Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-01-2012, n. 1273 Indennità di missione o trasferta

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Bari, con sentenza del 7.5.2009, rigettava il ricorso d’appello in riassunzione proposto dai lavoratori, confermando la sentenza appellata, che aveva respinto la domanda dei predetti, intesa ad ottenere il riconoscimento del loro diritto all’indennità di trasferta, negata dall’azienda a seguito del mutamento della residenza di servizio operata da parte della Gestione Commissariale Governativa, a seguito di accordi sindacali del 10.2.1998, che avevano individuato la residenza di servizio nella zona di assegnazione e non più nella stazione. Tale decisione era stata riformata dalla Corte di Appello di Lecce, la quale riteneva l’illegittimità del verbale di riunione sindacale nella parte in cui era stata indicata come residenza, ai fini della trasferta, per gli operai addetti alla manutenzione ordinaria e straordinaria degli impianti elettrici delle linee ferroviarie, la zona di assegnazione, sul rilievo che il mutamento era avvenuto senza che mutasse l’organizzazione strutturale e che l’accordo sindacale si poneva in contrasto con l’art. 20/A del c.c.n.l., che individuava una località limitata come residenza. Tuttavia, la Corte di Cassazione, con sentenza 11019/2007, accoglieva il ricorso delle Ferrovie, rilevando che alle parti sociali era consentito prorogare l’efficacia dei contratti collettivi, modificare anche in senso peggiorativo i pregressi inquadramenti e retribuzioni, salvi i diritti quesiti; che il giudice del gravame non aveva individuato la norma tassativa, legale o convenzionale, da cui sarebbe derivato il diritto acquisito ad essere assegnati ad una stazione e, quindi, la nullità del successivo accordo peggiorativo; che la Corte territoriale non aveva spiegato le ragioni per cui la individuazione della residenza non sarebbe rientrata nell’ambito della delega, che consentiva la specificazione aziendale degli elementi individuativi della residenza e che non poteva il contratto aziendale ritenersi contrastante con la contrattazione nazionale. I lavoratori riassumevano il giudizio e, costituitasi la società nel relativo giudizio di gravame, la Corte di Appello di Bari decideva la causa nei termini anzidetti, favorevoli alla società, considerando che, dall’esame dell’art. 20/A del CCNL, emergeva, dal riferimento alla tratta, che la residenza del lavoratore potesse essere svincolata da una località specifica, specie quando l’attività non si svolgesse abitualmente nello stesso luogo. Riteneva, pertanto, che l’individuazione della residenza nella zona di assegnazione effettuata nella fattispecie in esame – in cui la sezione di Lecce era stata ripartita in tre unità ed ogni unità in due zone, quindi complessivamente in sei zone, – non costituisse violazione della contrattazione nazionale, in quanto da questa esplicitamente prevista ed autorizzata. Non esisteva, poi, alcun diritto quesito, in quanto la residenza era uno solo dei criteri utili alla determinazione dell’indennità di trasferta e, peraltro, non poteva configurarsi neanche un uso aziendale nella individuazione della residenza di servizio nella stazione di assegnazione, atteso che il significato dato per un certo periodo alla nozione di residenza di servizio non poteva tramutarsi in uno specifico intento negoziale di regolare anche per il futuro il relativo aspetto del rapporto lavorativo, perchè ciò avrebbe inciso sul potere dell’imprenditore di organizzare la propria attività in relazione alle specifiche esigenze, in ciò legittimato proprio da una clausola di riserva del c.c.n.l. che consentiva alla contrattazione aziendale di incidere sul punto. Neanche era configurabile un uso aziendale per la insussistenza di un animus, ossia del convincimento di conservare una data condotta continuativamente a tempo indeterminato.

Per la cassazione di tale sentenza ricorrono i lavoratori con quattro motivi.

Resiste, con controricorso, la S.r.l. Ferrovie del Sud Est e Servizi Automobilistici, che ha anche depositato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Con il primo motivo, i ricorrenti denunciano la violazione e la falsa applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale (artt. 1362 e ss. c.c.) con riguardo all’art. 20/A del CCNL degli Autoferrotranvieri del 23.7.1976, la violazione e falsa applicazione del R.D. 8 gennaio 1931, n. 148, art. 1, all. A), la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., nonchè il vizio di contraddittoria motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Ritengono che la interpretazione fornita dalla Corte territoriale dell’art. 20/A del CCNL non solo sia in contrasto con il significato della parola "specificazione" e non esamini se "la località" rientri tra gli "elementi" indicati nella stessa clausola, ma sia censurabile per non avere esaminato il contenuto della prima parte della norma, nella quale le Parti sociali avevano specificamente definito il concetto di residenza, e per non avere considerato le prove espletate, che avevano accertato che le condizioni tecniche degli impianti non erano mutate rispetto al passato. Assumono, poi, l’illogicità della motivazione, osservando, da un lato, che l’art. 20 non abbia reso immutabili i criteri di individuazione delle località che sottendono al concetto di residenza, consentendone la specificazione in sede aziendale e, dall’altro, che era risultato confermato che non era mai intervenuto un cambiamento di condizioni tecniche degli impianti, ma solo una nuova organizzazione del lavoro.

