Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 19-05-2011) 22-09-2011, n. 34413Associazione per delinquere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. – \Al Shareef Mohammad\, \Boughhanmi Kais Ben Mohamed\, \Matarese Stefania\, \Rezgui Naceur\, \Didri Ramzi\, \\Mejri Zouhaier\, \\Ben Sassi Faouzi Ben Tljani\ e \\Bartolozzi Barbara Rita\, hanno impugnato per cassazione, con autonomi ricorsi, la sentenza della Corte di Assise di Appello di Milano deliberata il 20 aprile 2010, che definendo in grado di appello il procedimento promosso nei loro confronti e di altri imputati non ricorrenti – relativo a plurime violazioni del testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti – aveva confermato quella di condanna emessa dal GIP presso il Tribunale di Milano, il 7 maggio 2009. 1.1. – "L’impianto probatorio" posto a base della pronuncia di condanna – fatti salvi gli approfondimenti indispensabili per una completa illustrazione del contenuto dei singoli ricorsi – è costituito – come si legge a pagina 17 della sentenza d’appello – "dagli esiti delle intercettazioni telefoniche ed ambientali, riscontrati dai servizi di polizia giudiziaria sul territorio, dai sequestri di droga eseguiti, dagli arresti in flagranza operati, dal coerente esito della indagine pisana e dalle dichiarazioni, auto ed etero accusatorie, rese dai numerosi imputati". 2. – L’impugnazione proposta da \Al Shareef Mohammad\:

2.1. – \Al Shareef Mohammad\, detto (omissis), con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello, relativamente a tale statuizione – è stato dichiarato colpevole:

a) del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, – capo 1) della rubrica – contestatogli per essersi associato ad alcuni dei coimputati, ivi meglio specificati, nonchè ad altre persone allo stato sconosciute, "allo scopo di commettere più delitti tra quelli di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, cioè detenere, vendere, offrire, cedere, distribuire, trasportare, inviare e procurare ad altri sostanze stupefacenti di cui alla Tabella 1^ del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 (eroina, cocaina e hashish), con l’aggravante di cui al comma 3, trattandosi di associazione composta da più di dieci persone"; a lui imputandosi, in particolare: di essere partecipe dell’associazione con il compito di coadiuvare \JELASSI Adel\, ai vertici dell’organizzazione criminale; di aver eseguito trasporti e consegne di stupefacenti a (omissis); di essersi adoperato per ottenere il pagamento delle forniture di stupefacenti, sostituendo il \JELASSI\ durante i periodi in cui quest’ultimo venne trattenuto, per due volte successive, tra il 1 settembre 2007 ed i primi mesi del 2008, presso il Centro di permanenza temporanea di (omissis), in attesa di essere espulso; fatto contestato come commesso a partire almeno dall’inizio del (omissis); b) di tre "reati scopo" dell’associazione, previsti e puniti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, contestati ai capi 15), 28) e 29), commessi in (omissis), rispettivamente il (omissis); e condannato, previa unificazione dei reati nel vincolo della continuazione, alla complessiva pena di anni 7 e mesi 8 di reclusione (pena base, per il reato associativo, anni 11 di reclusione).

2.2. – Nel ricorso proposto personalmente da \Al Shareef Mohammad\ vengono prospettati sei motivi d’impugnazione.

2.2.1. – Con il quarto motivo – il cui esame risulta preliminare, sul piano logico, rispetto ai primi tre che riguardano il trattamento sanzionatorio – si denunzia, con riferimento all’affermazione di responsabilità per il reato associativo, l’illegittimità della sentenza impugnata, "per mancanza e manifesta illogicità della motivazione" nonchè per "errata applicazione ed interpretazione della legge penale".

Sul punto nel ricorso si sostiene che i giudici di appello non hanno fornito adeguata spiegazione in merito alle ragioni per cui \Al Shareef Mohamed\ doveva ritenersi stabilmente partecipe all’attività delittuosa del sodalizio, evidenziandosi in particolare, relativamente all’assunto secondo cui l’imputato si sarebbe adoperato per "riattivare" l’associazione successivamente all’arresto del \Jelassi\, che la difesa, nella propria memoria difensiva in data 16 aprile 2010, aveva chiarito l’effettivo significato da attribuirsi alle conversazioni intercettate poste a fondamento di una siffatta ricostruzione, desumendosi dalle stesse che in realtà "l’attività svolta dall’imputato era rivolta a procurare solo una minima somma di denaro, necessaria per pagare un proprio debito", laddove la motivazione sul punto risulta, di contro, "piuttosto lacunosa ed assolutamente apodittica", sicchè, non sussistendo alcun dolo associativo, la responsabilità del ricorrente andava senz’altro esclusa.

2.2.1.1. – Il motivo, così come formulato, è inammissibile. Le doglianze, invero generiche, prospettate dal ricorrente, infatti, riproducono pedissequamente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali la Corte territoriale ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente non considera nè specificatamente censura. Ed invero i giudici del merito, con sintoniche argomentazioni, hanno evidenziato, in particolare – anche attraverso la trascrizione nella sentenza di brani significativi delle conversazioni intercettate – come il ricorrente, nel periodo compreso tra l’arresto di \\Moeddab Najat\, "compagna e socia di \Adel\", ed il trattenimento di quest’ultimo in un centro di identificazione, aveva fornito un apprezzabile apporto al soldalizio criminale, avendo, tra l’altro, (a) provveduto a dare ospitalità al suo leader indiscusso; (b) messo a disposizione il proprio telefono cellulare per consentire allo stesso di mantenere i contatti con la sua vasta clientela; (c) effettuato alcuni viaggi a (omissis), originaria piazza di spaccio per il gruppo; (d) assunto, da ultimo, dopo il primo arresto temporaneo dello \Jelassi\ e soprattutto nel (omissis), la guida del sodalizio, riscuotendo i crediti di pregresse forniture di stupefacente, rimaste insolute.

Orbene, non è compito del giudice di legittimità compiere una rivalutazione di tale compendio probatorio, sulla base delle prospettazioni dei ricorrenti, avendo questa Corte chiarito già da tempo che esula dai suoi poteri una "rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Sez. Un. n. 41476 del 25/10/2005, Misiano;

Sez.Un. n. 6402 del 2.7.1997, Dessimone, rv. 207944; Sez. Un. n. 930 del 29.1.1996, Clarke, rv. 203428).

Non può quindi ravvisarsi nella sentenza impugnata nè una errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

2.2.2 – Con il quinto motivo d’impugnazione, nel ricorso, con riferimento all’affermazione di responsabilità di \Al Shareef Mohammad\ per il reato fine di cui al capo 28) della rubrica – episodio delittuoso definito nella sentenza impugnata (pag. 473 e segg.) come "l’attività di detenzione e smaltimento delle scorte" – si denunzia la "nullità (della sentenza impugnata) per mancanza delle enunciazioni delle ragioni per le quali il giudice ha ritenuto non attendibili le "prove contrarie" (le dichiarazioni rese dall’imputato in sede d’interrogatorio); per "violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2"; per "mancata e manifesta illogicità della motivazione nell’attribuzione della responsabilità".

In particolare il ricorrente, muovendo dall’implicito presupposto che il principale elemento di prova a suo carico relativamente all’imputazione di cui trattasi è rappresentato dal contenuto dell’intercettazione ambientale eseguita il 3 settembre 2007 alle ore 20,58 e relativa ad un colloquio intercorso tra il ricorrente ed i coimputati \Jelassi Adel\ e \Dallal Fadhel\ a bordo di un’autovettura (nel corso del quale esso imputato aveva fatto riferimento "ad una bianca così buona che è la fine del mondo", con ciò alludendo, secondo le prospettazioni accusatorie, ad un quantitativo di sostanza stupefacente che il coimputato \Fadhel\, dal canto suo, aveva assicurato di aver nascosto molto bene), lamenta che i giudici di appello, al pari del giudice di prime cure, non hanno fornito alcuna convincente spiegazione sulle ragioni per cui quanto dichiarato dall’\Al Shareef\ in sede d’interrogatorio sull’effettivo significato da attribuirsi al colloquio intercettato (un espediente concepito per convincere tale \maher\ a pagare un debito avuto con il \Jelassi\), doveva ritenersi inattendibile, così contravvenendo al precetto dell’art. 546 c.p.p., comma 1, lett. c) che impone al giudice di enunciare in motivazione le ragioni della ritenuta inattendibilità delle prove contrarie.

L’affermazione di penale responsabilità per il delitto di cui al capo 28) della rubrica sarebbe altresì illegittima per violazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, in quanto alle intercettazioni poteva attribuirsi valore meramente indiziante, non potendo le frasi captate riferibili agli imputati essere equiparate a confessioni giudiziali e non risultando acquisiti in giudizio "riscontri fattuali concreti" sulla effettiva disponibilità della droga che si assume abbia formato oggetto del colloquio, e ciò anche in considerazione di quanto dichiarato al riguardo dal ricorrente.

2.2.2.1. – Anche tale motivo d’impugnazione – che così come prospettato in ricorso, oltre ad attribuire incongruamente alle dichiarazioni rese dall’imputato in sede interrogatorio assoluta efficacia probatoria in suo favore, si risolve in una generica negazione dell’attendibilità e rilevanza dei dati probatori valorizzati dalla Corte territoriale per l’affermazione di penale responsabilità di \Al Shareef Mohammad\ – deve ritenersi manifestamente infondato. Al riguardo occorre considerare che i giudici di appello hanno ricollegato la condanna dell’imputato al contenuto di intercettazioni ambientali, di cui hanno riportato nella sentenza impugnata ampi stralci e dal cui esplicito tenore era possibile desumere, con certezza, anche in considerazione della genericità della contestazione sollevata sul punto dal coimputato \Jelassi\ e la mancata impugnazione da parte del \Dallal\ della condanna per tale episodio, la disponibilità in capo ai tre imputati colloquianti di un quantitativo di sostanza stupefacente, "occultato in un luogo di "imbosco" a loro noto", espressamente precisando, altresì, come la "versione alternativa proposta da \Al Shareef\" era "del tutto incoerente rispetto ai dati fattuali" e come la stessa non riguardava e non poteva riguardare "la droga occultata nel luogo di imbosco".

Anche con riferimento a tale imputazione, quindi, non può ravvisarsi nella sentenza impugnata ne1 una errata applicazione dell’art. 192 c.p.p., comma 2, nè una mancanza di motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e), dovendo in particolare qui ribadirsi, con riferimento all’asserita necessità di riscontri esterni al contenuto delle intercettazioni ambientali, il principio, ripetutamente affermato da questa Corte, secondo cui, in tema di valutazione della prova, con riferimento ai risultati delle intercettazioni di comunicazioni, il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri di chiarezza, decifrabilità dei significati, assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione del significato delle conversazioni non lasci margini di dubbio sul significato complessivo della conversazione. In questo caso, ben può il giudice di merito fondare la sua decisione sul contenuto di tali conversazioni, nel senso che solo l’incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità dell’intercettazione, per la cripticità del linguaggio usato dagli interlocutori, per la non sicura decifrabilità del contenuto – eventualità espressamente escluse dai giudici del merito con motivazione più che plausibile – rende il risultato della prova meno certo, con la conseguente necessità di elementi di conferma che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti (in termini, ex multis, Sez. 4, Sentenza n. 21726 del 25/02/2004, dep. il 7/05/2004, Rv. 228573, imp. Spadaro).

2.2.3. – Con il sesto motivo d’impugnazione – l’ultimo seguendo l’ordine espositivo adottato dal ricorrente – si denunzia, relativamente all’affermazione di responsabilità di \Al Shareef Mohammad\ per il "reato fine" di cui al capo 29) della rubrica – episodio delittuoso definito nella sentenza impugnata (pag. 466 e segg.) come "la prosecuzione dell’attività del sodalizio" – l’illegittimità della sentenza impugnata per mancanza e manifesta illogicità della motivazione.

In ricorso si sostiene che i giudici di merito hanno fondato l’affermazione di responsabilità in relazione a tale imputazione, estrapolando alcune frasi da un contesto comunicativo più ampio, non considerando adeguatamente la riconosciuta estraneità del ricorrente al "gruppo di \Adel\" e l’occasionalità dei contatti avuti dallo stesso con gli altri membri del sodalizio, motivati esclusivamente da esigenze contingenti (necessità di pagare un debito), e che pertanto, in tale contesto, anche il ritrovamento di sostanza stupefacente in occasione dell’arresto del ricorrente e del \Jelassi\, non poteva essere interpretato come un dato evidente di una diretta responsabilità dell’imputato, come semplicisticamente ritenuto dalla Corte territoriale, in assenza di prove certe di un’effettiva consapevolezza della presenza della sostanza stupefacente.

2.2.3.1. – Anche tale motivo d’impugnazione è manifestamente infondato, risolvendosi esso in una generica negazione dell’attendibilità e rilevanza degli elementi di prova valorizzati dalla Corte territoriale per l’affermazione di penale responsabilità di \Al Shareef Mohammad\ (ritrovamento in occasione dell’arresto del ricorrente e del \Jelassi\ operato nell’appartamento di (omissis), di 263 grammi di eroina, 3,8 grammi di cocaina, di un panetto di mannitolo e di un bilancino digitale), sollecitando una "rivalutazione" delle risultanze processuali analizzate dai giudici di merito, non consentita nel giudizio di legittimità. 2.2.4. – Con il primo motivo d’impugnazione dedotto in ricorso, si denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata per errata applicazione della legge penale e per vizio di motivazione, relativamente alla determinazione della pena base sulla quale sono stati applicati gli aumenti per la continuazione.

