Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-05-2011) 22-09-2011, n. 34425

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Svolgimento del processo

1. – Con il provvedimento indicato in epigrafe la Corte d’appello di Napoli confermava il decreto emesso il 21 novembre 2007 dal Tribunale della sede, che aveva disposto nei confronti di M.L.:

– la misura di prevenzione personale della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza con obbligo di soggiorno per la durata di anni tre;

– la misura di prevenzione reale della confisca, relativamente a beni immobili siti in (OMISSIS) (un terreno con sovrastante immobile su due piani) di proprietà del proposto e della moglie.

1.1. – Il Tribunale, sulla base delle risultanze emerse nel corso del procedimento di prevenzione (curriculum criminale del proposto;

contenuto di sentenze definitive) aveva ritenuto il M. persona pericolosa ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, artt. 1 e 2 e successive modificazioni, siccome stabilmente inserito nell’associazione criminale di stampo camorristico capeggiata da M.L., operante nei quartieri partenopei di Soccavo, Fuorigrotta e Pianura ed i beni confiscati, nella indiscussa disponibilità del prevenuto, di "illecita origine, giacchè la loro acquisizione, non giustificata da alcun introito di origine legittima, doveva necessariamente esser frutto dei proventi della continua, ininterrotta ed assidua dedizione del M. ad attività criminose perpetrate sotto l’egida di agguerrite organizzazioni camorristiche operanti nelle zone dianzi indicate". 1.2. – A ragione della conferma del decreto di confisca – unico profilo del provvedimento, oggetto di specifica impugnazione da parte del proposto – la Corte d’appello osservava che il Tribunale aveva già dato risposta alle prospettazioni difensive articolate nell’atto di gravame, che avevano riguardato, in sintesi: (a) la legittimità degli acquisti dei cespiti confiscati, risalente al 1986; (b) l’insussistenza nel caso in esame della pur necessaria "correlazione temporale" tra l’appartenenza del M. all’organizzazione camorristica e l’acquisto dei beni asseritamene riconducibili ad attività illecite.

