchè ad una sola porzione di questa anzichè all’intero – potesse essere operato con la sola acritica trascrizione, in sentenza, delle pagine 86/88 e 114 della consulenza di ufficio di secondo grado nonostante gli appellanti avessero testualmente contestato che dalla concessione in sanatoria si evince, esattamente il contrario". 9. Il motivo è inammissibile sotto diversi, concorrenti, profili:

in primis, pur denunziandosi la sentenza sotto il profilo di cui all’art. 360 c.p.c., n. 5 (omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto controverso) il motivo anzichè concludersi – come a pena di inammissibilità prescritto dall’art. 366-bis cod. proc. civ. – con la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o delle ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, formula un quesito di diritto da un lato non pertinente, rispetto al vizio denunziato, dall’altro assolutamente non conforme al modello delineato dall’art. 366-bis cod. proc. civ. e dalla interpretazione di tale disposizione data dalla giurisprudenza di questa Corte regolatrice;

– in secondo luogo assumendosi, in buona sostanza, che i giudici di appello, sulla scorta degli accertamenti, in fatto, compiuti dal consulente tecnico di ufficio di secondo grado (in ispregio del principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, neppure trascritti in ricorso) avrebbe desunto, dai documenti in atti delle circostanze che da questi non risultano assolutamente è di palmare evidenza la inammissibilità della censura, atteso che in violazione del combinato disposto di cui agli artt. 360 e 395 cod. proc. civ. si prospetta come vizio della motivazione, un (presunto) errore commesso dai giudici del merito che poteva – doveva essere fatto valere esclusivamente mediante il ricorso alla tutela di cui all’art. 395 cod. proc. civ. (tra le tantissime nel senso che la denuncia di un errore di fatto, consistente nell’inesatta percezione da parte del giudice di circostanze presupposte come sicura base del suo ragionamento, in contrasto con quanto risulta dagli atti del processo, non costituisce motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, ma di revocazione, ai sensi dell’art. 395 c.p.c., n. 4. Esso si configura, quindi, come una falsa percezione della realtà, in una svista obiettivamente e immediatamente rilevabile la quale ha portato ad affermare o supporre l’esistenza di un fatto decisivo incontestabilmente escluso dagli atti e documenti, ovvero l’inesistenza di un fatto decisivo che dagli atti o documenti stessi risulti positivamente accertato e, pertanto, consiste in un errore meramente percettivo, che in nessun modo coinvolge l’attività valutativa del giudice di situazioni processuali percepite nella loro oggettività, Cass. 28 febbraio 2011, n. 4921, specie in motivazione).

10. Con il settimo motivo i ricorrenti principali, denunziano la sentenza impugnata lamentando: "violazione e/o falsa applicazione della L. n. 203 del 1982, artt. 16 e 17 – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 – per essersi escluso che la "potenzialità" di trasformazione in importante centro agrituristico, riveniente dalla realizzazione di una stalla (cfr. pagina 10 della sentenza gravata) andasse qualificata come miglioramento, ai sensi della citata norma, sol perchè la stalla stessa richiede lavori di riadattamento e di riduzione dell’impatto ambientale (cfr. stessa pagina 10, in fine e pagina 11).

Il motivo si conclude con il seguente quesito di diritto: "dica la Suprema Corte qui adita enunciando il correlativo principio di diritto, se, in relazione alla fattispecie concreta l’aumento di valore rispetto al fondo non trasformato pacificamente riconosciuto dalla sentenza per effetto della realizzazione della stalla e della conseguentemente acquisita "potenzialità per trasformarla in un importante centro agrituristico", non potesse essere qualificato miglioramento, L. n. 203 del 1982, ex artt. 16 e 17, sol perchè il manufatto richiede sostanziali opere di riadattamento e di riduzione del negativo impatto ambientale.

11. Il motivo è inammissibile.

Quando nel ricorso per cassazione, pur denunciandosi violazione e falsa applicazione della legge, con richiamo di specifiche disposizioni normative, non siano indicate le affermazioni in diritto contenute nella sentenza gravata che si assumono in contrasto con le disposizioni indicate – o con l’interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina – il motivo è inammissibile, poichè non consente alla Corte di cassazione di adempiere il compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1108; Cass. 29 novembre 2005, n. 26048; Cass. 8 novembre 2005, n. 21659; Cass. 18 ottobre 2005, n. 20145; Cass. 2 agosto 2005, n. 16132, recentemente, Cass. 12 ottobre 2011, n. 20951).