Il ricorrente, muovendo dall’assunto che il primo giudice, nel determinare in anni 11 di reclusione la pena base per la violazione più grave (l’associazione per delinquere), ha ritenuto non applicabile l’aggravante contestata – relativa al numero di persone partecipi, superiore a 10 – ciò desumendosi dalla lettura delle motivazioni sviluppate al riguardo (pag. 311) e segnatamente dalla mancanza di un’espressa indicazione dell’aumento di pena riferibile specificamente all’aggravante, ove ritenuta effettivamente applicabile, fa discendere da tale premessa, l’illegittimità della decisione d’appello, in quanto la Corte territoriale, avendo rigettato la specifica richiesta di riduzione al minimo edittale della pena base per il reato associativo, a ragione di una partecipazione "tutt’altro che minimale" dell’imputato al sodalizio criminoso ed alla sussistenza di una "ipotesi aggravata", ha di fatto violato il divieto di reformatio in pejus applicando "ex officio una circostanza (dal primo giudice) non ritenuta in sentenza nei confronti dell’imputato". 2.2.4.1. – Il motivo è infondato. Esso muove, infatti, dal presupposto, indimostrato, che il giudice di primo grado avrebbe escluso la sussistenza della contestata aggravante del numero dei partecipi dell’associazione, laddove una statuizione in tal senso, però, non si rinviene affatto nella sentenza impugnata. Nè l’esistenza di una statuizione implicita in tal senso, può fondatamente farsi discendere dal solo rilievo, di per sè equivoco, che il giudice di primo grado, ravvisato il vincolo della continuazione tra le plurime imputazioni contestate al ricorrente ed individuata la violazione più grave (il reato associativo), abbia poi determinato complessivamente la pena base senza indicare la frazione di detta pena, effetto del riconoscimento dell’aggravante.

Se è vero, infatti, che qualora due o più reati debbano unificarsi con il vincolo della continuazione, il giudice è tenuto ad esaminare se e quali circostanze (aggravanti o attenuanti) ricorrano in relazione ad ogni singolo reato (in termini, si veda Sez. 6, Sentenza n. 8169 del 12/05/1992, dep. il 22/07/1992, Rv. 191413, imp. Michetti), è però incongruo desumere, nel caso in cui la violazione più grave è costituita da un "reato circostanziato", che dalla determinazione unitaria e complessiva della pena base, possa farsi discendere l’esclusione, non altrimenti motivata, dell’aggravante, specie se tale decisione risulta assunta nell’ambito di un procedimento conclusosi con la condanna di ben quindici imputati per il reato associativo. Al riguardo non è superfluo rammentare, del resto, che anche l’orientamento giurisprudenziale più rigoroso (Sez. U, Sentenza n. 7930 del 21/04/1995, dep. il 17/07/1995, Rv. 201549, imp. Zouine), che ritiene nulla la sentenza con cui il giudice di merito, nel pronunciare condanna per più reati, determini la pena complessiva senza alcuna indicazione della pena stabilita per ciascun reato, di quello ritenuto più grave e dell’aumento per la continuazione – obblighi di motivazione che risultano assolti regolarmente nel presente giudizio – non risulta abbia mai ravvisato nullità nella ipotesi in cui il giudice, nel determinare la pena base per la violazione più grave per un reato contestato come circostanziato, non abbia indicato la frazione di pena conseguente all’applicazione dell’aggravante, specie tenuto conto che in tema di determinazione della pena per il reato continuato, l’unico criterio imposto è quello quantitativo stabilito dall’art. 81 c.p., comma 2. 2.2.5. – Con il secondo motivo d’impugnazione, da parte del ricorrente si denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata per vizio di motivazione e per errata applicazione della legge penale, relativamente alla determinazione degli aumenti di pena per i singoli reati fine.

Più specificamente da parte del ricorrente si censura: a) la mancata indicazione dei criteri utilizzati per determinare l’entità dei singoli aumenti di pena; b) la scelta, immotivata oltre che illogica, di effettuare degli aumenti uguali (due mesi di reclusione) per ciascuno dei reati in continuazione, senza considerare, ad esempio, quanto al reato contestato al capo 15, che l’imputato, in sede d’interrogatorio, aveva riconosciuto sostanzialmente la propria responsabilità; c) l’illogicità – per "difetto di coerenza interna ed esterna" – della decisione di adottare, per tutti gli imputati e per tutti i reati fine, aumenti di pena per la continuazione, della medesima entità, nonostante "la grande varietà dei reati fine commessi dai compartecipi e la diversa pericolosità e responsabilità di ciascuno, in seno all’associazione". 2.2.5.1. – Il motivo è infondato. Ed invero, premesso che l’aumento della pena irrogata per il reato principale, da operare ai sensi dell’art. 81 c.p. per il reato meno grave unito al primo dal vincolo della continuazione, non si sottrae ai criteri generali in materia di determinazione della pena dettati dall’art. 133 c.p. (in tal senso Sez. 6, Sentenza n. 10358 del 16/06/1992, dep. il 29/10/1992 Rv.

192100, imp. Salvi), nessun effettivo profilo di illegittimità è fondatamente ravvisabile nella sentenza impugnata con riferimento alla motivazione addotta dai giudici di appello, relativamente al trattamento sanzionatorio. Al riguardo va anzitutto precisato, come già il primo giudice, nel motivare in tema di "trattamento sanzionatorio", aveva correttamente evidenziato, in via preliminare, come le posizioni degli imputati dovevano "essere trattate distintamente in ragione delle diverse responsabilità di ciascuno", di fatto poi rispettando tale principio ed assumendo, per ognuno degli imputati, statuizioni diversificate, sia in punto di riconoscimento delle attenuanti generiche sia in punto di determinazione della pena base, espressamente evocando, in caso di riconoscimento della continuazione, "le considerazioni sviluppate" con riferimento ad ogni singolo fatto delittuoso, nonchè "tutti gli elementi di valutazione elencati all’art. 133 c.p.".

Orbene, le determinazioni del primo giudice in tema di trattamento sanzionatorio relativamente all’imputato \Al Shareef\, sono state confermate dai giudici di appello, che hanno precisato, a confutazione delle censure prospettate dall’appellante sul punto, che "la pena inflitta, anche con riferimento agli aumenti per la continuazione", doveva ritenersi "congrua e coerente ai parametri indicati dagli artt. 133 e 133 bis c.p." e non suscettibile di attenuazione, valorizzando, sia pure con riferimento specifico al diniego delle attenuanti generiche – per altro oggetto di autonoma censura, in ricorso, che verrà esaminata in prosieguo – il comportamento processuale "ondivago" ed il grave e specifico precedente penale, nonchè i contenuti del "profilo personale" redatto dagli investigatori. In tale apparato motivazionale, completo ed esauriente, non è dato cogliere alcun profilo di illegittimità, anche in considerazione del principio, da tempo enunciato da questa Corte e che il Collegio ritiene di condividere, secondo cui "in tema di determinazione della pena nel reato continuato, deve ritenersi congruamente motivata la sentenza nel caso in cui il giudice abbia fatto riferimento alla personalità dell’imputato, al ruolo avuto nella vicenda, alla gravità dei fatti, considerandoli elementi che impediscono un giudizio di prevalenza delle riconosciute attenuanti sulle aggravanti contestate" e ciò in quanto "non sussiste obbligo di autonoma e specifica motivazione in ordine alla quantificazione dell’aumento per la continuazione, posto che i parametri al riguardo sono identici a quelli valevoli per la pena base" (in termini, Sez. 5, Sentenza n. 11945 del 22/09/1999, dep. il 19/10/1999, Rv. 214857, imp. de Rosa). Nè, per altro, una volta accertata la corretta determinazione in maniera "individualizzante" della "pena base" inflitta a ciascun imputato, può costituire motivo di nullità il rilievo che l’aumento di detta pena base per ciascuno dei reati satellite ritenuti in continuazione sia stato calcolato in maniera omogenea (due mesi di reclusione, per ciascuno di essi), senza operare alcun distinguo tra le diverse violazioni contestate, posto che "l’unità del disegno criminoso, che unifica col vincolo della continuazione i vari reati, disancora nel contempo quelli satelliti dalle rispettive specifiche pene edittali e li aggancia al criterio dell’aumento fino al triplo della pena prevista per violazione più grave, in tal senso costituendo nuovo principio di legalità per essi" (in termini, Sez. 1, Sentenza n. 2957 del 23/06/1992, dep. il 7/08/1992, Rv. 191633, imp. Forino).

2.2.6. – Con il terzo motivo, si denunzia, infine, l’illegittimità della sentenza impugnata per mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonchè per errata applicazione ed interpretazione della legge penale, relativamente al diniego delle attenuanti generiche.

Illustrati in ricorso gli argomenti forniti dai giudici di appello per motivare la mancata concessione delle attenuanti: a) condizioni economiche dell’imputato niente affatto precarie, sia allorquando l’attività delittuosa "ferveva", e cioè prima del settembre 2007, sia successivamente, quando l’attività era ripresa (ultimi mesi del 2007), come desumibile anche dal sequestro della somma di _16100,00 operato in occasione del suo arresto; b) comportamento processuale "ondivago", quale desumibile dalle conclusioni formulate nell’atto di appello, dirette a contestare anche "responsabilità che risultavano pacifiche"; c) dichiarazioni dell’imputato che, seppur utili per la ricostruzione degli accadimenti, non potevano considerarsi "espressive di reale resipiscenza", in quanto ispirate alla minimizzazione del proprio ruolo; d) esistenza di un "grave e specifico" precedente penale, ed il negativo contenuto del "profilo" dell’imputato, "redatto dagli operanti"; da parte del ricorrente si ritiene il ragionamento espresso sul punto dalla Corte territoriale "inaccettabile", in quanto basato su "parametri inammissibili" e su "evidenti travisamenti dei fatti".

Il ricorrente, infatti, dopo aver evidenziato: a) che i giudici di appello hanno definito la pena inflitta dal primo giudice "congrua e coerente con i criteri indicati negli artt. 133 e 133 bis c.p." ed insuscettibile di attenuazione, anche a ragione di una "partecipazione… tutt’altro che minimale"; b) che dei motivi addotti per negare le generiche, quelli sub b), c) e d) senz’altro "rientrano tra i parametri di cui all’art. 133 c.p., comma 2", che attengono alla capacità a delinquere, sostiene che, ove si ritenga, pur nella complessiva inadeguatezza della motivazione sviluppata sul punto, che i suddetti parametri relativi alla capacità a delinquere sono stati presi in considerazione dai giudici di appello anche ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio, in tal caso risulterebbe palese la illegittimità della decisione impugnata di negare le generiche, per aver il giudice del merito ulteriormente utilizzato uno stesso elemento a sfavore dell’imputato. Ove ciò non si ritenga, invece, sta di fatto, in ogni caso, che gli elementi valorizzati dai giudici di appello, ad un’attenta verifica, non risultano "congrui e legittimamente fruibili" rispetto alla valutazione demandata. In particolare in ricorso si evidenzia:

– quanto all’argomento sub a), che del tutto incongruamente i giudici di appello hanno valutato negativamente il comportamento processuale dell’imputato, in considerazione delle conclusioni formulate nell’atto di appello, ove si consideri, che, sui capi 28) e 29), non vi era stata, intanto, alcuna confessione dell’imputato; che l’impugnazione della sentenza di primo grado, in quanto espressione di facoltà processuali, in nessun caso, specie dopo la riforma dell’art. 111 Cost., può legittimamente considerarsi un comportamento processuale negativo;

– quanto all’elemento sub c), che è inaccettabile addebitare all’imputato la mancanza di una piena confessione;

– quanto all’elemento sub d), che lo stesso deve ritenersi del tutto generico, non avendo i giudici di appello chiaramente esplicato le ragioni per cui la personalità del reo, quale desumibile dai suoi precedenti penali, assume incidenza negativa ai fini della concessione delle attenuanti generiche, specie allorquando, non risultando contestata la recidiva, non sussiste alcun "nesso" tra "precedente accertata responsabilità e l’attuale imputazione";

insufficienza motivazionale che, il ricorrente, reputa ancor più "fondamentale", alla luce della riforma dell’art. 62 bis c.p., in base alla quale la mancanza di precedenti penali non determina l’automatica concessione delle attenuanti generiche. Con riferimento, infine, all’elemento sub a), in ricorso si sottolinea la "capziosità" delle argomentazioni svolte in sentenza, relativamente al "significativo profitto" che si assume tratto dal ricorrente dalla sua partecipazione all’attività delittuosa. Se infatti l’imputato versava in gravi ristrettezze economiche prima di commettere i delitti a lui contestati, come riconosciuto, del resto, dalla stessa Corte territoriale, e se la partecipazione dello stesso al sodalizio è successiva all’agosto del 2007, deve allora ritenersi che l’unico episodio dal quale il ricorrente può aver ricavato un guadagno illecito è il reato di cui al capo 28 (cessione di sostanza stupefacente commessa in epoca antecedente e prossima all'(omissis)), ma, in tal caso, la tesi di un suo rapido arricchimento mal si concilia con la circostanza che in occasione del suo trattenimento nel centro di identificazione di (omissis), il ricorrente non aveva alcuna disponibilità economica per sostenere economicamente la propria compagna e per pagarsi un avvocato;

circostanza che pure si ricava dalla motivazione della sentenza impugnata. Anche l’attività ritenuta dai giudici prodromica ad una riattivazione dei traffici illeciti, come evidenziato in apposita memoria difensiva, era in realtà finalizzata a recuperare poche centinaia di Euro, per la restituzione di un prestito, laddove il rinvenimento di Euro 16.100,00 in occasione dell’arresto dell’imputato, non implica necessariamente che la somma fosse nella sua effettiva titolarità nè che la stessa era da ricondurre ad una sua attività illecita. Tutti gli sforzi difensivi svolti dall’imputato nel processo, sono stati diretti ad evidenziare le condizioni di vita precarie in cui versava e la partecipazione del tutto marginale allo svolgimento di attività delittuosa, così come riconosciuto dal PM che in primo grado aveva sollecitato la concessione, con giudizio di prevalenza, delle attenuanti generiche, che la Corte territoriale ha invece negato in forza di preconcetti e pregiudizi.