1.2.1. – Con riferimento alla prima censura, secondo cui l’acquisto dei cespiti sarebbe avvenuto grazie ai proventi di una lecita attività lavorativa (appaltatore edile) svolta dal M. negli anni tra il 1977 ed il 1982 ed attraverso la vendita di alcuni immobili, di proprietà del proposto e del coniuge, avvenuta rispettivamente nel 1981, per un corrispettivo di sedici milioni di lire, e nel 1988, per un corrispettivo di quaranta milioni – importi ritenuti largamente sufficienti a consentire, all’epoca, sia l’acquisto del terreno sia la successiva edificazione dell’immobile, incongruamente qualificato, in sede di prevenzione, come villa – la Corte territoriale evidenziava, infatti, che dello svolgimento di un’attività imprenditoriale da parte del preposto, "al di là delle semplici dichiarazioni di parte rese in sede istruttoria camerale" non vi era "alcuna specifica traccia", atteso che il M. non aveva mai presentato alcuna dichiarazione dei redditi e che dagli archivi INPS emergevano unicamente "retribuzioni saltuarie e di ammontare modestissimo" laddove "lo svolgimento di un’attività imprenditoriale o che possa definirsi tale" non poteva, evidentemente "non lasciare qualche traccia documentale". 1.2.2. – A confutazione della seconda censura difensiva, secondo cui la costituzione del clan Martella andava fatta risalire all’anno 1997, "conformemente all’accertamento fattone in sede penale", con la conseguenza che "la partecipazione a detto sodalizio criminale da parte del M., non può che farsi risalire, al massimo, a tale anno, e l’acquisto dei beni confiscati non può ricondursi ad attività illecite ricollegabili al ritenuto profilo di pericolosità", la Corte territoriale osservava: (a) in via generale, il carattere non vincolante dell’accertamento condotto in sede penale, a ragione del carattere di autonomia del processo di prevenzione, fondato su di un "giudizio probabilistico e non già di certezza", che legittimamente può comportare che il "perimetro cronologico" di tale procedimento si differenzi da quello proprio del giudizio penale; (b) che in assenza di un formale atto costitutivo dell’organizzazione criminale, legittimamente "gli indizi di appartenenza associativa" potevano considerarsi risalenti ad epoca anteriore, in quanto "le statuizioni temporali del giudicato penale relativo alla condanna per 416 bis cod. pen. emessa a carico del M., non possono essere assunte ad elemento di giudizio"; (c) che in sede di prevenzione, in ogni caso, non era affatto necessario accertare l’appartenenza del proposto "ad una specifica organizzazione mafiosa o similare", bensì "il suo probabile inserimento in una qualsiasi organizzazione di tal fatta", ciò desumendosi "dalla formulazione della L. n. 575 del 1965, art. 1, ove si parla di associazioni, al contrario di quanto il legislatore ha fatto nell’art. 416 bis cod. pen."; (d) che in ogni caso appariva corretta la vantazione del Tribunale, secondo cui "le attività criminose ed i collegamenti camorristici del M." dovevano "farsi risalire agli inizi degli anni ’80", in quanto basata sul "curriculum giudiziario" del M., nel quale, accanto ad una "intensa attività delinquenziale di tipo generico" quale desumibile da condanne per furto riportate nel 1976 e nel 1978, figurava anche una condanna per fatti di contrabbando commessi nel 1988, per altro non isolata, risultando seguita da altre due condanne sempre per contrabbando di tabacco; circostanza questa correttamente ritenuta dal primo giudice indicativa del "fattivo operare del prevenuto nel campo degli illeciti propri della criminalità organizzata partenopea", rappresentando un dato di comune esperienza "che il contrabbando di tabacco ha da sempre costituito una delle attività illegali soggette al controllo della camorra" e che "le organizzazioni criminali non consentono autonomi ed isolati interventi da parte di estranei nei rami degli illeciti che tradizionalmente si sono riservati"; (e) che in ogni caso, in base ad una interpretazione della L. n. 575 del 1965, art. 2 ter e successive modificazioni ritenuta dalla Corte territoriale pienamente aderente alla lettera ed alla ratio della legge, i beni del soggetto indiziato "di appartenenza ad un’associazione di tipo mafioso o similare" e nei cui confronti è stata disposta misura di prevenzione personale, possono essere oggetto di sequestro e di eventuale confisca, ove, in presenza degli altri requisiti previsti dalla norma, "si ha motivo di ritenere che gli stessi siano il frutto di attività illecite", senza che sia necessario accertare che gli stessi siano anche "frutto o reimpiego dei proventi di condotte illecite funzionalmente connesse all’appartenenza del soggetto all’organizzazione mafiosa".

In conclusione, osservava la Corte territoriale, risultavano soddisfatti nella fattispecie tutti i requisiti che la legge antimafia richiede per farsi luogo al provvedimento ablativo, e cioè quello soggettivo dell’appartenenza del proposto M. ad un’organizzazione camorristica, e quello oggettivo dei gravi e precisi indizi circa l’origine illecita dei beni (unico specifico punto della decisione, oggetto del gravame), giacchè sia il criterio logico-giuridico che quello cronologico indicavano "che gli immobili acquistati dal M. e dalla moglie (sia quelli alienati che quelli in sequestro) furono e sono frutto delle attività illecite del M. dianzi esaminate". 2. – Ha proposto ricorso M.L., a mezzo del suo difensore, avvocato Antonio Abet, che anche attraverso apposita memoria di replica alle conclusioni del Procuratore Generale presso questa Corte, richiede l’annullamento della ordinanza impugnata denunziando, con riferimento all’art. 606 cod. proc. pen., lett. b), erronea applicazione ed interpretazione dei principi sanciti dalla legge penale ( L. n. 575 del 1965 e n. 142371956) in ordine alla confisca dei beni appartenenti alla criminalità mafiosa.