Formulano, all’esito della parte argomentativa, quesito ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., con il quale domandano se la zona, cioè un territorio di ampia dimensione, comprendente diversi stazioni, uffici e tratte, possa essere o meno considerata "residenza di servizio", ai sensi dell’art. 20/A, n. 3, c.c.n.l. del 1976, che disciplina la nozione di residenza di servizio, e se le parti sociali avevano o meno l’obbligo di specificare, oltre alla "zona di lavoro", anche "la località" in cui ha "sede" la "zona medesima" e di considerare la località "residenza di servizio".

Con il secondo motivo, i lavoratori lamentano la violazione e la falsa applicazione dell’art. 20/A del c.c.n.l. 23.7.1976, la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. ed il vizio di omessa e insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 4 e 5, assumendo che non sia stata mai stata realizzata una nuova e diversa organizzazione lavorativa e che, comunque, la nuova organizzazione non aveva determinato cambiamenti al tipo di lavoro, che fosse diverso da quello descritto nel ricorso introduttivo e non contestato dalla società, la quale neanche aveva riferito alcunchè circa le eventuali nuove condizioni tecniche degli impianti. A seguito di richiesta di precisazioni da parte del giudice del gravame, essi lavoratori avevano riferito che non erano intervenute modifiche strutturali nell’organizzazione dell’impresa, nè mutamenti di mansioni. Con specifico quesito, chiedono affermarsi che non si è tenuto conto dell’attività istruttoria con riguardo alla ristrutturazione organizzativa ed alle condizioni tecniche dell’impianto.

Coni il terzo motivo, i ricorrenti deducono la violazione e la falsa applicazione del R.D. n. 148 del 1931, art. 1, all. A), la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione, all’art. 360 c.p.c., nn. 3 4 5, nonchè il vizio di motivazione e di violazione di legge, evidenziando la mancanza di atto scritto, R.D. n. 148 del 1931, ex art. 1, all. A, dei provvedimenti adottati dal datore di lavoro nell’ambito dei suoi poteri di iniziativa, tra i quali l’assegnazione a nuova sede, con modifica spaziale della residenza di servizio, non più riferita alla Stazione ma alla Zona, e la necessità di emanare a tal fine un ordine di servizio.

Domandano, infine, se ricorre il caso di vizio di motivazione in quanto la Corte di Appello non ha preso in esame il motivo sopra riportato, visto che le questioni di fatto prospettate sono decisive ai fini dell’accertamento dei fatti sui quali si fonda la domanda e che la questione è fondata.

Infine, i lavoratori si dolgono della violazione e falsa applicazione delle norme di ermeneutica contrattuale ( artt. 1362 e 1362 c.c.) con riguardo all’art. 20/A del c.c.n.l., della violazione e falsa applicazione degli artt. 1340 e 1374 c.c. e del vizio di motivazione in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5, assumendo con riguardo all’uso aziendale che il comportamento adottato era spontaneo e non in esecuzione di un obbligo e che l’uso si inserisce, ai sensi dell’art. 1340 c.c., non già nel contratto collettivo, ma in quello individuale, restando insensibile ad eventuali pattuizioni peggiorative.