II vizio di violazione di legge – infatti – consiste nella deduzione di una erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e, quindi, implica necessariamente un problema interpretativo della stessa (da cui la funzione di assicurare la uniforme interpretazione della legge, assegnata dalla Corte di cassazione).

Viceversa, la allegazione di una erronea ricognizione della fattispecie concreta, a mezzo delle risultanze di causa, è esterna alla esatta interpretazione della norme di legge e impinge nella tipica valutazione del giudice del merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l’aspetto del vizio di motivazione.

Lo scrimine tra l’una e l’altra ipotesi – violazione di legge in senso proprio a causa della erronea ricognizione della astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta – è segnato, in modo evidente, che solo questa ultima censura e non anche la prima è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (Recentemente, in questo senso Cass. 27 settembre 2011, n. 19748; Cass. 9 agosto 2010, n. 18375;

Cass. 26 aprile 2010, n. 9908; Cass. 13 aprile 2010, n. 8730, tra le tantissime).

Certo quanto precede è agevole osservare che parte ricorrente ancorchè assuma (almeno nella rubrica dei motivi) di voler denunziare la sentenza impugnata, da un lato, per violazione e falsa applicazione della L. 3 maggio 1982, n. 203, artt. 16 e 17, si astiene – totalmente – nella parte espositiva del motivo stesso (come anche nel quesito che lo conclude), dall’indicare quale sia la interpretazione data dai giudici a quibus alle ricordate disposizioni e quale quella – diversa – corretta a parere dello stesso ricorrente, limitandosi a denunciare che i giudici del merito non avrebbero ritenuto che le opere realizzate da essi concludenti non costituiscono miglioramento arrecato al fondo.

In altri termini la difesa di parte ricorrente pur invocando che i giudici del merito, in tesi, hanno malamente interpretato le disposizioni di legge indicata nella intestazione del motivo (L. 3 maggio 1982, n. 203, artt. 16 e 17), in realtà, si limita a censurare la interpretazione data, dai giudici del merito, delle risultanze di causa, interpretazione a parere dei ricorrenti inadeguata, sollecitando, così, contra legem e cercando di superare quelli che sono i limiti del giudizio di cassazione, un nuovo giudizio di merito su quelle stesse risultanze.

Il tutto a prescindere dal considerare che se – per la "nuova" utilizzazione delle opere realizzate dai conduttori sono indispensabili lavori di riadattamento e di riduzione dell’impatto ambientale è palese che non vi è stato – in concreto – alcun miglioramento indennizzabile ai sensi delle ricordate disposizioni normative (L. n. 203 del 1982, artt. 16 e 7).

12. Con l’ottavo motivo i ricorrenti principale denunziano "omessa e/o insufficiente motivazione – in relazione all’art. 366 c.p.c., n. 5 – circa un fatto controverso, per essersi ritenuto che la demolizione dei trulli fosse avvenuta invito domino, trascurandosi totalmente l’esame delle note 9 giugno 1977 (allegata in duplice copia a pagina 28 della relazione del ctu geom. L. di primo grado, versata nel relativo fascicolo di ufficio) e 24 agosto 1978 (cfr. doc. n. 6 bis della prima produzione dell’avv. Giuseppe Chiarolla allegata, a sua volta, sub n. 4 della nostra produzione di secondo grado) con cui la marchesa A. dichiarava di conoscere la domanda concernente la stalla – i cui lavori ne comportavano la demolizione dei cinque trulli de quibus – e quindi di autorizzare la demolizione stessa".

Il motivo si conclude con la precisazione: "la questione di diritto di cui al presente motivo va risolta rispondendo al seguente quesito "dica la Suprema Corte adita se. con riferimento alla fattispecie concreta, si sarebbe potuto ritenere che la demolizione dei trulli fosse avvenuta invito domino anche qualora fossero state esaminate le note A. 9 giugno 77 e 24 agosto 18 da cui si evince testualmente che la proprietaria era invece al corrente di detta demolizione e della costruzione ex novo della stalla sul sedime risultante dalla demolizione". 13. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza.

