Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-01-2012, n. 1269 Licenziamento

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 499 del 2005 il Giudice del lavoro del Tribunale di Grosseto, ritenuta l’illegittimità del licenziamento intimato dalla PIOVERA s.p.a. a C.R., ma esclusa la possibilità di disporre la reintegra sul posto di lavoro, condannava la società a risarcire il danno derivato, liquidato in via equitativa in Euro 30.000,00 in moneta attuale, oltre alla somma di Euro 4.112,56 esposta in ricorso e ritenuta provata attraverso l’istruttoria testimoniale, per la remunerazione di lavoro straordinario. Con la medesima sentenza venivano respinte: l’ulteriore domanda della ricorrente di differenze retributive per Euro 2.328,51 in relazione ad una iniziale parte del rapporto non assicurata, relativa al periodo aprile-giugno 1998; le domande riconvenzionali della società aventi ad oggetto l’indennità di mancato preavviso e la richiesta di restituzione dell’importo di Euro 1.885,07, avendo la stessa convenuta riconosciuto di non aver corrisposto alcuna somma alla dipendente nel periodo aprile-giugno 1998; infine la domanda della ricorrente di condanna della convenuta al risarcimento danni ex art. 96 c.p.c..

La PIOVERA proponeva appello avverso la detta sentenza chiedendone la riforma con il rigetto integrale del ricorso di primo grado.

La C. resisteva al gravame e proponeva appello incidentale per sentir accogliere integralmente la domanda come originariamente introdotta.

La Corte d’Appello di Firenze, con sentenza depositata il 16-11-2009, in parziale accoglimento dell’appello principale condannava la società al pagamento in favore della C., a titolo di lavoro straordinario, della minor somma di Euro 1.140,50, oltre rivalutazione e interessi, e in parziale accoglimento dell’appello incidentale condannava la società alla reintegrazione della C. nel posto di lavoro ed al pagamento in suo favore, a titolo risarcitorio L. n. 300 del 1970, ex art. 18 della maggior somma di Euro 105.713,67 oltre rivalutazione e interessi, rigettando nel resto entrambi gli appelli.

In particolare, dopo aver evidenziato il "procedere ondivago" della società (tra la tesi delle dimissioni e quella del licenziamento) e dopo aver escluso che nella fattispecie si fosse trattato di dimissioni, per la mancanza di un atto scritto (richiesto dal c.c.n.l.) e per il fatto che era stata la società che unilateralmente aveva "inteso assegnare il significato dimissionario ad un contegno della controparte" mentre la lavoratrice comunque aveva reagito escludendo il formarsi di alcuna ipotesi di tacita consensualità, la Corte territoriale considerava la lettera della società dell’1-4-2000 come licenziamento disciplinare, in quanto intimato, per "reazione ad un contegno valutato lesivo del rapporto fiduciario".

Rilevata, quindi, l’assenza della procedura stabilita dalla L. n. 300 del 1970, art. 7 e la conseguente applicabilità dell’art. 18 della stessa legge, la Corte ordinava la reintegra della lavoratrice nel posto di lavoro e condannava la società al risarcimento del danno determinato in base alla c.t.u. e al relativo supplemento ("detratto l’aliunde perceptum e il trattamento di fine rapporto").

Accertata, poi, una media giornaliera di venti minuti circa di lavoro straordinario, in considerazione della pausa pranzo di un’ora, non contestata, sulla base dei calcoli effettuati dal c.t.u. anche sulle effettive presenze riscontrate documentalmente, la Corte di merito determinava al riguardo una differenza retributiva di Euro 1.140,50 (in luogo della maggior somma accertata in primo grado).

La Corte territoriale, infine, confermava il rigetto delle domande riconvenzionali della società.

Per la cassazione di tale sentenza la PIOVERA s.p.a. ha proposto ricorso con otto motivi.

La C. ha resistito con controricorso ed ha proposto ricorso incidentale con un unico motivo.

La società, infine, ha depositato memoria ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Preliminarmente vanno riuniti i ricorsi avverso la stessa sentenza ex art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo del ricorso principale, denunciando violazione delle norme sulla interpretazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro e degli artt. 99 e 112 c.p.c., la società dapprima, avverso la statuizione della esclusione delle dimissioni per mancanza di un atto scritto, deduce che la " C. con il comportamento tenuto sia in fase pre che endo processuale ha manifestato la volontà di proseguire la sua attività lavorativa per un soggetto giuridico diverso da quello che la aveva assunta" e poi lamenta una ultrapetizione da parte della Corte di merito, dovendo coordinarsi il principio della rilevabilità d’ufficio della nullità di un contratto con il principio della domanda e non avendo la C. "impugnato il licenziamento assumendo la nullità del recesso".