2.2.6.1 – Anche tale motivo d’impugnazione, in tutte le sue poliformi articolazioni, è infondato. Al riguardo va anzitutto ribadito il principio – più volte enunciato da questa Corte e che non vi è motivo di disattendere nel presente giudizio – secondo cui, in tema di concessione delle attenuanti generiche, il giudice può valutare la gravità del fatto e la personalità dell’imputato, già presi in considerazione ai fini della determinazione della pena ai sensi dell’art. 133 c.p., in quanto legittimamente lo stesso elemento può essere rivalutato in vista di una diversa finalità (in termini, Sez. 4, Sentenza n. 35930 del 27/06/2002, dep. il 25/10/2002, Rv. 222351, imp. Martino). Ed invero la regola per cui non può tenersi conto due volte dello stesso elemento a favore o contro il colpevole, invocata dal ricorrente, come questa Corte ha già avuto modo di precisare, "non si applica quando tale elemento non è l’unico rilevabile dagli atti, non è ritenuto assorbente rispetto agli altri ed influisce su diversi aspetti della valutazione, ben potendo un dato polivalente essere utilizzato più volte sotto differenti profili per distinti fini e conseguenze, come il riconoscimento di una circostanza, il giudizio di bilanciamento con altre di segno opposto e la determinazione della pena, senza violare il principio del "ne bis in idem" sostanziale" (così, ex multis, Sez. 1, Sentenza n. 1376 del 28/10/1997, dep. il 5/02/1998, Rv. 209841, imp. Brembilla). Nè, per altro, il ricorrente ha un effettivo interesse a dolersi del riferimento compiuto dai giudici di appello al dato del grave e specifico precedente penale esistente a carico di \Al Shareef Mohammad\ – che costituisce ragione sufficiente a giustificare, di per sè solo, il diniego delle attenuanti generiche, in quanto indice di capacità a delinquere e di effettiva pericolosità sociale – sol perchè allo stesso non risulta contestata la recidiva, trattandosi di una scelta del Pubblico Ministero, in alcun modo pregiudizievole per l’imputato. Quanto poi agli ulteriori elementi, che pure hanno formato oggetto di valutazione da parte dei giudici di merito (mancanza di resipiscenza, condizioni economiche asseritamente disagiate), occorre considerare, in primo luogo, la rilevanza assolutamente marginale che tali dati hanno esplicato sulla decisione impugnata, risultando le attenuanti generiche negate, in primo luogo, a ragione della gravità dei fatti contestati, del ruolo non marginale svolto dall’imputato nel contesto associativo e dell’adeguatezza della pena inflitta in primo grado, di poco superiore al minimo edittale. Va comunque precisato, quanto alla mancanza di resipiscenza, che la stessa, ancorchè rilevata dal comportamento processuale, è stata comunque addotta a giustificazione del mancato riconoscimento delle generiche, in quanto confermativa di una personalità negativa ("ondivaga"), e non in quanto espressione di scelte difensive di per sè non sindacabili in quanto espressione del diritto di difesa; e quanto alle precarie condizioni economiche, che le stesse, ancorchè in tesi positivamente accertate, non possono comunque costituire un valido argomento per giustificare la riduzione di una pena del tutto adeguata alla particolare gravità dei fatti contestati ed al considerevole allarme sociale agli stessi ricollegabile.

2.7. – Dalle considerazioni sin qui svolte, discende, in conclusione, che il ricorso proposto nell’interesse di \Al Shareef Mohammad\ è infondato in ogni sua parte e va quindi rigettato, con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p., in ordine alla spese del presente procedimento.

3. – L’impugnazione proposta da \Boughanmi Kais Ben Mohamed\. 3.1. – \Boughanmi Kais Ben Mohamed\, detto (omissis), con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello, relativamente a tale statuizione – è stato dichiarato colpevole:

a) del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, a lui contestato al capo 1) della rubrica, per essersi associato ad alcuni dei coimputati, ivi meglio specificati – nonchè ad altre persone allo stato sconosciute – "allo scopo di commettere più delitti tra quelli di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, cioè detenere, vendere, offrire, cedere, distribuire, trasportare, inviare e procurare ad altri sostanze stupefacenti di cui alla Tabella 1^ del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 (eroina, cocaina e hashish), con l’aggravante di cui al comma 3, trattandosi di associazione composta da più di dieci persone"; a lui imputandosi, in particolare: di essere partecipe dell’associazione quale stabile fornitore (insieme al non identificato \\Faes\ l’egiziano) allo \JELASSI\ ed ai suoi diretti collaboratori, dello stupefacente (eroina, cocaina ed hashish) che gestiva in appositi nascondigli e che allo \JELASSI\ consegnava (in (omissis) ed altri luoghi di (omissis)), ai fini dell’ulteriore approvvigionamento delle reti operanti in (omissis), con cadenza intensa, anche bisettimanale; associazione contestata come tuttora operante, a partire almeno dall’inizio del 2007;

b) di dodici "reati scopo" dell’associazione, previsti e puniti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1 e 6, – contestati ai capi 2), 3), 4), 8), 10), 12), 14), 17), 19), 20), 21) e 23) – commessi rispettivamente in (omissis);

e condannato, previa unificazione dei reati nel vincolo della continuazione, alla complessiva pena di anni 12 e mesi 9 di reclusione (pena base, per il reato associativo, anni 10 e mesi 9 di reclusione).

3.2. – Nel ricorso proposto dal difensore di \Boughanmi Kais Ben Mohamed\ sono enunciati due motivi d’impugnazione.

3.2.1 – Con il primo, il ricorrente denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata, per erronea applicazione della legge penale in relazione all’art. 62 bis c.p.p.. Muovendo dall’assunto che il primo giudice aveva già riconosciuto all’imputato le attenuanti generiche – salvo dichiararle, però, equivalenti alla contestata aggravante – il ricorrente censura, in primo luogo, il travisamento del contenuto dei motivi di appello che si assume compiuto dalla Corte territoriale, in quanto con l’atto di gravame era stata sollecitata non già la concessione delle attenuanti generiche, quanto, piuttosto, una valutazione delle stesse in termini di prevalenza e non già di mera equivalenza, sicchè la motivazione addotta dai giudici di appello, secondo cui alla concessione delle attenuanti generiche ostavano il comportamento processuale; il negativo contenuto del "profilo" dell’imputato, "redatto dagli operanti", nonchè le "risultanze" del certificato penale del condannato, deve ritenersi assolutamente incongrua e in ogni caso del tutto inadeguata, avuto riguardo ai principi ripetutamente enunciati da questa Corte, secondo cui, in tema di motivazione delle statuizioni relative alle attenuanti generiche, deve ritenersi insufficiente il generico richiamo alla personalità dell’imputato.

3.2.1.1. – Il motivo è manifestamente infondato.

In primo luogo va evidenziato che i giudici di appello – a pagina 293 della sentenza impugnata – hanno correttamente affermato che nel giudizio di primo grado, contrariamente a quanto dedotto dall’appellante, all’imputato \Boughanmi Kais Ben Mohamed\ non risultavano affatto riconosciute le circostanze attenuanti. Orbene, premesso che il ricorrente ha riproposto anche in sede di legittimità il proprio assunto secondo cui all’imputato erano state invece riconosciute le attenuanti generiche, sia pure con giudizio di equivalenza, va ribadito che la sentenza di primo grado non ha affatto disposto in tal senso. Per altro il motivo di ricorso si rivela comunque infondato anche nel merito, in quanto la Corte di appello ha fornito più che adeguata e logica motivazione sulle ragioni ritenute ostative al riconoscimento – e dunque a maggior ragione alla prevalenza – delle attenuanti generiche, individuate:

(a) nella partecipazione dell’imputato tutt’altro che minimale, alla societas sceleris, alla quale era "organico" atteso il ruolo di fornitore dell’\Adel\, svolto unitamente al proprio "socio", Fares l’egiziano; (b) l’insufficienza degli argomenti addotti a sostegno della richiesta, tenuto conto che l’età dell’imputato all’epoca dei fatti – 28 anni – era già sufficiente per definirlo una persona adulta; che la sua condizione socio-familiare non presentava effettivi profili di emarginazione, risultando il predetto aver contratto matrimonio con un’italiana ed essere padre di due figli minorenni; (c) nell’esistenza di precedenti penali, ritenuti indicativi di una scelta della "strada del crimine". 3.2.2. – Con il secondo motivo d’impugnazione, il ricorrente, denuncia come illegittima per mancanza e contraddittorietà della motivazione, in relazione all’art. 81 c.p., la decisione della Corte territoriale (pag. 489) di rigettare la richiesta, avanzata nel giudizio di appello, di applicazione della disciplina della continuazione tra i fatti oggetto del presente giudizio e quelli già giudicati dalla Corte di Appello di Brescia con sentenza emessa in data 18 ottobre 2007 e divenuta irrevocabile il 30 settembre 2008.

Ad avviso del ricorrente, infatti, lo scarno apparato argomentativo fornito dai giudici di appello – nel quale si evidenzia, per un verso, che "i fatti giudicati con la sentenza di Brescia sono stati commessi in (omissis) in un contesto spazio/temporale totalmente autonomo"; e dall’altro, che l’imputato risultava essersi risolto a porre in essere, nel marzo 2007, le condotte qui giudicate, dopo la scarcerazione del fornitore di sostanze stupefacenti convenzionalmente indicato come "\\Fares\ l'(omissis)" -deve ritenersi del tutto incongruo per "escludere qualunque identità del disegno criminoso".

Al riguardo, si evidenzia, infatti: a) che la stessa formulazione del capo d’imputazione non esclude affatto nè che il sodalizio criminale del quale sarebbero partecipi gli imputati del presente procedimento possa essere stata costituito sin dal 2004, nè che "i suoi confini si potessero estendere da (omissis) e provincia"; b) che nel caso in esame sussistevano tutti gli elementi costitutivi del reato continuato, quali desumibili da specifici "indici rilevatori" individuati da consolidata giurisprudenza in argomento, quali:

l’identica natura dei reati; l’identità del movente; l’analogia del modus operandi; la costante cooperazione di altri soggetti nell’attività illecita; la tipologia dei reati; il bene protetto;

l’omogeneità delle violazioni; precisandosi in particolare come l’art. 81 c.p. non richieda necessariamente la "contiguità temporale" dei reati.

3.2.2.1. – Anche tale motivo è infondato, ove si consideri che la Corte territoriale, nell’escludere la configurabilità della continuazione, ha fatto puntuale riferimento a dati circostanziali e giuridici caratterizzanti, in concreto, la disomogeneità della dimensione storico-naturalistica dei diversi delitti, adeguatamente valorizzando le ragioni fattuali che ostavano all’identificazione di un unico e preordinato disegno criminoso. Le argomentazioni svolte dai giudici di appello, in particolare, contrariamente a quanto si sostiene nel ricorso, risultano assolutamente corrette in diritto, in quanto, secondo principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte, per la configurabilità della continuazione è necessaria un’unica complessa deliberazione preventiva, alla quale segua, per ogni singola azione, una deliberazione specifica. E’ da escludere, perciò, che un programma solo generico di attività delinquenziale sia idoneo a far riconoscere la continuazione tra diversi reati, perpetrati in un ampio lasso di tempo ed in località differenti, qualora non venga a risultare, in qualche modo, che essi, tutti o in parte, siano ricompresi, effettivamente, in un piano criminoso già deciso all’inizio (tra moltissime: Sez. U, n. 4 del 04/05/1968, Pierro; Sez. 1, n. 5144 del 14/01/1992, Pepi; ib. n. 1088 del 09/03/1992, Salafia; ib n. 2059 del 11/05/1992, Morotti);

eventualità questa motivatamente esclusa dai giudici di merito, con argomentazioni del tutto plausibili e per ciò non censurabili in sede di legittimità. 3.3. – Il ricorso proposto nell’interesse di \Boughanmi Kais Ben Mohamed\ va pertanto rigettato con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alla spese del presente procedimento.

4. – L’impugnazione proposta da \Matarese Stefania\:

4.1. – \Matarese Stefania\, con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello, relativamente a tale statuizione – è stata dichiarata colpevole del delitto previsto e punito dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, – capo 13) della rubrica – a lei contestato perchè, agendo in concorso con \JELASSI Adel\, \\MOEDDAB Nalet\, \SCARCELLA Monica\ e \TESTOURI Mohamed Avmen\ e \\MERGHI Mourad\ e con altre persone allo stato sconosciute (e, quindi, con l’aggravante del numero delle persone concorrenti superiore a tre), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, illegalmente detenevano, trasportavano, cedevano o vendevano una imprecisata quantità di eroina o cocaina (sostanze stupefacenti comprese nella tabella 1^ prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14), che \\FAES\ (omissis) (non identificato) cedeva il (omissis) a \JELASSI Adel\, \\MOEDDAB Najet\, \MATARESE Stefania\ e \SCARCELLA Monica\; e che le ultime tre, nello stesso giorno, trasportavano in auto in (omissis), consegnandone una parte a (omissis) a \TESTOURI Mohamed Aymen\ ed un’altra a (omissis) a \\MERCHI Mourad\ – e condannata, concesse le attenuanti generiche prevalenti sulla contestata aggravante, alla pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa.