A prescindere da ogni altra considerazione, le parole con cura estrapolate dalla difesa dei ricorrenti dalle lettere della concedente e che – a soggettivo parere della difesa degli stessi ricorrenti – contengono una espressa autorizzazione alla demolizione di cinque trulli – non solo dovevano, se del caso, essere trascritte nel contesto in cui appaiono nella invocate note e non certamente per estratto, ma le stesse così come riportate nel motivo, non paiono in alcun modo idonee a suffragare gli assunti prospettati nel motivo.

Specie tenuto presente che la stessa difesa della parte ricorrente afferma che, in realtà, il consenso alla demolizione deve ritenersi presupposto, totalmente prescindendo da quanto assolutamente pacifico presso una giurisprudenza più che consolidata di questa Corte secondo cui il consenso del concedente – anteriore alla esecuzione delle opere – deve necessariamente essere espresso (tra le tantissime, in tale senso, ad esempio, Cass. 20 gennaio 2006, n. 1113).

14. Con il nono motivo i ricorrenti principale lamentano "omessa e/o insufficiente motivazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – per essersi sic et simpliciter ritenuto "quantificabile in Euro 95.000,00" il preteso danno per demolizione trulli – contestato nel quantum dai D. – C. senza specificare i dati tecnici e gli elementi valutativi presi a base per pervenire alla predetta quantificazione".

Il motivo si conclude con la seguente affermazione: "dica la Suprema Corte qui adita se, nella fattispecie concreta, fosse possibile indicare un danno per demolizione trulli in Euro 95.000,00 senza specificare i dati tecnici e gli elementi valutativi singolarmente presi a base per pervenire alla predetta conclusione, contestata dagli appellanti D. – C.". 15. Il motivo è inammissibile atteso che fa assolutamente difetto una idonea chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni che la rende inidonea a giustificare la decisione, ai sensi dell’art. 366-bis cod. proc. civ..

In particolare – a norma della disposizione da ultimo richiamata – come è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile (Cass. 6 dicembre 2011, n. 26219; Cass. 27 settembre 2011, n. 19748, specie in motivazione; Cass. 23 maggio 2011, n. 11297; Cass. 17 luglio 2008, n. 19769, tra le tantissime), analogamente non risponde al precetto di legge la mera invocazione che la conclusione fatta propria dalla sentenza impugnata a soggettivo parere del difensore della parte ricorrente non è sufficiente.

In altri termini, atteso che nel vigore dell’art. 366 bis cod. proc. civ. in caso di vizio di motivazione la illustrazione di ciascun motivo deve contenere, a pena di inammissibilità, la chiara indicazione del fatto controverso in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, ovvero le ragioni per le quali la dedotta insufficienza della motivazione la rende inidonea a giustificare la decisione, la relativa censura deve contenere un momento di sintesi (omologo del quesito di diritto), che ne circoscriva puntualmente i limiti, in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (Cfr., ad esempio, Cass. 20 ottobre 2011, n. 21703; Cass. 31 luglio 2011, n. 17905).

Tale momento di sintesi – pertanto – non può risolversi – contrariamente a quanto pare ritenga la difesa dei ricorrenti principali – nella mera indicazione del capo censurato con il motivo di ricorso e nella affermazione che in ordine a quella specifica statuizione non sarebbero stati specificati, dalla sentenza impugnata, gli elementi alla luce dei quali è stata raggiunta la contestata conclusione. (Singolarmente, peraltro, da un lato, totalmente trascurando quanto invocato dalla sentenza impugnata a fondamento della conclusione raggiunta e, dall’altro, richiamando elementi – a sostegno degli assunti prospettati nel solo corpo del motivo (e quindi in termini insufficienti) – ricavabili da documenti presenti in causa ma di cui non sono trascritti, per esteso, in ricorso, i passaggi essenziali al fine del decidere).

16. Con il decimo motivo i ricorrenti principali lamentano: "omessa e/o insufficiente motivazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 controverso, per essersi esclusa la qualifica di coltivatore diretto del C.G. trascurandosi totalmente l’esame delle note 30 ottobre 1979 e 8 maggio 1980 con cui la marchesa A. confessava la circostanza".

Il motivo si conclude con la seguente affermazione: "dica la Suprema Corte qui adita se, con riferimento alla fattispecie concreta si potesse escludere la qualifica di coltivatore diretto del sig. C.G., ancorchè questa fosse stata confessata dalla concedente marchesa A. – Ca. con le note a sua firma del 30 ottobre 1979 e 8 maggio 1980 non esaminate in sentenza". 17. Il motivo è inammissibile.