Il primo motivo ed il secondo motivo di ricorso, con i quali si censura l’interpretazione dell’art. 20/A del c.c.n.l. del 23.7.1976, sono improcedibili in quanto con gli stessi si chiede l’interpretazione diretta da parte di questa Corte di norma di accordo collettivo nazionale, del quale è omessa la produzione in dispregio di quanto sancito e prescritto, per i ricorsi relativi a sentenze pubblicate dopo l’entrata in vigore della L. n. 40 del 2006, dall’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4 in relazione al deposito di atti processuali, documenti, contratti collettivi o accordi collettivi su cui il ricorso si fonda (cfr., tra le altre, Cass 2 luglio 2009 n. 15495). L’art. 369 c.p.c., comma 2, n. 4, nella parte in cui onera il ricorrente (principale od incidentale), a pena di improcedibilità del ricorso, di depositare i contratti od accordi collettivi di diritto privato sui quali il ricorso si fonda, va interpretato nel senso che, ove il ricorrente impugni, con ricorso immediato per cassazione ai sensi dell’art. 420 bis c.p.c., comma 2, la sentenza che abbia deciso in via pregiudiziale una questione concernente l’efficacia, la validità o l’interpretazione delle clausole di un contratto od accordo collettivo nazionale, ovvero denunci, con ricorso ordinario, la violazione o falsa applicazione di norme dei contratti ed accordi collettivi nazionali di lavoro ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, (nel testo sostituito dal D.Lgs. n. 40 del 2006, art. 2), il deposito suddetto deve avere ad oggetto non solo l’estratto recante le singole disposizioni collettive invocate nel ricorso, ma l’integrale testo del contratto od accordo collettivo di livello nazionale contenente tali disposizioni, rispondendo tale adempimento alla funzione nomofilattica assegnata alla Corte di cassazione nell’esercizio del sindacato di legittimità sull’interpretazione della contrattazione collettiva di livello nazionale (cfr., in tale senso, Cass., s. u., 23 febbraio 2010 n. 20075, e, conforme, Cass. 15 ottobre 2010 n. 21358).

Anche le ulteriori questioni prospettate con i suddetti motivi o delineano analoghi profili interpretativi della norma contrattuale in relazione alla individuazione delle località che sottendono il concetto di residenza come individuato dalla norma, o rifluiscono in censure che sollecitano una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, tenuto conto del principio, ripetutamente affermato da questa Corte, che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4 che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell’"iter" formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che le doglianze abbiano evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contraddittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, e peraltro anche il quesito formulato a conclusione del secondo motivo, risulta generico e come tale inammissibile, oltre a non contenere alcuna indicazione del fatto controverso e decisivo con idonea prospettazione del momento di sintesi che consenta di ritenere sussistente il vizio denunziato ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5.

Quanto alla censura contenuta nel terzo motivo di ricorso, oltre a rilevarsene l’inconferenza, riguardando la norma di cui al R.D. n. 148 del 1931, art. 1, all. A) provvedimenti che incidono sul rapporto di lavoro del singolo dipendente e non invece quelli che trovano fondamento in norme pattizie, il relativo quesito di rivela anch’esso inammissibile per la genericità della sua formulazione, che non individua l’errore di diritto pretesamente commesso dai giudici nel caso concreto esaminato.

Infine, il quarto motivo deve essere disatteso con riguardo alla censura riferita all’interpretazione dell’art. 20/A c.c.n.l. per le medesime argomentazioni sopra svolte in merito al mancato deposito del testo integrale del contratto e, quanto alla doglianza riferita all’uso aziendale ed alla sua immodificabilità ad opera di pattuizioni peggiorative, in considerazione di quanto espresso da questa Corte in relazione alla portata dello stesso. E’ stato affermato che la reiterazione costante e generalizzata di un comportamento favorevole del datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti che si traduca in trattamento economico o normativo di maggior favore rispetto a quello previsto dai contratti (individuali e collettivi) integra, di per sè, gli estremi dell’uso aziendale e che questo, in ragione della sua appartenenza al novero delle cosiddette fonti sociali – tra le quali vanno considerati sia i contratti collettivi, sia il regolamento d’azienda e che sono definite tali perchè, pur non costituendo espressione di funzione pubblica, neppure realizzano meri interessi individuali, in quanto dirette a conseguire un’uniforme disciplina dei rapporti con riferimento alla collettività impersonale dei lavoratori di un’azienda – agisce sul piano dei singoli rapporti individuali allo stesso modo e con la stessa efficacia di un contratto collettivo aziendale. Ne consegue che ove la modifica "in melius" del trattamento dovuto ai lavoratori trovi origine nell’uso aziendale, ad essa non si applica nè l’art. 1340 cod. civ. – che postula la volontà, tacita, delle parti di inserire l’uso o di escluderlo – nè, in generale, la disciplina civilistica sui contratti – con esclusione, quindi, di un’indagine sulla volontà del datore di lavoro e dei sindacati – nè, comunque, l’art. 2077 c.c., comma 2, con la conseguente legittimazione delle fonti collettive (nazionali e aziendali) di disporre una modifica "in peius" del trattamento in tal modo attribuito (Cass. 8342 dell’8.4.2010).

Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso deve essere complessivamente respinto e le spese del presente giudizio, per il principio della soccombenza vanno poste a carico dei lavoratori nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate, in favore della controricorrente, in Euro 90,00 per esborsi, Euro 5000,00 per onorario, oltre spese generali,IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 21 dicembre 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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