Sostiene il ricorrente che la motivazione della Corte d’appello sarebbe incongrua sia laddove ha ritenuto i beni assoggettati a confisca di provenienza delittuosa, nonostante la difesa del proposto avesse fornito documentazione relativa sia allo svolgimento da parte del M., sin dal 1977, di regolare attività lavorativa nel campo dell’edilizia sia alla pregressa vendita di alcuni beni, il cui corrispettivo appariva già di per sè sufficiente a giustificare l’acquisto del terreno e la successiva attività edificatoria; sia infine laddove non ha tenuto conto della evidente mancanza di "correlazione temporale" tra la pericolosità sociale qualificata, ex lege di prevenzione antimafia, e l’acquisizione dei beni confiscati, superando tale dato obiettivo, attraverso un’arbitraria "retrodatazione" dell’iter criminale del M. agli anni ’80 e riferendo la misura di prevenzione patrimoniale non più al reato associativo posto a base della sua applicazione, ma ad altre e diverse tipologie di reato, rinvenute nel certificato penale del proposto (all’esistenza cioè di "precedenti penali non mafiosi", come argomentato con efficace espressione dal ricorrente) e senza compiere "alcuna indagine in ordine allo stile di vita che in quel periodo avrebbe consentito una prognosi di illecita accumulazione".

In particolare, nel rilevare che gli unici elementi di valutazione certi – la costituzione del clan Martella nel 1997; l’impossibilità che i precedenti penali relativi agli anni ’80 possano integrare una pericolosità di tipo qualificato – non consentivano di assoggettare a confisca dei beni acquistati dal M. prima dell’accertata sua partecipazione all’associazione camorristica, da parte del ricorrente si contesta la legittimità della decisione impugnata con riferimento sia all’assunto secondo cui i cespiti sequestrati sarebbero comunque frutto di attività illecite, sia che tali attività sarebbero comunque ricollegabili "a generiche associazioni", risolvendosi le argomentazioni sviluppate sul punto in mere congetture, nel ricorso a massime d’esperienza prive di consolidata accettazione, in affermazioni assolutamente generiche e non riscontate da alcun elemento indiziario concreto, specie per quel che attiene la rilevanza attribuita alla condanna per contrabbando. Tali argomentazioni, si deduce ancora in ricorso, risultano incongruamente affermare, oltretutto, l’esistenza in tema di misure di prevenzione reali, di una sorta di inversione dell’onere della prova, approdo interpretativo ritenuto dal ricorrente non aderente al dettato normativo e conforme ai più recenti e condivisibili arresti giurisprudenziali che individuano a carico del proposto un semplice onere di allegazione, pienamente assolto dal M., che ha fornito ampi elementi di prova, anche documentale, della derivazione dei beni sequestrati da legittime disponibilità finanziarie formatesi ben prima della partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso.

Motivi della decisione

1. – L’impugnazione proposta nell’interesse di M.L. è basata su motivi infondati e va quindi rigettata.

Ritiene il Collegio, infatti, che il contenuto critico delle argomentazioni svolte dal ricorrente – incentrate principalmente su dati fattuali asseritamene pretermessi o comunque non adeguatamente valutati – non rientri nell’ambito del controllo consentito nel presente giudizio di legittimità, ove si consideri che, secondo il prevalente orientamento di questa Corte, nel procedimento di prevenzione il ricorso per cassazione è ammesso soltanto, secondo il disposto della L. 27 dicembre 1956, n. 1423, art. 4, comma 10, richiamato dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 3 ter, comma 2, per violazione di legge (tra le ultime vedi Sez. 6, Sentenza n. 35044 del 08/03/2007, ric. Bruno), sicchè non si estende al controllo dell’iter giustificativo della decisione, a meno che questo sia del tutto mancante, nel qual caso si configurerebbe comunque un vizio di violazione di legge (S.U., n. 25932 del 29.5.2008, Ivanov; S.U., 29 maggio 2008 n. 25933, Malgioglio; S.U., n. 5876 del 28.1.2004, Bevilacqua; S.U., n. 5 del 26/02/1991, Bruno). E tale limitazione è stata riconosciuta dalla Corte Costituzionale non illegittima costituzionalmente (sent. n. 321 del 2004).