A prescindere dal considerare che i giudici del merito, ben lungi dal rendere la loro pronunzia totalmente prescindendo dalle note a firma della marchesa A. – Ca., hanno puntualmente indicato le ragioni per le quali le stesse erano, al fine del decidere, prive di alcun particolare significato, si osserva che – in realtà – la sentenza impugnata in alcuna sua parte ha – ex professo o incidenter tantum – affrontato il problema se il C. potesse, o meno qualificarsi coltivatore diretto.

La sentenza – in particolare – dovendo fare applicazione della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 17 (comma 9) si è posta il diverso problema se il C. avesse o meno, i requisiti per poter essere qualificato imprenditore agricolo a titolo principale, ai sensi e per gli effetti di cui alla L. 9 maggio 1975, n. 153, art. 12.

Sulla base di una articolata e complessa motivazione (dalla quale totalmente prescinde il motivo di ricorso in esame) i giudici del merito sono pervenuti (facendo propri gli accertamenti dei consulenti tecnici d’ufficio) alla conclusione che non si ha motivo di ritenere che il C. non fosse in possesso di questi requisiti.

Certo quanto precede è palese che non vi è alcuna relazione, tra la censura prospettata con il motivo (omesso esame delle dichiarazioni provenienti dalla allora concedente del fondo per cui è controversia, dichiarazioni che qualificano il C. coltivatore diretto) e la statuizione impugnata (secondo cui il C. è in possesso delle condizioni per essere qualificato, a norma della L. n. 153 del 1975, art. 12, imprenditore agricolo a titolo principale).

A prescindere dal considerare che il possesso di una qualifica non è incompatibile con il possesso dell’altra è sufficiente osservare che la qualificazione di un soggetto quale imprenditore agricolo a titolo principale deriva dal possesso di una serie di requisiti espressamente indicati dalla legge e non è in alcun modo nella disponibilità nè del titolare della stessa nè del concedente del fondo ove lo stesso svolga la propria attività imprenditoriale.

E’ palese, per l’effetto, che del tutto correttamente i giudici di secondo grado hanno ritenuto totalmente irrilevante, ai fini dell’accertamento loro demandato (sussistenza, o meno, in capo al C. della qualità di imprenditore agricolo a titolo principale (ai fini della L. n. 203 del 1982, art. 17, comma 9)) il contenuto delle dichiarazioni provenienti dalla marchesa A..

18. Con l’undicesimo motivo i ricorrenti principali lamentano:

"omessa e/o insufficiente motivazione – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 per essersi esclusa sulla base di una documentazione non specificata e senza invece procedersi ad una nuova verifica dei luoghi – la realizzazione ad opera del C., di un sistema meccanico di ricovero degli animali, accertata, invece, dal ctu nominato in primo grado".

Il motivo si conclude con la seguente precisazione: "dica la Suprema Corte qui adita se, nella fattispecie concreta, l’accertamento tecnico di un miglioramento, consistente nella realizzazione di un autonomo sistema meccanico di ricovero degli animali potesse essere compiuta solo sulla scorta di una non meglio precisata documentazione o non dovesse piuttosto discendere da un accesso sui luoghi di causa finalizzato verificare l’esistenza del detto impianto ed a quantificarne il valore".

Con il dodicesimo – e ultimo – motivo i ricorrenti principali denunziano "omessa e/o insufficiente motivazione su un fatto decisivo – in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5 – per non aver la sentenza spiegato le ragioni tecniche per le quali l’esistenza del predetto sistema meccanico di ricovero non comporta vantaggio agronomico e migliorativo sulla base di una "documentazione" neppur citata.

Il motivo si conclude con la seguente precisazione: "dica la Suprema Corte qui adita se, con riferimento alla fattispecie concreta il miglioramento rinveniente nella stabulazione potesse tecnicamente escluso, senza la preventiva acquisizione di particolari dati in proposito e senza motivazione sul punto se non il mero richiamo a una documentazione giammai specificata". 19. I motivi, intimamente connessi e da esaminare, pertanto, congiuntamente, non possono trovare accoglimento.

Alla luce delle considerazioni che seguono.

19.1. Come già osservato in margine al nono motivo – a norma dell’art. 366-bis cod. proc. civ. come è inammissibile il ricorso contenente un quesito di diritto che si limiti a chiedere alla S.C. puramente e semplicemente di accertare se vi sia stata o meno la violazione di una determinata disposizione di legge o a enunciare il principio di diritto in tesi applicabile, analogamente non risponde al precetto di legge la mera invocazione che la conclusione fatta propria dalla sentenza impugnata a soggettivo parere del difensore della parte ricorrente non è sufficiente.

