Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-01-2012, n. 1284 Clausola penale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 28-5-2009 la Corte di Appello di Firenze ha confermato la decisione de Tribunale di rigetto della domanda proposta dalla Jolly Caffè s.p.a. nei confronti di L. B., volta ad ottenere il pagamento della somma di Euro 40.340,10 a titolo di risarcimento del danno per inadempimento relativo ai contratti del 1986 e del 1987 in base a quali la B. si era impegnata all’acquisto di 150 Kg di caffè al mese, da ritirare con scadenza periodica ogni quindici giorni . La Corte di appello ha ritenuto, a modifica della decisione di primo grado,che il diritto al pagamento della penale di cui all’art. 13 del contratto non fosse prescritto, ma ha confermato il rigetto della domanda sul rilievo ufficioso della nullità della clausola penale ex art. 1436 cod. civ. per indeterminatezza dell’oggetto.

Propone ricorso per Cassazione la Jolly Caffè s.p.a con quattro motivi. Resiste con controricorso B.L..

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo si denunzia violazione degli artt. 99 e 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360 cod. proc. civ., n. 4 e degli artt. 1382, 1346, 1418 e 1421 cod. civ., per aver la Corte di appello pronunziato di ufficio la nullità della clausola n. 13 del contratto, oltre ed al di fuori della domanda attrice e delle eccezioni della convenuta.

2. Come secondo motivo si denunzia nullità della sentenza ai sensi dell’art. 360, n. 4 per violazione dell’art. 24 Cost. e degli artt.182, 183, 159 e 384 cod. proc. civ., per avere la Corte di appello deciso la causa rilevando di ufficio la nullità della clausola senza segnalare alla parti tale possibilità, affinchè sulla stessa esse abbiano la possibilità di contraddire.

3. Con il terzo motivo si denunzia difetto di motivazione ex art. 360 cod. proc., n. 5, in relazione alla ritenuta indeterminabilità della clausola penale.

Sostiene la ricorrente di aver indicato nell’atto di citazione i criteri e le modalità per il calcolo della penale che ammontava al 20% del valore della merce non ritirata, criteri non contestati neanche dalla controparte. 4. Con il quarto motivo si denunzia violazione degli artt. 1362, 1363, 1366 e 1367 e 1346 cod. civ. in ordine all’interpretazione della clausola penale.

5. I motivi, che si esaminano congiuntamente per la stretta connessione logico-giuridica, sono inammissibili per violazione dell’art. 366 c.p.c., n. 6: si invoca un contratto e la clausola n. 13 dello stesso ,di cui si lamenta la erronea interpretazione, senza l’indicazione di dove il contratto è stato prodotto e senza la trascrizione della clausola.

6. Il novellato art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, oltre a richiedere la specifica indicazione degli atti e documenti posti a fondamento del ricorso, esige che sia specificato in quale sede processuale il documento, pur individuato in ricorso, risulti prodotto, Tale specifica indicazione, quando riguardi un documento prodotto in giudizio, postula che si individui dove sia stato prodotto nelle fasi di merito e, in ragione dell’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, anche esso sia prodotto in sede di legittimità. In altri termini il ricorrente per cassazione, ove intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione, il secondo deve essere adempiuto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno solo di tali oneri rende il ricorso inammissibile, Cass. 27 maggio 2011, n. 117467.