Il motivo per la prima parte è del tutto generico e privo di autosufficienza, in quanto si lamenta una violazione delle norme interpretative dei contratti senza esplicitare di quali specifiche norme collettive sarebbe stata fornita una interpretazione non corretta dalla Corte di merito e senza indicare in che modo siano stati violati i criteri ermeneutici (e quali di questi specificamente).

Per la seconda parte il motivo risulta, oltre che parìmenti generico e privo di autosufficienza (per la mancanza di qualsiasi indicazione degli elementi fattuali condizionanti l’ambito di operatività della violazione della norma processuale denunciata, v. Cass. 28-7-2005 n. 15910, Cass. 4-4-2006 n. 7846). altresì inconferente rispetto al decisum, in quanto la sentenza impugnata non ha affermato la "nullità" del licenziamento, bensì la "illegittimità" dello stesso (vedi chiaramente la motivazione a pag. 8).

Con il secondo motivo, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, artt. 7 e 18, L. n. 604 del 1966, artt. 1, 2 e 3 e art. 2112 c.c. la ricorrente principale dapprima deduce che la lavoratrice "non ha provato il licenziamento, tanto meno quello disciplinare, mentre al contrario, la PIOVERA s.p.a. ha provato, e ha offerto di provare che si trattò di recesso ed in subordine di giusta causa o giustificato motivo oggettivo" e poi in particolare sviluppa la tesi principale delle dimissioni che sarebbero scaturite dal comportamento della C. e quella subordinata del licenziamento per giustificato motivo oggettivo.

Con il terzo motivo, denunciando violazione dell’art. 2112 c.c. e della L. n. 604 del 1966, art. 2, la società deduce che la C. non ha agito nei confronti della nuova titolare della gestione dell’albergo e neppure ha provato la esistenza di un collegamento tra imprese aventi in sostanza un unico centro di interessi, e sostiene che nella fattispecie si è trattato di un licenziamento per giustificato motivo oggettivo, con preventiva offerta di ricollocazione della lavoratrice, rifiutata dalla stessa.

Con il quarto motivo, denunciando violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, la società deduce la inapplicabilità della tutela reale nella fattispecie "sia in quanto si verte in tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo e non di licenziamento disciplinare, sia in quanto il soggetto contro cui è stato emanato l’ordine non è il legittimato passivo".

La ricorrente principale, "comunque" lamenta inoltre una ultrapetizione, in quanto la " C. ha impugnato il licenziamento ritenendolo illegittimo per violazione dell’art. 2112 c.c. e non della procedura disciplinare".

Con il quinto motivo, denunciando vizi di motivazione, la società ribadisce che la C. ha impugnato il licenziamento ritenendolo illegittimo per violazione dell’art. 2112 c.c. e non della procedura disciplinare, che fu la C. a recedere dal rapporto non avendo intenzione di trasferirsi, che comunque il recesso fu conseguenza della chiusura dell’unità produttiva di Orbetello, presso cui inammissibile risultava l’ordine di reintegra.

I detti motivi, dal secondo al quinto, che strettamente connessi ed in parte anche ripetitivi possono essere trattati congiuntamente, non possono essere accolti.

La tesi delle dimissioni in sostanza viene semplicemente reiterata dalla società senza neppure censurare specificamente quanto espressamente deciso dalla Corte di merito sul punto, sia in ordine alla mancanza del necessario atto scritto richiesto per la validità dell’atto, ex art. 163 del c.c.n.l. Turismo, sia in ordine alla irrilevanza del significato dimissionano unilateralmente attribuito dalla società (in violazione dell’obbligo della consensualità delle variazioni contrattuali) al contegno della controparte, la quale immediatamente "ha reagito escludendo il formarsi di alcuna ipotesi di tacita consensualità".

La tesi del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, della quale non vi è traccia nella sentenza impugnata, risulta nuova nel presente processo e come tale inammissibile.

Al riguardo questa Corte ha ripetutamele affermato che "nel giudizio di cassazione è preclusa alle parti la prospettazione di nuove questioni di diritto o nuovi temi di contestazione che postulino indagini ed accertamenti di fatto non compiuti dal giudice di merito, a meno che tali questioni o temi non abbiano formato oggetto di gravame o di tempestiva e rituale contestazione nel giudizio di appello" (v. Cass. 16-8-2004 n. 15950, Cass. 27-8-2003 n. 12571, Cass. 5-7-2002 n. 9812, Cass. 9-12-1999 n. 13819). Nel contempo è stato anche precisato che "nel caso in cui una determinata questione giuridica, che implichi un accertamento di fatto, non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, ha l’onere di allegare l’avvenuta deduzione della questione innanzi al giudice di merito, indicando altresì in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, così da permettere alla Corte di Cassazione di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa" (v. Cass. 15-2- 2003 n. 2331, Cass. 12-7-2005 n. 14590, 12-7-2005 n. 14599, Cass. 28- 7-2008 n. 20518).