Sotto tale profilo (violazione dell’art. 366-bis cod. proc. civ.), pertanto, sia l’undicesimo che il dodicesimo motivo sono inammissibili.

19. 2. Anche a prescindere da quanto precede si osserva che i detti motivi sono inammissibili per difetto di autosufficienza atteso che era onere di parte ricorrente non limitarsi a riportare lo specchietto a p. 15 della consulenza tecnica di primo grado (che riconosceva a credito di parte conduttrice per lire 87.500.000) ma doveva trascrivere gli argomenti sviluppati da detto consulente per addivenire a una tale conclusione e per ritenere sussistente nella specie un’opera indennizzabile.

In ogni caso, avendo i giudici di secondo grado – sulla base delle considerazioni svolte dalla consulenza espletata in secondo grado – escluso qualsiasi vantaggio agronomico e migliorativo dall’opera in discussione è palese che – se del caso – era onere dei ricorrenti censurare tali accertamenti, denunziandone eventuali vizi, e non limitarsi a invocare, del tutto genericamente, le (solo) conclusioni del consulente di primo grado.

19.3. Perchè possa trovare accoglimento la domanda diretta ad ottenere, al momento della cessazione del rapporto di affitto agrario, un indennizzo per i miglioramenti che l’affittuario assume di aver apportato al fondo occorre che questi in primis dimostri l’avvenuta esecuzione delle opere volte al miglioramento del fondo (Cass. 20 gennaio 2006, n. 1113; Cass. 4 giugno 2002, n. 8672).

Pacifico che i giudici di appello hanno rigettato tale capo della domanda perchè nella specie nessuna prova è stata data – dal soggetto che ne era onerato – circa la realizzazione di un vantaggio agronomico e migliorativo, è palese la manifesta infondatezza, sotto tale profilo, dei motivi in esame.

19.4. A prescindere dal considerare – contrariamente a quanto suppone la difesa dei ricorrenti principali – che è insindacabile in sede di legittimità la mancata ammissione di una (nuova) consulenza tecnica, si osserva che la consulenza tecnica d’ufficio non è mezzo istruttorie in senso proprio, avendo la finalità di coadiuvare il giudice nella valutazione di elementi acquisiti o nella soluzione di questioni che necessitino di specifiche conoscenze, sì che il suddetto mezzo di indagine non può essere utilizzato al fine di esonerare la parte dal fornire la prova di quanto assume, ed è quindi legittimamente negata qualora la parte tenda con essa a supplire alla deficienza delle proprie allegazioni o offerte di prova, ovvero di compiere una indagine esplorativa alla ricerca di elementi, fatti o circostanze non provati (Cass. 8 febbraio 2011, n. 3130; Cass. 28 febbraio 2007, n. 4743).

21. I ricorrenti incidentali censurano la sentenza impugnata deducendo, nell’ordine:

– da un lato, "violazione e/o falsa applicazione della L. 3 maggio 1981, n. 203, art. 17 in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, per avere la corte territoriale, con la impugnata sentenza n. 193/08 del 27 febbraio – 23 giugno 2008, condannato i Ca. al pagamento, in favore degli eredi C.G., della indennità per le migliorie "da adeguarsi ai valori monetari odierni con rivalutazione degli indici Istat, a decorrere dal 28 febbraio 2007, oltre agli interessi compensativi al tasso medio del 2.5% dal 29 gennaio 1998 al soddisfo" (primo motivo);

dall’altro, "violazione e/o falsa applicazione degli artt. 329, 346 e 324 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 per avere la corte territoriale, con la impugnata sentenza … condannato i germani Ca. al pagamento, in favore degli eredi C. G., oltre alla stabilita indennità per le migliorie, anche all’adeguamento ai valori monetari odierni con rivalutazione in ragione della variazioni degli indici Istat a decorrere dal 28 febbraio 2007, oltre agli interessi compensativi al tasso medio del 2.5% dal 29 gennaio 1998 al soddisfo" (secondo motivo).