4.2. – Nel ricorso proposto dal difensore di \Matarese Stefania\ risultano formulati due motivi d’impugnazione.

4.2.1 – Con il primo, si denunzia l’illegittimità della sentenza impugnata, per violazione e falsa applicazione dell’art. 192 c.p., comma 2, in relazione all’affermazione di penale responsabilità dell’imputata con riferimento all’unico episodio delittuoso alla stessa contestato.

In particolare, dopo aver rimarcato che nella sentenza impugnata a fronte di una motivazione particolarmente diffusa – anche in considerazione del numero degli imputati (18) e della pluralità di episodi delittuosi oggetto del presente procedimento – solo una pagina viene però dedicata alla trattazione della posizione della \Matarese\, da parte del ricorrente si sostiene che a carico dell’imputata sussistano elementi di prova insufficienti per affermarne la penale responsabilità.

In ricorso, rimarcato come l’addebito mosso alla \Matarese\ si riferisca ad un solo trasporto di un imprecisato quantitativo di sostanza stupefacente effettuato con l’auto della ricorrente da (omissis), si sostiene: a) che la \Matarese\ è stata coinvolta nell’episodio delittuoso di cui trattasi dalla coimputata \Scarcella Monica\, con la quale, all’epoca, intratteneva una "contrastata" relazione sentimentale; b) che l’imputata aveva deciso di accompagnare in Toscana con la propria autovettura la "fidanzata", solo per compiacerla e per finalità ludiche, ignorando che la \Scarcella\ e \Najet\ – l’amica della sua compagna, pure presente quel giorno nella vettura – trasportassero della sostanza stupefacente da cedere a terzi; c) che in tal senso deponevano sia la circostanza che la \Matarese\ si fosse trattenuta solo pochi minuti in compagnia di \Nayet\, sia, soprattutto, la circostanza che nessuna delle numerosissime intercettazioni presenti in atti, ed in particolare quelle relative all’organizzazione del trasporto di cui trattasi, riguardi direttamente la ricorrente, totalmente estranea ai traffici illeciti nei quali risultano invece coinvolti tutti gli altri coimputati; d) che in definitiva, lo scarno apparato motivazionale sviluppato dai giudici di appello, lungi dall’indicare "un’attività concreta" svolta dall’imputata, ipotizza un rapporto di "connivenza", illogicamente affermato, oltretutto, a ragione di un’asserita "impossibilità per la \Matarese\ di non sapere che quel viaggio avrebbe avuto un preciso scopo"; e) che in ogni caso, del tutto incongruamente è stata rigettata la richiesta subordinata di riconoscere la sussistenza dell’ipotesi lieve prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, tenuto conto del "minuscolo apporto" della \Matarrese\, dal momento che l’operazione risulta interamente organizzata dalla \Scarcella\ e che la condotta della ricorrente non è in alcun modo equiparabile a quella degli altri coimputati, alla cui attività delittuosa risultava totalmente estranea.

4.2.1.1 – Le deduzioni difensive prospettate in ricorso in punto di responsabilità penale appaiono inammissibili, in quanto, tendenti a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito. Nel caso in esame, la Corte di appello ha ineccepibilmente osservato che la prova del concorso della \Matarrese\ nel trasporto di sostanza stupefacente effettuato il (omissis) emergeva da un complesso di elementi di prova, rappresentato dal contenuto delle intercettazioni telefoniche che avevano preceduto il viaggio (in particolare tra la coimputata \Scarcella\ e \\Moedabb Najat\; dalle dichiarazioni rese dalla \Scarcella\ al GIP il 21 maggio 2008; dal servizio di osservazione predisposto dagli investigatori). Particolare rilevanza è stata attribuita dai giudici di merito, in particolare, sia alla circostanza che la \Scarcella\ – in passato già utilizzata dall’organizzazione per effettuare dei trasporti di droga – ha dichiarato che il compenso usualmente convenuto per tale attività (Euro 300), nell’occasione, sarebbe stato diviso con la \Matarrese\, che aveva messo a disposizione la propria vettura; sia soprattutto la circostanza che anche la \Matarese\ era salita nell’abitazione di \Adel\ e \Najat\ in via (omissis), ivi trattenendosi per almeno mezzora, allorquando \Adel\ contattò il suo fornitore \\Fares\; che i quattro insieme, si recano dal \\Fares\ per ritirare lo stupefacente. In particolare per escludere che "anche un solo componente dell’"equipaggio" "che prese parte al trasporto della droga da (omissis)", "fosse ignaro di quanto stava accadendo" i giudici di appello hanno valorizzato, non solo la circostanza che nel primo tratto del viaggio, venne posta in essere "una manovra di contropedinamento" diretta ad accertare, con brusche frenate e repentini cambi di direzione, se si era seguiti – manovra che non poteva non insospettire la \Matarese\, proprietaria dell’auto, se veramente ignara di quanto stava accadendo – sia anche soprattutto la "collegialità" con cui era stata gestita la delicata fase del contatto con il fornitore e dell’acquisizione dello stupefacente da trasportare a (omissis), ed il non trascurabile particolare che a (omissis) la \Scarcella\ e la \Matarese\ erano entrate insieme nell’abitazione di \\Merghi Mourad\ destinatario della droga e vi erano rimaste "per oltre un ora, avendo modo di assistere sia alla consegna della droga, che del denaro". La tesi sostenuta dall’imputata – che mettendo a disposizione la propria auto e guidandola nel viaggio di ritorno, ha dato, quindi, un fattivo contributo alla consumazione del reato – secondo cui ella era una semplice assuntrice di droga che aveva partecipato al viaggio solo in quanto sentimentalmente legata alla \Scarcella\, è appunto una questione in fatto, che non può essere presa in considerazione, a fronte della motivazione adeguata, conforme a regole della logica e priva di vizi giuridici, resa sul punto dai giudici di merito.

4.2.2 – Con il secondo motivo d’impugnazione, in ricorso si denunzia ancora violazione e falsa applicazione dell’art. 133 c.p., sostenendo che i giudici di merito avevano tenuto conto delle circostanze elencate dall’art. 133 c.p. ed in particolare della totale incensuratezza della \Matarese\ e del suo minimo coinvolgimento in un episodio delittuoso, con riferimento alla sola concessione delle attenuanti generiche, ma non anche con riferimento all’entità della pena da infliggere, statuizione rispetto alla quale anche i suindicati elementi, contrariamente a quanto avvenuto in concreto, andavano tenuti in debita considerazione.

4.2.2.1. – Anche tale motivo d’impugnazione, relativo all’entità della pena, è infondato, nessun profilo di illegittimità potendo fondatamente ravvisarsi nella motivazione fornita dalla Corte territoriale sul punto, che pur dando atto dell’accertato coinvolgimento dell’imputata nell’unico episodio contestatole e della sua incensuratezza, ha correttamente evidenziato come la pena inflitta alla \Matarese\ era stata determinata nella misura minima (considerando come pena base il minimo edittale di anni sei di reclusione) e non era quindi suscettibile di ulteriore attenuazione.

4.3. – Risultando infondati tutti i motivi dedotti, il ricorso proposto nell’interesse della \Matarese\ va quindi rigettato, con le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alla spese del presente procedimento.

5. L’impugnazione proposta da \Rezgui Naceur\:

5.1. – \Rezgui Naceur\, detto (omissis), con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello relativamente a tale statuizione – è stato dichiarato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, – capo 1) della rubrica -a lui contestato per essersi associato ad alcuni dei coimputati, ivi meglio specificati, nonchè ad altre persone allo stato sconosciute – "allo scopo di commettere più delitti tra quelli di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, cioè detenere, vendere, offrire, cedere, distribuire, trasportare, inviare e procurare ad altri sostanze stupefacenti di cui alla Tabella 1 del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 (eroina, cocaina e hashish), con l’aggravante di cui al comma 3, trattandosi di associazione composta da più di dieci persone"; a lui imputandosi, in particolare: di essere partecipe, unitamente ai coimputati \\MERCHI Mourad\, \DRIDI Ramzi\, \mejri Zouhaier\, \AMRI Hichem\, \TASTOURI Mohamed Aymen\ e ad altre persone rimaste sconosciute, delle reti della organizzazione operante, l’una a (omissis) (tutti meno il \TASTOURI\) e l’altra a (omissis) (il \TASTOURI\), rifornendosi stabilmente da \JELASSI\ (o dalle persone da lui incaricate), con lui organizzando le consegne di stupefacente, i pagamenti della "merce", occultandola in appositi nascondigli e, dopo il trasporto (o l’organizzazione del trasporto) a (omissis), preoccupandosi dell’ulteriore fase della vendita alla "clientela" locale; e condannato alla complessiva pena di anni 7 e mesi 8 di reclusione (pena base, per il reato associativo, anni 11 e mesi 6 di reclusione).

5.2. – Nel ricorso proposto dal difensore di \Rezgui Naceur\, sono enunciati quattro motivi d’impugnazione.

5.2.1. – Con il primo motivo, si denunzia, mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nonchè errata applicazione ed interpretazione della legge penale, relativamente alla sussistenza di un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti. Al riguardo nel ricorso si sostiene che i giudici di appello, hanno affermato l’esistenza di un gruppo organizzato e dedito al traffico illecito di sostanza stupefacente, sviluppando sul punto argomentazioni del tutto incongrue, ciò desumendo da circostanze prive, in realtà, di effettiva valenza dimostrativa, quali: a) le trasferte a (omissis) di alcuni imputati "per la consegna di droga a seguito di accordi telefonici con taluni esponenti del gruppo"; b) il contenuto di una frase pronunciata da uno dei coindagati, \\Dallal Fahidel\ (\Adel\ è uno dei miei) e c) di altra pronunciata da \Jelassi Adel\ parlando al telefono con il coimputato \Merghi Mourad\ (la società ha chiuso per ferie); illogicamente interpretate dai giudici di merito come ammissioni dell’esistenza di una organizzazione di cui tutti i predetti soggetti erano partecipi.

Ulteriore profilo di illogicità della motivazione della sentenza impugnata viene ravvisato dal ricorrente nell’aver ritenuto il \Rezgui\ stabilmente inserito nel così detto "gruppo pisano" del sodalizio e con un ruolo ritenuto non secondario, almeno nel primo periodo di operatività dello stesso. Anche tale affermazione dei giudici di appello, infatti, secondo la difesa del \Rezgui\, non trova adeguata giustificazione nell’apparato motivazionale, segnalandosi al riguardo in ricorso: a) che dalle intercettazioni si ricava che l’imputato ha avuto contatti con \Jelassi Adel\ – capo e dirigente dell’associazione per delinquere – una prima volta tra il (omissis), ed una seconda volta tra il (omissis), per il tramite di una terza persona, tale \Jamal\, vale a dire per appena quattro giorni, a fronte di una attività investigativa protrattasi per più di nove mesi; b) che allorquando l’imputato si era recato a (omissis) per incontrare il \Jelassi\, costui si era rifiutato di incontrarlo, senza neppure offrirgli una qualche sistemazione; c) che i giudici di appello hanno valorizzato il dato di alcuni sporadici contatti telefonici, temporalmente limitati, senza considerare, in alcun modo, che il ricorrente, con riferimento alle cessioni di sostanze stupefacenti oggetto di tali colloqui, ha ammesso gli addebiti ed è stato anche condannato nel corso del procedimento celebratosi a (omissis); d) che nel presente giudizio, non vi è prova di incontri avuti dal ricorrente con gli altri soggetti partecipi del gruppo pisano (\Dridi Ramzi\, \Amri Hichem\ e \Mijiri Zouhaier\), fermo restando, che il dato, anche qualora si dovesse ritenere definitivamente accertato, sarebbe comunque scarsamente significativo, tenuto conto del ristretto contesto territoriale pisano e della comune nazionalità tunisina dei co-imputati.

Anche le dichiarazioni accusatorie del \\Merghi Mourad\, secondo cui il \Rezgui\ avrebbe "avrebbe fatto conoscere tutto il gruppo lì a (omissis)", risultano prive di riscontro e scarsamente attendibili, risultando in contraddizione con quanto dichiarato in dibattimento dal suddetto coimputato, il quale ha affermato di aver conosciuto \Jelassi Abdel\ in (omissis), quando era bambino, e di aver invece conosciuto il ricorrente solo nel (omissis), una volta trasferitosi a (omissis), rivelandosi di contro significativa la circostanza che il coimputato \\Dallal\ non ha indicato espressamente il \Rezgui\ tra "i soggetti dediti al traffico di stupefacenti", emergendo, in definitiva, dal materiale probatorio che l’imputato era uno dei soggetti nordafricani, dediti al consumo di sostanza stupefacente, gravitanti intorno alla città di (omissis), sicchè, se pure gli stessi si conoscevano tra loro e tra di essi erano intercorsi rapporti di acquisto/vendita di sostanza stupefacenti, tali fatti non provano in alcun modo la sussistenza di un’associazione per delinquere nè tanto meno la partecipazione del \Rezgui\ alla cellula milanese ovvero a quella pisana.

E del resto, si fa rilevare ancora in ricorso con riferimento al principale elemento di accusa costituito dalle intercettazioni, non va trascurato il dato che il ricorrente non è l’unica persona residente a (omissis) coinvolta nelle indagini, a chiamarsi \Naceur\ o \Nasser\, sicchè, i ripetuti contatti avuti da altri imputati con una persona indicata con tale nome, ben potrebbero riferirsi ad altro soggetto e non già al \Rezgui\.

