Cass. civ. Sez. III, Sent., 30-01-2012, n. 1282 Responsabilità civile per ingiurie e diffamazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Il giornalista M. citò in giudizio il F. per il risarcimento del danno che sosteneva essergli derivato da espressioni contro di lui utilizzate dall’uomo politico in varie occasioni. Il convenuto sostenne che la sua reazione verbale era conseguenza di alcuni servizi televisivi e radiofonici che lo avevano diffamato e calunniato. Propose, pertanto, domanda riconvenzionale di condanna del M. e della RAI al risarcimento del danno in suo favore. Il Tribunale di Locri respinse la domanda principale ed accolse quella riconvenzionale, condannando il M. e la RAI al risarcimento dei danni in favore del F.. La Corte d’appello di Reggio Calabria, accogliendo l’appello proposto dal M. e dalla RAI, ha parzialmente riformato la prima sentenza ed ha rigettato la domanda riconvenzionale del F..

Quest’ultimo propone ricorso per cassazione a mezzo di cinque motivi.

Rispondono con controricorso la RAI ed il M..

Motivi della decisione

Infondato è il primo motivo – nel quale si sostiene l’inammissibilità o la nullità dell’atto d’appello del M. perchè proposto da difensore privo di mandato – poichè il giudice, esercitando il potere interpretativo dell’atto, ha dedotto che dal suo complessivo contenuto emerge che la firma del M., autenticata dal difensore e posta in calce alla procura rilasciata dalla RAI (avente analoga posizione processuale), non può avere che l’inequivoco valore di far propria la procura.

Infondato è il secondo motivo – nel quale si sostiene che il giudice d’appello avrebbe dovuto dichiarare inammissibile o nullo l’atto di gravame per difetto di specificità dei motivi di censura – in quanto la sentenza spiega che la controparte ha reiterato le difese di merito svolte nel primo grado, ancorandole a precisi aspetti della non condivisa valutazione operata dal primo giudice, così adeguandosi al principio secondo cui, ai fini della specificità dei motivi richiesta dall’art. 342 cod. proc. civ., l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto, invocate a sostegno dell’appello, possono sostanziarsi anche nella prospettazione delle medesime ragioni addotte nel giudizio di primo grado, purchè ciò determini una critica adeguata e specifica della decisione impugnata e consenta al giudice del gravame di percepire con certezza il contenuto delle censure, in riferimento alle statuizioni adottate dal primo giudice (Cass. SU n. 28057/08).

I motivi dal terzo al quinto sono in parte inammissibili ed in parte infondati.

In primo luogo occorre rilevare che anche riguardo a questi motivi difetta il requisito dell’autosufficienza, posto che la mancanza di una compiuta spiegazione del fatto impedisce alla Corte di delibare le doglianze senza ricorrere alla lettura di altri atti, tra cui la sentenza impugnata. In secondo luogo, le censure tendono prevalentemente a conseguire un nuovo accertamento del merito della vicenda ed una diversa valutazione degli elementi probatori emersi, così esorbitando rispetto al ristretto e specifico ambito del giudizio di cassazione.

Per il resto, risultano infondate sia le censure di violazione di legge, sia quelle di vizio della motivazione. Infatti, la sentenza correttamente pone a parametro valutativo i canoni dettati in materia dalla giurisprudenza di legittimità (la veridicità dei fatti, la continenza delle espressioni e l’interesse pubblico alla divulgazione) e spiega (in maniera congrua e logica, sulla base della documentazione acquisita) che le notizie erano del tutto vere al momento della divulgazione ed in particolare: che nelle carte dell’operazione di polizia emergevano i nomi sia del F., sia di tre magistrati; che nei confronti del F. erano stati fatti approfondimenti istruttori; che nei confronti del medesimo erano stati ipotizzati fatti illeciti riguardanti l’associazione mafiosa ed un possibile appoggio elettorale da parte di una cosca; che successivamente era stata esclusa qualsiasi responsabilità del suddetto; che il servizio giornalistico era stato preparato con "asciuttezza terminologica", attraverso l’uso dei verbi al condizionale e di espressioni prive di qualsiasi profilo pretestuosamente denigratorio rispetto al fine della cronaca; che sussisteva l’interesse pubblico e l’utilità sociale dell’informazione in questione.

Il ricorso deve essere, pertanto, respinto, con condanna del ricorrente a rivalere la controparte delle spese sopportate nel giudizio di cassazione.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 4200,00, di cui Euro 4000,00 per onorari, oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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