1.1 – Ed invero il ricorso, pur denunciando formalmente una violazione di legge, in sostanza s’articola in censure sulla motivazione, volendo confutare gli argomenti posti a base del provvedimento impugnato in punto di sperequazione del valore dei beni confiscati e dei redditi dichiarati dal M., nella prospettiva, in particolare, di accreditare le tesi, già sostenute nei giudizi di merito, della legittima provenienza degli immobili confiscati o più esattamente dell’acquisto degli stessi a seguito della vendita di altri beni appartenenti al preposto ed alla moglie, ovvero attraverso la derivazione della disponibilità finanziaria per il loro acquisto, da regolare attività lavorativa in campo edilizio.

Nè può ritenersi fondato il rilievo che la Corte d’appello non abbia considerato gli argomenti dell’appellante, che anzi ad essi ha dato, come emerge dalla esposizione in fatto, puntuale risposta.

Per altro, la riproposizione degli argomenti difensivi volti a contrastare il provvedimento ablativo relativamente alla derivazione dei beni confiscati da attività illecite, si rivela definitivamente infondata ove si consideri, che a prescindere dalla ritenuta inidoneità della documentazione INPS prodotta dall’appellante, a comprovare l’effettivo svolgimento di un’attività imprenditoriale, è stata ritenuta dai giudici del merito del tutto sguarnita di dimostrazione e implausibile l’esistenza di proventi derivanti da tale attività idonei a giustificare un accumulo di ricchezza lecito, proporzionato al valore del patrimonio immobiliare nella disponibilità del nucleo familiare del ricorrente.

1.2. – Considerazioni non dissimili valgono anche con riferimento all’ulteriore censura sviluppata in ricorso, relativa all’asserita mancanza di "correlazione temporale" tra pericolosità qualificata ed acquisizione dei beni confiscati, ove si consideri, per un verso, che il percorso motivazionale sviluppato dai giudici di merito per affermare che le attività criminose ed i collegamenti camorristici del M. devono in realtà farsi risalire agli inizi degli anni ’80, risulta fondarsi su valutazioni di dati obiettivi non confutati (quali le condanne del preposto per contrabbando) e su massime d’esperienza desunte dalla concreta realtà giudiziaria campana, le quali pervengono, in ogni caso, a conclusioni del tutto plausibili ed immuni da vizi logici o giuridici, anche allorquando affermano – in linea del resto, con condivisibili principi di diritto da tempo enunciati da questa Corte, in coerenza con i principi affermati dalle Sezioni unite con la sentenza 17/12/03, Montella, in materia di confisca D.L. n. 306 del 1992, ex art. 12 sexies, e con la sentenza 30 maggio 2001, ric. Derouach, che ha evidenziato l’affinità tra la confisca speciale prevista dal citato art. 12 sexies e la confisca quale misura di prevenzione – che deve ritenersi legittima la confisca, disposta ai sensi della L. 31 maggio 1965, n. 575, art. 2 ter (Disposizioni contro la mafia), di beni acquistati dal sottoposto alla misura di prevenzione della sorveglianza speciale di P.S. anche prima dell’inizio dell’appartenenza mafiosa, allorquando, come nel caso in esame, i beni stessi costituiscano presumibile frutto di attività illecite o ne costituiscano il reimpiego (cfr., tra le molte, Sez. 1^, 11/12/08, Cangiatosi e altro, rv. 242.515; Sez. 2^, 16/4/09, Di Salvo, rv. 244.150; Sez. 1^, 4/6/09, Sicolo e altri, rv.

245.363; Sez. 2^, 22/4/09, Buscema e altri, rv. 244.878; Sez. 1^, 29/5/09, Caruso e altro, rv. 244.827; Sez. 6^, 15/1/10, Quartararo, rv. 246.084).

3. – Il rigetto del ricorso comporta le conseguenze di cui all’art. 616 cod. proc. pen., in ordine alla spese del presente procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento, delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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