Anche il dato degli acquisti di sostanza stupefacente da persone ritenute partecipi dal sodalizio e di una occasionale rivendita a terzi di parte della sostanza acquisita, non può fondatamente ritenersi un elemento dimostrativo di una partecipazione all’associazione, ove si consideri che l’imputato era un assuntore abituale di cocaina e che le sporadiche cessioni servivano, in realtà, ad acquisire il denaro necessario "per far fronte al proprio bisogno di sostanza". A conferma della insufficienza od equivocità degli elementi di prova a carico del \Rezgui\ in ricorso si segnala, altresì, come all’imputato non risultano contestati singoli episodi di spaccio, per i quali mancano indicazioni precise relativamente alle loro componenti fattuali (quantitativi, tipologie di sostanze), non mancando per altro di segnalare, nello sviluppo delle deduzioni difensive, come la sussistenza del delitto ex D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 non possa desumersi, sic et simpliciter, dalla commissione di una delle condotte descritte dal cit D.P.R., art. 73.

Nessuna effettiva rilevanza può fondatamente attribuirsi, poi, al possesso di un arma da parte dell’imputato, circostanza questa incongruamente enfatizzata dai giudici di appello, ove si consideri che la detenzione dell’arma era da ricollegarsi al timore di subire aggressioni da parte di alcuni soggetti franco-algerini, più che fondato, ove si consideri che in passato l’imputato, come riconosciuto anche nella sentenza impugnata, era stato anche temporaneamente sequestrato dai predetti.

Nella impugnata sentenza, infine, non risulta in alcun modo affrontato il tema dell’elemento soggettivo del reato, pure segnalato dalla difesa come un profilo di criticità della sentenza di condanna di primo grado, non emergendo dalle acquisizioni probatorie una effettiva coscienza e volontà del \Rezgui\ di partecipare e di contribuire alla vita dell’associazione, ove si consideri il carattere sporadico degli incontri con il preteso vertice dell’associazione e la significativa circostanza, già segnalata in precedenza, che in occasione di un viaggio a (omissis) dell’imputato, \Adel Jelassi\ si rifiutò di incontrarsi con il \Rezgui\, e non gli prestò alcuna assistenza.

5.2.1.1. – Tale articolato motivo, che pertiene essenzialmente a questioni di fatto, è infondato, in quanto, mediante esso, si chiede al giudice di legittimità una non consentita attività di verifica e di controllo. Con lo stesso non si denunciano, infatti, reali vizi di legittimità, ma si censurano sostanzialmente le valutazioni e gli apprezzamenti probatori, operati dai giudici di merito, ed espressi in sentenza con una giustificazione che risulta completa, nonchè fondata su argomentazioni giuridicamente corrette, coerenti, ed indenni da vizi logici. Del tutto plausibilmente, di fatti, le sentenze di merito, sulla scorta del compendio delle comunicazioni telefoniche, integrato dalle dichiarazioni dei coimputati \\Merghi Mourad\ e \Jellassi Adel\, hanno evidenziato, quanto all’esistenza di un sodalizio criminale, come gli imputati residenti nel territorio pisano costituissero "un "gruppo unito" operante nel traffico della droga, e quanto alla partecipazione ad esso del \Rezgui\, come il ricorrente costituisse una "testa di ponte fra \Adel\ ed i terminali del mercato pisano", espressamente precisando, a fronte di specifiche obiezioni dell’appellante, che il rapporto di collaborazione instauratosi tra i due imputati, pure fondamentale (unitamente a quello intrattenuto con \Kefi Hatem Ben Abdelmajid\) per la penetrazione del \Jelassi\ nella realtà pisana a lui del tutto sconosciuta (emergendo dagli interrogatori di \Dallal Fadhel\ e \\Merghi Mourad\, che fu proprio il \Rezgui\ a propiziare l’incontro tra \Adel\ e \\Mourad\), si era poi interrotto, in occasione della "crisi" tra il "gruppo pisano" ed i precedenti fornitori franco- algerini, avendo il \Jelassi\ deciso – seguendo del resto una strategia già utilizzata in passato (icasticamente definita da un coimputato, attraverso il ricorso al proverbio, "entrare come una spina e diventare come una spada"), di avvalersi in primo luogo di \Najat Moedabb\, la sua convivente, ed anche di \Dallal Fadhel\, per i suoi "contatti con il mercato pisano". In particolare, con riferimento alla contestata partecipazione del ricorrente al sodalizio criminale indicato nel capo d’imputazione, va precisato come sia incongruo il rilievo difensivo che valorizza il dato che nel presente giudizio al \Rezgui\ non risultano contestati singoli episodi di cessione, ove si consideri che per i "reati fine", per pacifica ammissione anche del ricorrente, si è proceduto nei suoi confronti nel procedimento pisano, dovendo di contro qui ribadirsi la validità del principio – da tempo enunciato da questa Corte e del quale i giudici di appello hanno fatto corretta applicazione – secondo cui "in tema di reati associativi, gli elementi certi relativi alla partecipazione di determinati soggetti ai reati fine effettivamente realizzati, possono essere influenti nel giudizio relativo all’esistenza del vincolo associativo e all’inserimento dei soggetti nell’organizzazione, specie quando ricorrano elementi dimostrativi del tipo di criminalità, della struttura e delle caratteristiche dei singoli reati, nonchè delle modalità della loro esecuzione" (in tal senso, ex multis, Sez. 5, Sentenza n. 21919 del 04/05/2010, dep. l’8/06/2010, Rv. 247435, imp. Procopio). Può solo aggiungersi che il ricorrente neppure mostra di considerare l’ulteriore dato, anch’esso particolarmente significativo con riferimento alla ricostruzione dei rapporti esistenti tra i coimputati e correttamente valorizzato dai giudici di merito che allorquando i fornitori algerini intesero vendicarsi del \Dridi\ ebbero a colpire proprio il \Rezgui\.

In presenza di un percorso argomentativo – solo sommariamente illustrato in questa sede – che si rivela del tutto coerente ed aderente a specifiche risultanze processuali di cui non è provato alcun verificabile travisamento, questo Collegio non può esimersi dal rilevare che per risalente giurisprudenza, eccede dalla competenza della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito. Il controllo sulla motivazione della Suprema Corte è, dunque, circoscritto, ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e, alla verifica di tre requisiti, la cui esistenza rende la decisione intangibile in sede di legittimità: 1) l’esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l’hanno determinata; 2) l’assenza di manifesta illogicità dell’esposizione, ossia la coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che l’hanno determinate; 3) il mancato affioramento di alcuni dei predetti vizi dall’atto impugnato (Cass. Sez. 6, sentenza n. 5334 del 22/04/1992, dep. il 26/05/1993, Rv. 194203, imp. Verdelli). Ciò posto, è agevole rilevare che tutte le argomentazioni sviluppate nel motivo d’impugnazione, nelle loro polimorfe articolazioni, si risolvono, sostanzialmente, in censure di fatto che comportano, per il loro accoglimento, o una diversa lettura dei dati processuali oppure una diversa interpretazione delle prove, entrambe non consentite al giudice di legittimità.

Ed invero, si ribadisce, i giudici di merito, con due decisioni sintoniche ed integrate, hanno analiticamente indicato le loro fonti di convincimento, valutandole con uno sviluppo argomentativo che si sottrae a critiche di sorta, per la linearità logica e giuridica che le contraddistingue e che pertanto impedisce il sindacato della Corte di legittimità. E del resto l’art. 606 c.p.p. non consente alla Corte di cassazione una diversa lettura dei dati processuali (Cass., Sez. 6, 30 novembre 1994, imp. Baldi, riv. 200842; Cass., Sez. 1, 27 luglio 1995, imp. Ghiado, riv. 202228), o una diversa interpretazione delle prove (Cass., Sez. 1, 5 novembre 1993, imp. Molino, riv.

196353, Cass., Sez. Un., 27 settembre 1995, Mannino, riv. 202903), perchè è estraneo al giudizio di legittimità il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati probatori; e l’art. 606 c.p.p., lett. e), quando esige che il vizio della motivazione risulti dal testo dei provvedimento impugnato, sì limita a fornire solo una corretta definizione del controllo di legittimità sul vizio di motivazione (cfr. in termini: Cass. Sez. 5, sentenza n. 39843 del 9 novembre 2007, imp. Gatti; Cass., Sez. 5, 30 novembre 1999, imp. Moro, riv. 215745, Cass., Sez. 2, 21 dicembre 1993, imp. Modesto, riv. 196955). Infatti, pur dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) introdotta dalla L. n. 46 del 2006, con la previsione del riferimento del vizio di motivazione anche agli "altri atti del processo specificamente indicati nel motivi di gravame", per consolidata e prevalente giurisprudenza, resta immutata la natura del giudizio di legittimità, che non può dare luogo ad una diversa lettura dei dati processuali o ad una diversa interpretazione delle prove, perchè gli è estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali e rimane suo unico oggetto la contrarietà di un provvedimento a norme di legge (Cass., Sez. 5, Ordinanza n. 12634 del 22/03/2006, dep. il 10/04/2006, riv.

233780, imp. Cugliari; precedenti conformi: Ordinanza n. 13648 del 3/04/2006, dep. il 14/04/2006, Rv. 233381, imp. Leotta).

In conclusione, va ribadito che va esclusa, in ogni caso, la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dai giudice di merito, attraverso una diversa lettura dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o attendibilità delle fonti di prova (cfr. in termini; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 7380 del 11/01/2007, dep. il 22/02/2007, Rv. 235716, imp. Messina).

5.2.2. – Con il secondo motivo, in ricorso si denunzia mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione in ordine all’esclusione dell’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 6 in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

Del tutto incongruamente, infatti, la Corte territoriale ha ritenuto che tutti gli imputati fossero dediti al traffico di quantitativi consistenti di sostanza stupefacente, ciò desumendo, illogicamente, da dati privi, in realtà, di effettiva efficacia dimostrativa (il sequestro di 5 chili di eroina, ritenuto quantitativo "standard" a ragione della considerazione che la consegna non era stata preceduta da particolari comunicazioni; il riferimento del coimputato \\Dallal\ alla consegna di circa 20 kg di droga in soli quattro viaggi;

affermazione ritenuta sufficiente per affermare che in ciascun viaggio era stato consegnato un quantitativo di 5 kg; ingente flusso di denaro gestito dagli imputati; massima di esperienza in base alla quale nessuno si sobbarcherebbe agli oneri ed ai rischi di una lunga trasferta per un corrispettivo di modesta entità). In particolare dal ricorrente si segnala che gli elementi da valutare per l’applicazione della diminuente, sia soggettivi (mezzi, modalità, circostanze dell’azione) sia oggettivi (qualità e quantità della sostanza) vanno apprezzati globalmente ed in modo non restrittivo, influendo tale valutazione in maniera significativa sull’entità della pena, così da rapportare in modo razionale la pena al fatto in modo da rispettare il principio di ragionevolezza e di proporzione fra la quantità e la qualità della pena e l’offensività del fatto compiuto, e che la decisione impugnata non si è attenuta ai suddetti principi, ove si consideri che il \Rezgui\ ha avuto sporadici contatti con il gruppo milanese e che lo stesso è accusato della cessione di stupefacenti in quantità e qualità neppure concretamente individuate dalla Corte territoriale.

5.2.2.1. – Anche tale motivo, relativo all’esclusione delle ipotesi attenuate previste dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 e art. 74, comma 6, si rivela – per le stesse considerazioni già esposte in sede di rigetto di quello precedente – totalmente infondato, risolvendosi esso in una generica confutazione di un percorso motivazionale assolutamente logico ed aderente alle risultanze processuali, che ha valorizzato il contenuto delle intercettazioni telefoniche, il ricorso di alcuni indagati ad un linguaggio criptico nelle comunicazioni, accompagnato dall’adozione di particolari cautele (contatti tramite un phone center), le dichiarazioni ammissive di responsabilità, di alcuni imputati, il sequestro di un quantitativo di sostanza stupefacente non certamente modesto (5 chilogrammi di eroina), rispetto al quale tutte le argomentazioni sviluppate in ricorso, non superano la soglia della ricostruzione alternativa o meramente congetturale, anche perchè, come già affermato autorevolmente dalle Sezioni Unite di questa Corte, la circostanza attenuante speciale del fatto di lieve entità "può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio" (Sentenza n. 35737 del 24/06/2010, dep. il 5/10/2010 Rv.

247911, imp. Rico).

5.2.3 – Con il terzo motivo, si denunzia ancora, da parte del ricorrente, l’illegittimità della sentenza impugnata, per mancanza e manifesta illogicità della motivazione nonchè per errata applicazione ed interpretazione della legge penale, relativamente al diniego delle attenuanti generiche. Illustrati in ricorso gli argomenti forniti dai giudici di appello per motivare la mancata concessione delle attenuanti: a) asserito inserimento del \Rezgui\ negli ambienti di spaccio pisano; b) esistenza di precedenti specifici; c) intervenuta revoca della semilibertà; la difesa dell’imputato ritiene il ragionamento espresso sul punto dalla Corte territoriale alquanto "frettoloso e superficiale", in quanto, per un verso, ha valorizzato dei dati collocati in epoca assai lontana dalla commissione dei fatti; sottacendo, di contro, il comportamento processuale dell’imputato che attraverso le sue dichiarazioni ha pienamente contribuito alla ricostruzione dei fatti, così venendo meno agli obblighi di motivazione pur sempre sussistenti in caso di specifiche allegazioni sul punto, nonostante il carattere eminentemente discrezionale delle valutazioni demandate al giudice del merito.

5.2.3.1. – Anche il motivo di impugnazione relativo al diniego delle attenuanti generiche deve ritenersi infondato, ove si consideri, per un verso, il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui, "ai fini dell’assolvimento dell’obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, il giudice non è tenuto a prendere in considerazione tutti gli elementi prospettati dall’imputato, essendo sufficiente che egli spieghi e giustifichi l’uso del potere discrezionale conferitogli dalla legge con l’indicazione delle ragioni ostative alla concessione delle circostanze ritenute di preponderante rilievo" (così ex multis Cass., sez. 2, sentenza n. 2285 dell’I 1/10/2004 – 25/1/2005, riv.