Formulano al riguardo i ricorrenti incidentali i seguenti quesiti:

– "dica la Suprema Corte, enunciando il relativo principio di diritto, se l’adeguamento ai valori monetar con la ulteriore rivalutazione in ragione delle variazioni degli indici ISTAT, oltre interessi compensativi al tasso medio debbono decorrere ed essere determinati soltanto al momento della materiale consegna della azienda agricola, ai concedenti proprietari germani Ca., da parte degli eredi C.G." (quanto al primo motivo);

– "dica la Suprema Corte, enunciando i relativi principi di diritto, se poteva la Corte Territoriale condannare i germani Ca. anche alla rivalutazione della indennità liquidata ed agli interessi, ancorchè non previsti dalla sentenza di primo grado, non richiesti con la domanda e non considerati nell’atto di appello, con il conseguente passaggio in cosa giudicata formale, sul punto, della impugnata sentenza" (in margine al secondo motivo).

22. Oppongono i ricorrenti principali che entrambi tali motivi sono inammissibili.

In particolare:

– la questione prospettata con il primo motivo non è stata mai sollevata in sede di merito e costituisce domanda nuova, atteso che essi concludente hanno formulato, una domanda in tale senso (maggiorazione per interessi e rivalutazione sino al soddisfo) come da p. 12 dell’atto di appello 3 settembre 2004;

– non è vero (contrariamente a quanto si afferma nel secondo motivo di ricorso incidentale) che la rivalutazione e interessi non siano stati chiesti con l’atto di appello del 3 settembre 2004, come risulta dalla p. 12 di questo.

23. L’eccezione è manifestamente infondata.

Giusta la testuale previsione di cui all’art. 437 c.p.c., comma 2, (da cui totalmente prescinde la difesa dei ricorrenti principali) nel giudizio di appello, quanto alle controversie soggette al rito di cui agli artt. 409 e ss. cod. proc. civ. "non sono ammesse nuove domande ed eccezioni" (cfr. Cass. 12 settembre 2008, n. 23563; Cass. 23 marzo 2006, n. 6431).

E’ palese, di conseguenza che sono assolutamente irrilevanti, e non pertinenti al fine di ritenere precluse, in questa sede di legittimità, le eccezioni contenute nei motivi del ricorso incidentale quelle che sono state le conclusioni rassegnate dai ricorrenti principali in grado di appello, dovendosi – al riguardo – fare riferimento unicamente alle conclusioni del giudizio di primo grado (nell’ambito del quale nè il giudice ha pronunziato sulla questioni ora in discussione, nè risulta sia stata introdotta, in causa, una domanda di tale contenuto dagli allora attori).

24. Pur se ammissibili, sotto il profilo di cui sopra, i motivi in esame sono infondati.

In conformità a costante giurisprudenza di questa Corte regolatrice – in particolare – deve ribadirsi:

– da un lato, che il diritto all’indennità per i miglioramenti apportati al fondo, spettante all’affittuario ai sensi della L. 3 maggio 1982, n. 203, art. 17, comma, 2, ha carattere risarcitorio perchè sostituisce la diminuzione al patrimonio del medesimo derivatane e pertanto gli spettano rivalutazione monetaria (Cass. 22 marzo 2007, n. 6964) ed interessi – compensativi – anche d’ufficio (Cass. 17 aprile 1996, n. 3632) e, quindi, indipendentemente dalla domanda della parte (Cass. 25 gennaio 1991, n. 754), essendo entrambi componenti del danno e quindi parte integrante del risarcimento (Cass. 16 febbraio 2001, n. 2332);

– dall’altro, che occorre determinare il valore dell’incremento conseguito dal fondo con riferimento alla data di cessazione del contratto, sicchè non rilevano gli eventi successivi, quali il degrado sopravvenuto tra la data di cessazione del rapporto e quella successiva della riconsegna sulla indennità in questione (in termini, Cass. 22 marzo 2007, n. 6964) e che rivalutazione monetaria ed interessi decorrono dalla data di cessazione dell’affitto (Cass. 16 febbraio 2001, n. 2332).

Pacifico quanto precede, non controverso che i giudici del merito si sono attenuti ai riferiti principi è palese – come anticipato – la infondatezza di entrambi i motivi del ricorso incidentale.

26. Sia il ricorso principale, in conclusione, sia quello incidentale, devono rigettarsi, con compensazione delle spese di questo giudizio di legittimità, stante la reciproca soccombenza.

P.Q.M.

La Corte, rigetta il ricorso principale nonchè quello incidentale;

compensa, tra le parti, le spese di questo giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 21 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 30 gennaio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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