Per completezza si osserva che secondo giurisprudenza costante di questa Corte il potere del giudice di dichiarare d’ufficio la nullità di un contratto, ex art. 1421 cod. civ., deve essere coordinato con il principio della domanda, ex artt. 99 e 100 cod. proc. civ., in quanto il giudice, indipendentemente dall’attività assertiva delle parti, è tenuto a rilevare la nullità in qualsiasi stato e grado del giudizio solo quando sia in contestazione l’applicazione o l’esecuzione del contratto, perchè in tale ipotesi la validità dell’atto si pone come elemento costitutivo della domanda. Se, invece, la domanda è diretta a far dichiarare l’invalidità del contratto, la pronuncia del giudice deve essere circoscritta alle ragioni di illegittimità dedotte dalla parte, perchè, in tale ipotesi, la nullità si pone come elemento costitutivo della domanda, ex plurimis Cass. 10-9-2004 n. 18210. 8. Nella specie la ricorrente ha agito per l’esecuzione della clausola contrattuale n. 13 contenuta nel contratto per ottenere il risarcimento del danno nella misura prevista dalla clausola penale, di conseguenza la validità della clausola si pone come elemento costitutivo della domanda, con conseguente potere per la corte di appello di rilevarne di ufficio la nullità. 9. Inoltre le Sezioni Unite di questa Corte hanno affermato che, indiscussa la violazione "deontologica" da parte del giudicante che decida pronunciando sentenza sulla base di rilievi non previamente sottoposte alle parti, la nullità processuale non possa essere, ipso facto, sempre e comunque predicata, quale conseguenza indefettibile di tale omissione. Per effetto del solo mancato rilievo officioso (e della conseguente, mancata segnalazione tempestiva alle parti) di questioni di puro diritto non sembra seriamente ipotizzabile, pur a fronte della violazione di un dovere "funzionale" del giudicante, la consumazione di altro vizio "processuale" diverso dall’error iuris in iudicando (ovvero ancora in iudicando de iure procedendo), la cui denuncia in sede di legittimità consentirebbe la cassazione della sentenza se (e solo se) tale errar iuris risulti in concreto predicabile perchè in concreto consumatosi. Di conseguenza, saranno le sole questioni di fatto ovvero miste, di fatto e di diritto, a legittimare la parte soccombente (a prescindere dalla censura di erroneità della soluzione) a dolersi del decisum sostenendo che la violazione di quel dovere di indicazione ha vulnerato la facoltà di chiedere prove (o, in ipotesi, di ottenere una eventuale rimessione in termini). Così, in particolare, per l’ipotesi di sentenza di primo grado appellabile, non può ritenersi sufficiente che il giudice abbia rilevato d’ufficio una questione senza sottoporla al previo contraddittorio delle parti, ma occorre che la relativa rilevazione officiosa abbia determinato ipotesi di sviluppo della res litigiosa, fino a quel "momento" processuale non considerati dalle parti sotto il profilo della prova, di talchè la presunta violazione del contraddittorio (rectius, del principio di difesa) risulterà denunciabile quale motivo di appello solo al fine di rimuovere alcune preclusioni dell’art. 345 (specie in materia di contro-eccezione o di prove non indispensabili), senza necessità di giungere alla più radicale soluzione della rimessione in primo grado – salva la prova, in casi ben specifici e determinati, in cui risulti realmente ed irrimediabilmente vulnerato lo stesso valore del contraddittorio.

Cass. Sezioni Unite 30-9-2009, n. 20935. 10. Nella specie il giudice di appello ha ritenuto che la prestazione oggetto della penale non era determinata nè determinabile, non essendovi licun riferimento al totale delle somme sul quale applicare la pattuita percentuale del 20%, e che i calcoli indicati dall’odierno ricorrente non trovavano alcun riscontro probatorio, non essendo in alcun modo ricavabili dal contesto dei due contratti.

6. Non vi è stata la denunziata violazione del principio del contraddittorio con lesione del diritto di difesa in quanto il ricorrente ha avuto modo di contraddire e di difendersi in relazione al modo di calcolare l’entità della penale, indicando criteri ritenuti dalla Corte di appello non idonei, perchè non ricavabili dal contenuto dell’atto, come si rileva anche dal terzo motivo di impugnazione. Le spese del giudizio di cassazione seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali del giudizio di cassazione liquidate in Euro 3.200,00 di cui Euro 200,00 per spese, oltre spese generali ed accessori come per legge.

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