230691 imp. Alba); e dall’altro, che tale obbligo di motivazione deve ritenersi certamente assolto nel caso in esame, avendo i giudici di appello ritenuto ostativa alla concessione delle attenuanti di cui trattasi, una pluralità di ragioni, tra cui la gravità del reato commesso, a ragione di un effettivo e non solo ipotetico inserimento dell’imputato nel contesto associativo pisano, la spiccata capacità a delinquere ed i negativi precedenti penali dello stesso.

5.2.4. – Con il quarto motivo d’impugnazione, il ricorrente denuncia, infine, inosservanza o erronea applicazione della legge penale, in relazione alla decisione della Corte territoriale (pag. 489) di escludere la possibilità di applicare la continuazione tra il reato associativo oggetto del presente giudizio e quello di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, già giudicato dalla Corte di Appello di Milano con sentenza del 19 gennaio 2010.

La decisione di rimettere al giudice dell’esecuzione la decisione sulla richiesta difensiva, formulata in udienza, di applicazione della disciplina del reato continuato, essendo la sentenza di condanna per il reato ritenuto in continuazione divenuta definitiva dopo la impugnazione della sentenza di primo grado, ad avviso del ricorrente, infatti, oltre a richiamare un indirizzo giurisprudenziale assolutamente minoritario, viola il principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost..

5.2.4.1. – Il motivo è infondato. In effetti, come correttamente evidenziato nella sentenza impugnata attraverso il pertinente richiamo ad un recente arresto di questa Corte (Cass., Sez. 5, Sentenza n. 9311 del 10/02/2009, dep. il 2/03/2009, Rv. 243166, imp. Soffientini), il giudice d’appello non può riconoscere d’ufficio la continuazione tra il reato rimesso alla sua cognizione e altro per cui l’imputato ha riportato in precedenza condanna divenuta definitiva (Cass., sez. 4A, sentenza n. 33403, del 14 luglio 2008, imp. Cavalieri D’oro, Riv. 240902), perchè il riconoscimento della continuazione non è incluso tra le questioni che l’art. 597 c.p.p. considera devolute d’ufficio alla cognizione del giudice di secondo grado. Il mancato riconoscimento della continuazione deve infatti formare oggetto di specifico motivo d’impugnazione, perchè la questione possa ritenersi devoluta al giudice d’appello (Cass., sez. 2, 2 febbraio 1984, Rv. 164180, imp. Di Chìo). Può certo accadere, come avvenuto nel caso in esame, che la possibilità di riconoscere la continuazione sopravvenga alla decisione di primo grado, con la successiva irrevocabilità della sentenza conclusiva di un diverso procedimento. Ma in tal caso le ragioni dell’interessato, come si legge nella citata decisione di questa Corte, "potranno essere fatte valere solo a norma dell’art. 671 c.p.p., in sede esecutiva, perchè il mancato riconoscimento della continuazione non dipende da un errore della sentenza di primo grado, che possa essere denunciato con un motivo d’impugnazione". Nè la richiesta formulata dall’imputato nel corso del giudizio d’appello, si afferma ancora correttamente nella già citata decisione, "può derogare ai limiti della devoluzione segnati dall’art. 597 c.p.p.", in quanto "come questa Corte ha avuto modo di chiarire a sezioni unite, infatti, il giudice d’appello ha il dovere di pronunciarsi sulla richiesta di applicazione della continuazione con un reato già giudicato, solo quando "l’imputato abbia formulato uno specifico motivo di gravame sulla mancata applicazione della continuazione" (Cass., sez. un., 19 gennaio 2000, Tuzzolino, m. 216238)". 5.3 – Il rigetto del ricorso proposto nell’interesse di \Rezgui Naceur\, basato su motivi risultati tutti infondati, comporta le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alla spese del presente procedimento.

6. – L’impugnazione proposta da \Dridi Ramzi\. 6.1. – \Dridi Ramzi\, con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello, relativamente a tale statuizione – è stato dichiarato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, – capo 1) della rubrica – a lui contestato per essersi associato ad alcuni dei coimputati, ivi meglio specificati, nonchè ad altre persone allo stato sconosciute – "allo scopo di commettere più delitti tra quelli di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, cioè detenere, vendere, offrire, cedere, distribuire, trasportare, inviare e procurare ad altri sostanze stupefacenti di cui alla Tabella 1^ (eroina, cocaina e hashish) del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14, con l’aggravante di cui al comma 3, trattandosi di associazione composta da più di dieci persone"; a lui imputandosi, in particolare: di essere partecipe, unitamente ai coimputati \\MERCHI Mourad\, \REZGUI Naceur\, \\MEJRI Zouhaier\, \AMRI Hichem\, \TASTOURI Mohamed Aymen\ e ad altre persone rimaste sconosciute, delle reti della organizzazione operante, l’una a (omissis) (tutti meno il \TASTOURI\) e l’altra a (omissis) (il \TASTOURI\), rifornendosi stabilmente da \JELASSI\ (o dalle persone da lui incaricate), con lui organizzando le consegne di stupefacente, i pagamenti della "merce", occultandola in appositi nascondigli e, dopo il trasporto (o l’organizzazione del trasporto) a (omissis) e (omissis), preoccupandosi dell’ulteriore fase della vendita ai loro clienti in quelle zone;

b) di uno dei "reati scopo" dell’associazione, previsto e punito dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, contestato al capo 4), commesso in (omissis);

e condannato, previa unificazione dei reati nel vincolo della continuazione, alla complessiva pena di anni 6 e mesi 10 di reclusione (pena base, per il reato associativo, anni 10 e mesi 1 di reclusione).

6.2. – Nel ricorso proposto dal difensore di \Dridi Ramzi\, sono enunciati due motivi d’impugnazione.

6.2.1. – Con il primo motivo, si denunzia, l’illegittimità della decisione impugnata per errata applicazione ed interpretazione della legge penale, inosservanza di norme processuali ( art. 192 c.p.p.) e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, relativamente alla ritenuta partecipazione del ricorrente ad un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti.

La responsabilità del \Dridi Ramzi\ per il reato associativo è stata desunta, secondo il ricorrente, da elementi congetturali, privi di concreti riscontri probatori, avuto riguardo, in particolare, alla consapevolezza dell’imputato di aver assunto un vincolo associativo che possa ritenersi permanente rispetto alla realizzazione del singolo episodio delittuoso, di per sè comunque controversa. Il numero delle conversazioni intercettate che riguardano il \Ramzi\ è infatti limitato e circoscritto temporalmente (dal 6 al 29 giugno 2007); dal contenuto delle stesse, quanto mai equivoco e frammentario, per come illustrato nelle annotazioni riepilogative della polizia giudiziaria, non emerge alcun dato idoneo a dimostrare l’esistenza del suddetto vincolo.

Quanto alle dichiarazioni accusatorie rese dal coimputato \Rezgui Naceur\, nel ricorso si sostiene che i giudici di appello hanno omesso di motivare sull’attendibilità intrinseca ed estrinseca del chiamante in correità e sull’esistenza di adeguati riscontri probatori.

Anche il dato rappresentato dalla sentenza di condanna per fatti commessi in Toscana sarebbe privo di effettiva rilevanza probatoria, sia perchè trattasi di sentenza non ancora definitiva e suscettibile di annullamento per aver erroneamente ritenuto il \Ramzi\ latitante laddove lo stesso risultava sottoposto a misura cautelare coercitiva, sia anche perchè tale sentenza si riferiva ad episodi delittuosi (aggressione ai danni del \Rezgui\ ad opera di un gruppo di francoalgerini, in urto con il ricorrente), che nulla hanno a che fare con l’ipotizzata associazione per delinquere oggetto del presente giudizio.

6.2.1. – Il motivo è infondato. Anche per il ricorrente \Dridi\, valgono infatti le stesse considerazioni svolte con riferimento ai motivi d’impugnazione proposti dai coimputati volti a contestare la declaratoria di penale responsabilità, con riferimento all’imputazione associativa loro mossa.

Le doglianze sviluppate in ricorso sul punto, infatti, riproducono sostanzialmente gli argomenti prospettati nel gravame, ai quali la Corte territoriale ha dato adeguate e argomentate risposte, esaustive in fatto e corrette in diritto, che il ricorrente non considera adeguatamente nè specificatamente censura. Ed invero i giudici del merito, con sintoniche argomentazioni, hanno evidenziato, in particolare – in base al contenuto delle conversazioni intercettate ed a prescindere dalle indagini pisane, che avevano comunque fornito un "notevole riscontro" all’ipotesi accusatoria – come il ricorrente, autonomamente dal \\Merghi\, ed unitamente a \Mejri Zouhaier\, aveva stabilito rapporti di acquisto con \Jelassi\; che tali rapporti erano costanti e perduranti nel tempo (essendosi protratti almeno sino all’agosto del 2007), e certamente si inquadravano nell’ambito di un accordo per la commissione di un numero indeterminato di fatti illeciti; che anche le dichiarazioni del \Rezgui\ confermavano il coinvolgimento "ad alto livello" del ricorrente in traffici di droga, in più piazze d’Italia ((omissis)), avendo lo stesso rapporti con fornitori sia tunisini che algerini; che tali dichiarazioni erano state riscontrate dagli atti dell’indagine pisana e dalla sentenza del tribunale di quella città in data (omissis), da cui emergeva che \Dridi\ aveva, prima del febbraio 2007, un ruolo "guida" nell’ambito del mercato pisano, grazie al suo rapporto privilegiato con i fornitori franco-algerini; che entrato in crisi tale rapporto era subentrato \Adel @Jelassi\, dal quale il ricorrente si era rifornito, dal quale aveva ritirato non meno di un chilogrammo di cocaina. Orbene a fronte di tale articolato percorso argomentativo, tutte le argomentazioni sviluppate in ricorso, senza fornire dimostrazione di significativi e verificabili travisamenti del quadro probatorio, non superano la soglia della ricostruzione alternativa o meramente congetturale, non considerando adeguatamente, che il reato associativo, specie con riferimento all’attività di procacciamento e spaccio di sostanze stupefacenti, non richiede – come già ripetutamente evidenziato da questa Corte – una struttura articolata o complessa o una esplicita reciproca manifestazione di intenti, essendo sufficiente una struttura anche esile cui i compartecipi possano fare reciproco, anche tacito, affidamento; non essendo ostativa alla configurabilità del reato associativo neppure la differenza dello scopo personale o dell’utile che i singoli partecipi si propongono, potendo essa sussistere nell’ipotesi in cui gli acquirenti che poi reimmettono le sostanze al consumo siano mossi dalla esclusiva finalità di assicurarsi una fonte di approvvigionamento stabile, costante e abitudinaria e i venditori, mossi dall’intento di smerciare a fine di profitto la sostanza stupefacente, possano fare uno stabile affidamento sulla disponibilità all’acquisto da parte dei compratori con la costituzione di un rapporto che va oltre il significato negoziale della singola operazione per costituire elemento di una struttura che facilita lo svolgimento dell’intera attività criminale (in termini, Sez. 5, Sentenza n. 11899 del 05/11/1997, dep. il 18/12/1997, Rv.

209646, imp. Saletta).

6.2.2. – Con il secondo ed ultimo motivo d’impugnazione, si denunzia, infine, la illegittimità della sentenza impugnata, relativamente all’affermazione di responsabilità per il reato fine di cui al capo 4) della rubrica, per erronea applicazione della legge penale e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione.

In ricorso si sostiene che i giudici di merito hanno fondato l’affermazione di responsabilità in relazione a tale imputazione, sulla base del contenuto di colloqui telefonici intercettati dal contenuto quanto mai "nebuloso", senza adeguatamente considerare che il 21 giugno 2007, giorno in cui si sarebbe verificato l’acquisto di sostanza stupefacente, non risulta realizzata alcuna ripresa visiva che conforti l’ipotesi accusatoria nè operato alcun sequestro di sostanza stupefacente, neppure specificandosi nel capo d’imputazione la natura e quantità della sostanza asseritamente consegnata al \Dridi\. 6.2.2.1. – Il motivo non può essere accolto, risolvendosi esso in una censura sulla valutazione del quadro probatorio posto a fondamento della condanna del ricorrente per l’episodio contestato al capo 4 della rubrica, che esula dai poteri di sindacato del giudice di legittimità, non palesandosi il relativo apprezzamento motivazionale nè manifestamente illogico, nè viziato dalla non corretta applicazione della norma incriminatrice ( D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73). Ed invero, premesso che i giudici di appello hanno ricostruito in maniera dettagliata l’episodio – sulla scorta delle numerose conversazioni intercettate intercorse tra i protagonisti della vicenda, di cui in sentenza vengono riprodotti i brani più significativi – dal cui contenuto emergeva con chiarezza che \\Fares\ l'(omissis) e \Boughhanmi Kais Ben Mohamed\ (detto (omissis)) il (omissis) avevano ceduto un quantitativo di stupefacente a \Jelassi Adel\ e che nello stesso giorno quest’ultimo, in (omissis), cedeva la medesima sostanza, per la vendita, a \Dridi Ramzi\ che la trasportava a Pisa dove ne cedeva parte a \Mejiri Zouhaier\ ed a \Amri Hichem\, sempre ai fini dell’ulteriore vendita – le deduzioni difensive svolte in ricorso, si limitano a contestare, genericamente, la idoneità di tale compendio captativo a costituire una prova (indiziaria) certa, della sussistenza degli elementi costitutivi del reato contestato, in assenza di sequestri o riprese visive che documentassero la cessione, senza considerare però, che da tempo questa Corte ha più volte affermato il principio (in termini, Sez. 6, Sentenza n. 13904 del 14/10/1986, dep. il 6/12/1986, Rv. 174548, imp. Manara; Sez. 4, Sentenza n. 46299 del 28/10/2005, dep. il 20/12/2005, Rv. 232826, imp. Secchi; Sez. 4, Sentenza n. 48008 del 18/11/2009, dep. il 16/12/2009, Rv. 245738, imp. Palmerini) secondo cui in tema di stupefacenti, il reato di detenzione a fini di spaccio o quello di spaccio, non sono condizionati, sotto il profilo probatorio, al sequestro o al rinvenimento di sostanze stupefacenti, poichè la consumazione di tali reati può essere dimostrata attraverso le risultanze di altre fonti probatorie (quali, come nella specie, il contenuto delle intercettazioni).