Nulla avendo indicato al riguardo la ricorrente, la relativa censura non può che ritenersi inammissibile.

Del pari non può essere accolta la censura di ultrapetizione in ordine alla qualificazione del licenziamento come disciplinare e alla conseguente illegittimità dello stesso per la inosservanza della procedura di cui all’art. 7.

In primo luogo la questione viene sollevata dalla società in modo del tutto generico ed in via incidentale, attraverso la censura di vizio di motivazione e di violazione di norme di diritto sostanziale, non solo senza una denuncia formale di violazione dell’art. 112 c.p.c. ex art. 360 c.p.c., n. 4, ma anche senza una chiara ed autosufficiente esposizione dell’error in procedendo così indirettamente lamentato.

La censura, in ogni caso, neppure tiene conto della specifica decisione emessa dalla Corte di merito al riguardo.

La sentenza impugnata, infatti, dopo aver ricordato che era stata la stessa società appellante principale a dedurre, (subordinatamente alla tesi delle dimissioni) che "la condotta della lavoratrice concretava una grave insubordinazione che legittimava il recesso per g.c. essendo venuto meno il vincolo fiduciario" e che, sul punto, la C. aveva replicato deducendo la mancanza di una rituale contestazione dell’addebito e comunque la sproporzione del licenziamento, ha rilevato che il licenziamento intimato con la raccomandata del 1-4-2000 risultava "formulato come reazione ad un contegno valutato lesivo del rapporto fiduciario ("avendo voi ignoralo il nostro invito")", aggiungendo che tanto era stato affermato chiaramente dalla stessa società appellante nell’atto di gravame (vedi il testo dell’appello sul punto riportato a pag. 7 della sentenza).

Tale statuizione viene del tutto ignorata dalla società ricorrente, la quale, in sostanza, sul punto, si limita ad effettuare in questa sede un netto mutamento di rotta.

Infine neppure può essere accolta la censura rivolta contro l’applicazione della tutela reale nella fattispecie.

A parte la considerazione che, contrariamente a quanto sostenuto dalla ricorrente, quand’anche si fosse trattato di licenziamento per giustificato motivo oggettivo (la qual cosa non può affermarsi nella fattispecie per quanto sopra evidenziato) comunque sarebbe stata applicabile la tutela reale in caso di licenziamento illegittimo, neppure, poi, può ritenersi che la PIOVERA non sia al riguardo legittimata passiva.

Tale legittimazione, infatti, come ha rilevato la Corte di merito, comunque sussiste essendo all’uopo sufficiente aver dimostrato l’esistenza presso la datrice di lavoro del requisito dimensionale voluto dalla legge.

Con il sesto motivo, poi, la società lamenta un vizio di motivazione con riferimento alla valutazione dell’orario di lavoro svolto dalla C. come "cameriera ai piani", deducendo che alla luce delle risultanze della prova testimoniale "appare non condivisibile la decisione della Corte (di merito) in ordine alla liquidazione dello straordinario" e che comunque la eccedenza di orario emersa (20 minuti circa giornalieri) sarebbe stata compensata dal ridotto orario di lavoro osservato nei mesi estivi.

Il motivo risulta del tutto generico e privo di autosufficienza.

La società, infatti, da un lato si limita a contestare genericamente la lettura delle risultanze testimoniali operata dalla Corte di merito, senza neppure specificare il vizio di motivazione denunciato, dall’altro introduce una questione nuova in questo processo (relativa alla compensazione comunque dei venti minuti emersi con un minore orario svolto nei mesi estivi), della quale non vi è traccia (neppure sugli elementi di fatto) nell’impugnata sentenza e sulla quale manca in ricorso qualsiasi indicazione specifica in ordine all’avvenuta deduzione davanti ai giudici di merito (v. Cass. n. 2331/2003 cit., Cass. 10-7-2001 n. 9336).

Con il settimo motivo, denunciando ulteriore vizio di motivazione la società, dopo aver evidenziato che la Corte di merito aveva accolto le sue richieste istruttorie relativamente ad un solo capitolo di prova, per quanto riguarda l’aliunde percepitati, lamenta il mancato accoglimento della richiesta di esibizione di documentazione (CUD o Unico, libretto di lavoro e dichiarazione relativa all’indennità di disoccupazione) da parte della lavoratrice nonchè la omessa motivazione in ordine alla documentazione del Centro per l’Impiego, depositata su disposizione del Giudice, dalla quale risultava che la C. in data 13-7-2000 era stata assunta da altro albergo della zona (OMISSIS) con la stessa qualifica fino a settembre dello stesso anno e dopo un breve periodo era stata di nuovo assunta dallo stesso albergo anche se per periodi alterni fino all’ottobre 2003.