7. L’impugnazione proposta da \Mejri Zouhaier\. 7.1. – \Mejri Zouhaier\ con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello, relativamente a tale statuizione – è stato dichiarato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, – capo 1) della rubrica – a lui contestato per essersi associato ad alcuni dei coimputati, ivi meglio specificati, nonchè ad altre persone allo stato sconosciute – "allo scopo di commettere più delitti tra quelli di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, cioè detenere, vendere, offrire, cedere, distribuire, trasportare, inviare e procurare ad altri sostanze stupefacenti di cui alla Tabella 1^ del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14 (eroina, cocaina e hashish), con l’aggravante di cui al comma 3, trattandosi di associazione composta da più di dieci persone"; a lui imputandosi, in particolare: di essere partecipe, unitamente ai coimputati \\MERCHI Mourad\, \REZGUI Naceur\, \DRIDI Ramzi\, \AMRI Hichem\, \TASTOURI Mohamed Aymen\ e ad altre persone rimaste sconosciute, delle reti della organizzazione operanti, l’una a (omissis) (tutti meno il \TASTOURI\) e l’altra a (omissis) (il \TASTOURI\), rifornendosi stabilmente da \JELASSI\ (o dalle persone da lui incaricate), con lui organizzando le consegne di stupefacente, i pagamenti della "merce", occultandola in appositi nascondigli e, dopo il trasporto (o l’organizzazione del trasporto) a (omissis) e (omissis), preoccupandosi dell’ulteriore fase della vendita ai loro clienti in quelle zone; b) di due dei "reati scopo" dell’associazione, previsti e puniti dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 6, contestati al capo 2 e 4), commessi in (omissis), rispettivamente il (omissis); e condannato, previa unificazione dei reati nel vincolo della continuazione e la concessione delle attenuanti generiche con giudizio di prevalenza sulle contestati aggravanti e, alla complessiva pena di anni 5 di reclusione (pena base, per il reato associativo, anni 10 di reclusione), con riforma di quella di primo grado limitatamente all’entità della diminuzione di pena per effetto della scelta del rito.

7.2. – Nel ricorso proposto personalmente da \Mejri Zouhaier\, è enunciato un solo motivo d’impugnazione.

7.2.1. – Con esso si denunzia l’illegittimità della decisione impugnata per inosservanza ed erronea applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 2, e per mancanza o manifesta illogicità della motivazione, relativamente alla ritenuta partecipazione del ricorrente ad un’associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti.

Riproposte in ricorso le deduzioni svolte nell’atto di appello con riferimento a tale capo della decisione di primo grado, con le quali si segnalava: a) come gli approvvigionamenti di sostanza stupefacente da \Jelassi\ da parte dell’imputato fossero stati solo due; b) che i rapporti di conoscenza con il \Jelassi\ risultavano essere stati mediati da \Rezgui Naceur\; c) che dalle risultanze processuali non era possibile desumere l’esistenza del necessario rapporto fiduciario fra i medesimi, evidenziando piuttosto le intercettazioni dei soggetti reciprocamente sospettosi, che perseguivano i propri egoistici interessi e che non avevano alcuna intenzione o consapevolezza di far parte di un sodalizio criminoso, sicchè, in conclusione, difettava non solo il dolo del reato associativo, ma anche il minimum di condotta idonea a configurarne l’elemento soggettivo, da parte del \\Mejri\ si sostiene che tali argomentazioni difensive sono state completamente trascurate dalla Corte territoriale, che si è limitata ad affermare, genericamente, che il legame esistente tra un fornitore pressochè esclusivo di un’area di mercato, come \Jelassi Adel\, ed i referenti delle singole reti di spaccio, ben può qualificarsi come vincolo associativo, senza considerare però che il \Jelassi\ non era l’unica fonte di approvvigionamento per esso ricorrente, rifornendosi egli, in precedenza, come si ricava anche dalla sentenza che ha definito in primo grado il giudizio "pisano", presso alcuni fornitori albanesi, e che soltanto quando costoro erano venuti a mancare, esso imputato si era rivolto al \Rezguni\, il quale, a sua volta, si riforniva dal \Jelassi\, senza però che venisse concluso tra i predetti imputati alcun accordo stabile, alcun legame associativo, come dimostrato, del resto, dalla reciproca diffidenza e dagli aspri rimproveri rivolti dal ricorrente al \Jelassi\, desumibili dalle intercettazioni disposte nell’ambito del processo "pisano", in occasione di una ritardata consegna di sostanza stupefacente che il coimputato \Adel\ pretendeva gli venisse pagata in anticipo.

7.2.1. – Il motivo è infondato. Anche per il ricorso del \\Mejri\, valgono infatti le considerazioni svolte con riferimento alle non dissimili argomentazioni difensive prospettate nell’interesse del \Dridi Ramzi\, il quale, come il ricorrente, ha fatto parte anche lui del così detto "gruppo pisano", essendosi approvvigionato di sostanza stupefacente da \Adel Jelassi\, almeno sino al luglio 2007.

In particolare non è superfluo qui rilevare come le deduzioni svolte in ricorso – per altro totalmente ripetitive delle argomentazioni svolte nell’atto di appello -dirette a contestare "l’operare sinergico" del così detto "gruppo pisano" e l’effettiva appartenenza allo stesso del \\Mejri\, si soffermano pressochè esclusivamente sulla fase conclusiva del rapporto di detto gruppo con \Jelassi Adel\, ricollegabile alla contestazione della qualità dello stupefacente fornito nel (omissis), enfatizzando il preteso clima di "reciproca diffidenza" che avrebbe caratterizzato da ultimo il rapporto tra il ricorrente ed \Adel\, completamente obliterando "i rapporti pressochè quotidiani" intrattenuti dal fornitore milanese con il gruppo pisano, "le linee di credito aperte", elementi plausibilmente valutati dai giudici di merito, come dimostrativi "di una solidità di rapporti", e ritenuti "tali da non potersi certamente definire occasionali" ma piuttosto "sintomatici di un progetto criminale trascendente rispetto ai singoli episodi e destinato a protarsi per un tempo indeterminato".

Dalle considerazioni sin qui svolte discende, in conclusione, che nella sentenza impugnata non può quindi ravvisarsi nè una errata applicazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, comma 2, nè una manifesta illogicità della motivazione ai sensi dell’art. 606 c.p.p., lett. e).

7.3. – Il rigetto del ricorso proposto da \Mejri Zouhaier\ comporta le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p., in ordine alla spese del presente procedimento.

8. – L’impugnazione proposta da \\Ben Sassi Faouzi Ben Tijani\. 8.1. – \\Ben Sassi Faouzi Ben Tijani\, con la sentenza di appello – che ha riformato in parte qua, quella di primo grado, che aveva ritenuto l’imputato colpevole del reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74, capo 1) della rubrica – è stato condannato, ferma la concessione delle attenuanti generiche, alla pena complessiva di anni 6 di reclusione, siccome colpevole del delitto di cui agli artt. 81 cpv e 379 c.p. in relazione al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, così riqualificata l’originaria imputazione.

La Corte territoriale, infatti, per un verso, ha ritenuto che \\Ben Sassi Faouzi\ non può rispondere del reato associativo nemmeno a titolo di concorso, non essendovi prova alcuna che l’imputato conoscesse la struttura operativa posta in essere dall’amico \Jelassi Adel\, per non averla mai praticata, nè prima, quando funzionava a pieno regime, nè dopo, quando, a partire dal gennaio 2008, aveva ripreso ad operare; per l’altro, ha ritenuto che le intercettazioni che lo riguardavano, attestassero che l’imputato aveva detenuto per conto del coimputato la somma di Euro 64.000,00 con piena consapevolezza dell’illecita provenienza della somma in questione, e di aiutare quindi con la propria condotta l’amico \Adel\ ad assicurarsi il provento dei suoi illeciti.

8.2. – Nel ricorso proposto dal difensore di \\Ben Sassi Faouzi Ben Tijani\, sono enunciati due motivi d’impugnazione.

8.2.1 – Con il primo, si chiede l’annullamento della sentenza di condanna per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 379 c.p..

Riproposto in ricorso il contenuto dell’originaria contestazione mossa all’imputato – di aver partecipato all’associazione per delinquere finalizzata al traffico illegale di sostanze stupefacenti, occupandosi, tra il (omissis), di recuperare i crediti vantati dall’associazione per le forniture di stupefacente effettuate alle reti operanti in Toscana e custodendo il denaro così conseguito – e ricordato che i giudici di appello, mentre hanno riconosciuto che l’imputato non era a conoscenza che l’amico \Jelassi Adel\ dirigesse e coordinasse un sodalizio strutturalmente dedito al commercio di ingenti quantitativi di sostanza stupefacente, hanno però ritenuto che lo stesso fosse consapevole della provenienza illecita della somma affidatagli in custodia dallo \Jalessi\ – da parte del ricorrente si contesta che gli elementi posti dai giudici di appello a fondamento di tale asserzione, abbiano effettiva valenza dimostrativa di una siffatta consapevolezza.

In particolare quanto al primo di tali elementi – l’utilizzo di un linguaggio criptico ("si so come funziona"; "vado prima da quello, poi da quell’altro") – da parte del ricorrente si sostiene che quelle pronunciate nelle conversazioni intercettate sono espressioni qualificabili come generiche, in nessun caso interpretabili come "rivelatrici di consapevolezza dell’origine delittuosa del denaro".

Ed invero ad escludere la sussistenza dell’elemento soggettivo, concorrono anche le dichiarazioni rese dall’imputato in sede d’interrogatorio nelle quali si precisava come l’interessamento a favore dell’\Adel\ trovasse una logica spiegazione nella convinzione di aver aiutato un connazionale, amico d’infanzia, rincontrato a distanza di anni in Italia. Anche il secondo degli elementi valorizzati dai giudici di appello – l’utilizzo di un Phone Center per comunicare con \Adel\ – si risolve secondo il ricorrente in una indicazione incongrua, dal momento che il ricorso ad una "particolare cautela" nelle comunicazioni risulta circoscritto ad un unico episodio; circostanza questa da ritenersi quanto meno insolita ove si affermi che l’imputato era consapevole della provenienza delittuosa del denaro, giacchè in tal caso il maggior numero dei colloqui avuti con il \Jelassi\ si sarebbe dovuto svolgere attraverso utenze non riferibili all’imputato.

Anche il terzo degli elementi valorizzati dai giudici di appello – la conoscenza da parte dell’imputato delle modalità con cui svolgere attività di recupero crediti – si rivela, secondo il ricorrente, un dato assolutamente "neutro", ove si consideri il numero limitato degli interventi svolti dal \\Ben Sassi\ (tre) e che esercitando l’imputato un’attività in proprio, è del tutto comprensibile che fosse a conoscenza delle tecniche necessarie per ottenere il pagamento di quanto dovuto dai propri debitori. Se a ciò si aggiunge che è lo stesso coimputato \Jelassi Adel\ a definire l’imputato, nel corso di una conversazione intercettata, come una persona retta, in alcun modo dedita al crimine, del tutto indimostrata risulta, in effetti, l’esistenza dell’elemento soggettivo del delitto di favoreggiamento.

8.2.1. – Il motivo, va rigettato. Al riguardo giova premettere che questa Corte ha da tempo chiarito, in tema di vizi della motivazione, che "il controllo di legittimità …non deve stabilire se la decisione di merito proponga effettivamente la migliore possibile ricostruzione dei fatti, nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se tale giustificazione sia compatibile …. con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento" (in tal senso, ex multis, Sez. 5, Sentenza n. 1004 del 31/1/2000, Rv.

215745). Orbene, applicando tali principi al caso in esame, ed acclarato che il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all’affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti (così Cass., Sez. U, Sentenza n. 930 del 29/01/1996, Rv.

203428), è agevole rilevare come nessun profilo di illegittimità è fondatamente ravvisabile nella decisione impugnata, avendo la Corte territoriale fornito esauriente e logica spiegazione delle ragioni per cui doveva ritenersi raggiunta adeguata prova circa la consapevolezza da parte del \\Ben Sassi\ della provenienza delittuosa del denaro da lui riscosso per conto di \Adel Jelassi\, deponendo univocamente in tal senso l’adozione di un linguaggio criptico per comunicare con \Adel\, il ricorso a particolari cautele nei contatti con il predetto, l’invito rivoltogli "a cancellare il suo numero", la ripetuta disponibilità "a nominargli un avvocato", risolvendosi in definitiva le prospettazioni difensive secondo cui la condotta dell’imputato andava in realtà interpretata come una semplice manifestazione di aiuto e solidarietà nei confronti di un vecchio amico e connazionale, non indicativa, di per sè, di un’effettiva consapevolezza della natura "illecita" del credito da riscuotere, in mere asserzioni che non superano la soglia di una ricostruzione alternativa e meramente congetturale.

8.2.2 – Con il secondo motivo, da parte del ricorrente si chiede invece l’annullamento della sentenza impugnata per inosservanza o erronea applicazione della legge penale, con riferimento all’art. 133 c.p.. Evidenziato in ricorso che i giudici di appello hanno ritenuto di considerare quale pena base quella edittale massima, a ragione sia dell’estrema gravità dei fatti e della reiterazione delle condotte, sia anche del negativo "profilo dell’imputato" redatto dagli operanti, nel quale si evidenzia che il \\Ben Sassi\ nel 1997 fu oggetto di indagini della Guardia di Finanza per operazioni bancarie sospette e della circostanza che lo stesso era imputato anche per aver cercato di favorire la fuga all’estero del \Jelassi\, tale decisione viene critica osservando, per un verso, che le indagini della Guardia di Finanza non si sono concretizzate in una denuncia per fatti penalmente rilevanti e che l’imputato è tuttora incensurato, essendo ancora sub judice e comunque estranea al presente giudizio la condotta relativa al tentativo di fuga del \Jelassi\. 8.2.2.1 – Il motivo è fondato, nei termini meglio precisati in prosieguo. Al riguardo va anzitutto precisato come rappresenta principio assolutamente pacifico nella giurisprudenza di questa Corte quello secondo cui "in tema di determinazione della pena, quanto più il giudice intenda discostarsi dal minimo edittale, tanto più ha il dovere di dare ragione del corretto esercizio del proprio potere discrezionale, indicando specificamente, fra i criteri oggettivi e soggettivi enunciati dall’art. 133 c.p., quelli ritenuti rilevanti ai fini di tale giudizio" (in termini, ex multis, Sez. 6, Sentenza n. 35346 del 12/06/2008, dep. il 15/09/2008 Rv. 241189, imp. Bonarrigo).

Orbene, nel caso in esame, la Corte territoriale ha motivato la propria scelta di determinare la pena base da infliggere all’imputato nel massimo edittale (anni cinque di reclusione), a ragione, essenzialmente: (a) di una valutazione di "estrema gravità" dei fatti addebitati al \\Ben Sassi\, quale desumibile dalla "natura del reato principale" e dalla "reiterazione" della condotta; (b) dell’ulteriore rilievo "che l’imputato non sembra nuovo ad operazioni siffatte", essendo egli stato assoggettato ad indagini da parte della Guardia di Finanza, "per operazioni bancarie sospette comportanti versamento di contanti ed invio di bonifici in Tunisia".

Ciò posto, ritiene il collegio che tale apparato argomentativo presenta in effetti delle rilevanti insufficienze motivazionali.

Se pure, infatti, può condividersi la valutazione di gravità del "reato principale", non risultano però adeguatamente chiarite, nella sentenza impugnata, le ragioni per cui, mentre per il reato presupposto non è stata inflitta la pena massima edittale – tanto portando a ritenere che anche il giudizio di gravità ad esso relativo non è stato formulato in termini assoluti -, il massimo della pena è stato irrogato, invece, per il reato derivato. E neppure risultano, peraltro, esplicitate le ragioni per le quali tale dato negativo debba comportare necessariamente l’applicazione del massimo edittale, non potendo costituire di per sè ragione sufficiente, al riguardo, il solo riferimento alla "reiterazione della condotta", trattandosi di argomento, questo, che oltre a mostrare di non considerare in alcun modo la circostanza che il "mandato" conferito dal \Jelassi\ all’imputato era comunque unitario, riguardando esso, sostanzialmente, il "recupero" di tutti i "crediti" che il predetto aveva maturato a ragione dell’esercizio della lucrosa attività delittuosa di "intermediazione" nella cessione di sostanze stupefacenti, non sembra neppure apprezzare, d’altro canto, che tale profilo della condotta dell’imputato ha già trovato una sua autonoma e rilevante sanzione, nel considerevole aumento della già elevata pena base per effetto della continuazione, quantificato in anni uno di reclusione per ciascuno degli ulteriori due episodi contestati.

Incongruo si rileva, d’altro canto, anche il riferimento, in termini dubitativi (non sembra nuovo), ad una pregressa attività di favoreggiamento reale nella quale sarebbe stato coinvolto il \\Ben Sassi\, e ciò in quanto tale riferimento risulta ricollegato dai giudici di appello ad un’attività investigativa risalente nel tempo (1997) e di cui incomprensibilmente non si specifica neppure l’esito, malgrado che nella stessa sentenza impugnata si dia atto della incensuratezza dell’imputato.

In presenza di tali rilevanti incongruenze, s’impone allora l’annullamento della sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano.

9. – L’impugnazione proposta da \\Bartolozzi Barbara Rita\. 9.1. – \\Bartolozzi Barbara Rita\, con la sentenza di primo grado – confermata da quella di appello, relativamente a tale statuizione – è stata dichiarata colpevole del delitto, previsto e punito dagli artt. 110 e 81 cpv. c.p., D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, – capo 27) della rubrica – a lei contestato perchè, in concorso con \Fadhel @DALLAL\ e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, illegalmente detenevano nella loro abitazione e vendevano a terzi, quantità imprecisate di marjuana ed hashish, in (omissis), in epoca collocabile tra la metà e la fine del (omissis) – e condannata, concesse le attenuanti generiche, alla pena di anni 2 e mesi 8 di reclusione ed Euro 12.000,00 di multa.

9.2. – Nel ricorso, proposto dall’imputata personalmente, sono enunciati due motivi d’impugnazione.

9.2.1 – Con tali motivi, tra loro strettamente collegati e che ben possono esaminarsi congiuntamente, si chiede l’annullamento della sentenza di condanna per violazione dell’art. 606 c.p.p., lett. b) in relazione sia alla mancata assoluzione dell’imputata, ai sensi dell’art. 530 c.p.p.; sia alla mancata applicazione dell’attenuante di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5.

L’affermazione di penale responsabilità dell’imputata – si sostiene in ricorso – discende non già da "una seria e meticolosa analisi delle risultanze processuali", ma risulta influenzata da una sorta di preconcetto, nel senso che, essendo la \\Bartolozzi\ la moglie convivente di \Fadhel @Dallal\, secondo i giudici di merito la stessa, non solo "non poteva non essere consapevole degli illeciti traffici gestiti dal marito", ma doveva essere necessariamente sua complice nello smercio di sostanza stupefacente.

A sostegno della richiesta di annullamento della sentenza impugnata nel ricorso si deduce, in particolare: a) che l’imputata non è mai stata colta in flagranza di reato; b) a suo carico non vi sono sequestri di droga; c) che non vi sono conversazioni telefoniche dalle quali risultino contatti con presunti clienti e che comprovino il contestato spaccio casalingo e l’implicazione dell’imputata in traffici illeciti o anche solo la sua frequentazione con soggetti dediti a tali traffici. Dai dialoghi intercorsi con il marito \\Dallal Fadhel\ oggetto di captazione, si sostiene ancora in ricorso – si può dedurre, al più, solamente un certo grado di conoscenza delle abitudini, forse non proprio ortodosse, del proprio compagno.

Ma tale "posizione di vicinanza" non è da sola sufficiente a fondare la pronuncia di condanna.

Il contenuto di tali dialoghi, inoltre, deve essere interpretato alla luce di quanto riferito dalla imputata in ordine alla consuetudine del signor \\Fadhel\ di ingigantire tutto ciò che lo riguarda, sia arricchendo il proprio racconto con esaltazioni e magnificenze, sia inserendo all’interno dello stesso vere e proprie menzogne che egli raccontava per guadagnare stima ed ammirazione nel proprio interlocutore, consuetudine che, nota all’imputata, ne condizionava inevitabilmente l’approccio all’ascolto.

Solo una delle conversazioni captate, si osserva, riguardava specificamente tali asseriti e non provati, presunti traffici. E1 quella intercorsa fra \\Dallal\ ed un uomo marocchino, mai identificato, svoltasi all’interno di un’autovettura. Nel corso di tale conversazione il marito della \\Bartolozzi\ si vantava del fatto che, grazie alle amiche della propria moglie egli riuscirebbe ad ottenere un guadagno di circa Euro 700/800 mensili legato alla vendita alle stesse di sostanza stupefacente. Ad avviso della ricorrente nessun elemento probatorio riscontra però tali affermazioni del marito, che si configurano, pertanto, solamente come degli "isolati proclami di potenza economica" ben spiegabili nell’ambito di quel quadro di delirio di onnipotenza intessuto quotidianamente dal \\Dallal\. In ogni caso le affermazioni del \\Dallal\, si osserva, non provano la responsabilità penale della \\Bartolozzi\, posto che l’uomo, nelle sue esternazioni, riferisce di un guadagno che egli stesso, e non altri, ricaverebbe dall’illecito traffico. Esse inoltre sono rimaste generiche e prive di riscontri posto che nessuna indagine risulta esperita dagli inquirenti, nè per individuare le presunte amiche acquirenti, nè per verificare se le stesse si rifornissero effettivamente di sostanze stupefacenti da \\Dallal\ per mezzo dell’intermediazione della \\Bartolozzi\. Nessun valore avrebbero poi "le confuse e poco comprensibili se non addirittura fuorvianti" ammissioni dell’imputata, evidentemente "estorte" dall’interrogante, nel tentativo di ottenere una confessione a tutti i costi da una donna che si trovava in uno stato emotivo gravemente compromesso e che appariva unicamente mossa dal desiderio e bisogno di ritornare dalle proprie bambine tanto da ripetere più volte, in sede d’interrogatorio, "dico tutto quel che volete". Secondo la ricorrente, quindi, l’ammissione del proprio interessamento nella vendita di stupefacente da parte del \\Dallal\ alle amiche, lungi dall’essere quella piena confessione che i giudici del merito pare vogliano riconoscerle, non è altro che un disperato tentativo di lusingare il proprio interlocutore con il solo fine di ottenere la possibilità – poi effettivamente guadagnata – di tornare dalle proprie bimbe.

In realtà l’imputata ebbe "conoscenza postuma" dell’acquisto operato da parte di una propria amica di una modica quantità di fumo dal \\Dallal\; acquisto perfezionato non già per un suo interessamento, ma unicamente perchè la propria amica ebbe modo di testare personalmente la qualità dello stupefacente detenuto da \\Dallal\, in ragione di una "canna" fumata tutti insieme. Così ridimensionati i fatti, non altrimenti specificati in relazione a tipo, quantità, qualità dello stupefacente trattato, essi integrano, secondo la ricorrente, la fattispecie attenuata di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5 illegittimamente esclusa dai giudici di appello, ove si consideri il principio del favor rei, "l’assoluta genericità dei mezzi adoperati", le "modalità" e le "circostanze dell’azione delittuosa", e non ultimo il dato, non adeguatamente apprezzato nella sentenza impugnata, che in occasione dell’arresto della ricorrente e del marito, venne sequestrata una modesta quantità di sostanza stupefacente (95 grammi, tra hashish e marijuana).

9.2.1 – Il ricorso proposto nell’interesse della \\Bartolozzi\ è basato su motivi infondati, e va per ciò rigettato.

Con gli stessi non si denunciano, infatti, reali vizi di legittimità, ma si censurano, sostanzialmente, le valutazioni e gli apprezzamenti probatori operati dai giudici di merito ed espressi in sentenza con una giustificazione che risulta completa, nonchè fondata su argomentazioni giuridicamente corrette, coerenti, ed indenni da vizi logici, che sulla scorta di plurime intercettazioni ambientali, integrate dall’esito della perquisizione domiciliare (rinvenimento di un panetto di hashish) e da significative ammissioni dell’imputata in sede d’interrogatorio in merito ad un suo intervento diretto in almeno tre occasioni nella vendita di sostanza stupefacente ad una sua amica – dichiarazioni, come evidenziato nella sentenza impugnata, rese "a domanda del difensore e dunque senza possibilità di negative suggestioni" – sono pervenuti alla conclusione dell’esistenza di un consapevole concorso della ricorrente nell’attività illecita svolta dal marito, In presenza di un percorso argomentativo – solo sommariamente illustrato in questa sede – che si rivela del tutto coerente ed aderente a specifiche risultanze processuali di cui non è provato alcun verificabile travisamento, questo Collegio non può esimersi dal rilevare che per univoca giurisprudenza, già menzionata in sede di trattazione degli altri ricorsi, eccede dalla competenza della Corte di Cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito. Quanto poi alle argomentazioni sviluppate in ricorso relativamente all’esclusione dell’ipotesi attenuata prevista dal D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, è sufficiente precisare che le stesse si risolvono in una generica confutazione di un percorso motivazionale assolutamente logico ed aderente alle risultanze processuali, che ha valorizzato "la consistenza del fatto detentivo" e l’acclarata attività di spaccio alle amiche, rispetto al quale tutti i rilievi critici prospettati in ricorso, non superano la soglia della ricostruzione alternativa o meramente congetturale, anche perchè, come già osservato in precedenza, in sede di esame di analoghe deduzioni di altri ricorrenti, le Sezioni Unite di questa Corte, hanno autorevolmente affermato che la circostanza attenuante speciale del fatto di lieve entità "può essere riconosciuta solo in ipotesi di minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio" (Sentenza n. 35737 del 24/06/2010, dep. il 5/10/2010 Rv. 247911, imp. Rico).

Il rigetto del ricorso comporta le conseguenze di cui all’art. 616 c.p.p. in ordine alla spese del presente procedimento.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata nei confronti di \\Ben Sassi Faouzi Ben Tljani\ limitatamente alla determinazione della pena, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra sezione della Corte di Appello di Milano; rigetta nel resto il ricorso di \\Ben Sassi\. Rigetta i ricorsi degli altri ricorrenti che condanna al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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