Anche tale motivo risulta generico e privo di autosufficienza.

Innanzitutto la società, pur affermando di aver "insistitò" nella citata richiesta di esibizione, non specifica quando, in che modo e con quale atto abbia avanzato tale richiesta davanti ai giudici di merito.

Peraltro, come più volte è stato affermato da questa Corte (v. fra le altre Cass. 20-12-2007 n. 26943), deve ritenersi che "l’esibizione di documenti non può essere chiesta a fini meramente esplorativi, allorquando neppure la parte istante deduca elementi sulla effettiva esistenza del documento e sul suo contenuto per verificarne la rilevanza in giudizio".

Per quanto riguarda, poi, il documento del Centro per l’Impiego che sarebbe stato trascurato dalla Corte di merito, parimenti la censura risulta del tutto generica e priva di autosufficienza.

A fronte, infatti, della sentenza impugnata che, sul punto della determinazione dell’aliunde perceptum detratto, si è riportata alle risultanze della CTU e del relativo supplemento, la ricorrente principale neppure specifica se, in che modo e in quale misura il citato documento sia stato considerato ovvero trascurato nelle relazioni dell’ausiliare.

Peraltro, e comunque, la società neppure trascrive nel ricorso il contenuto del documento invocato così violando il principio di autosufficienza (v. fra le altre da ultimo Cass. 30-7-2010 n. 17915).

Al riguardo ripetutamente questa Corte ha affermato il principio secondo cui "il ricorrente che denuncia sotto il profilo di omessa o insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, l’omessa o erronea valutazione delle risultanze istruttorie ha l’onere di indicarne specificamente il contenuto" (v. fra le altre Cass. sez. 1^ 17-7-2007 n. 15952, Cass. 20-2-2003 n. 2527, Cass. 25-8- 2003 n. 12468, Cass. sez. 3^ 20-10-2005 n. 2032), essendo "necessario, al fine di consentire al giudice di legittimità il controllo della decisività della risultanza non valutata (o insufficientemente valutata), che il ricorrente precisi, mediante integrale trascrizione della medesima, la risultanza che egli asserisce decisiva e non valutata o insufficientemente valutata, dato che solo tale specificazione consente alla Corte di cassazione, alla quale è precluso l’esame diretto degli atti, di delibare la decisività della medesima, dovendosi escludere che la precisazione possa consistere in meri commenti, deduzioni o interpretazioni delle parti" (v. Cass. sez. 3^ 24-5-2006 n. 12362, Cass. sez. 3^ 26-6-2007 n. 14751. Cass. sez. 3^ 26-6-2007 n. 14767).

Con l’ottavo motivo la società, denunciando ulteriore vizio di motivazione, lamenta in sostanza una omessa pronuncia in ordine al motivo di appello relativo alla mancata ammissione di tutti i capitoli di prova testimoniali dedotti (a fronte della ammissione di un solo capitolo da parte del giudice di primo grado).

Anche tale censura, oltre che contraddittoria nella sua formulazione (cfr. Cass. 17-7-2007 n. 15882), risulta del tutto generica e priva di autosufficienza, non essendo riportati in alcun modo i capitoli di prova non ammessi e asseritamele reiterati in appello.

Così respinto il ricorso principale parimenti non merita accoglimento il ricorso incidentale, con il quale la C., con un unico motivo, denunciando violazione dell1 art. 2697 c.c. e vizio di motivazione con riferimento alla valutazione dell’orario di lavoro svolto, deduce che le risultanze testimoniali avevano confermato l’orario di lavoro svolto di otto ore, mentre la fruizione di un’ora di pausa pranzo era emersa soltanto dalla testimonianza O., e rileva che, stante la presunzione di onerosità anche delle attività prodromiche ed accessorie incombeva sul datore di lavoro la prova contraria.

Innanzitutto la sentenza impugnata ha espressamente affermato che sulla "pausa pranzo contrattualmente prevista per un’ora al giorno" "parte appellante incidentale nulla ha controdedotto", di guisa che l’odierna ricorrente incidentale avrebbe dovuto in primo luogo replicare specificamente al riguardo contro tale statuizione.

In ogni caso trattandosi di "pausa pranzo contrattualmente prevista", è a tale specifica previsione che la ricorrente incidentale avrebbe dovuto riferirsi (cfr. ora D.Lgs. n. 66 del 2003, art. 8) e non già alla disciplina generale delle attività prodromiche o accessorie.

Infine non risulta pertinente il richiamo al principio affermato da Cass. 22-4-1992 n. 4824, in una controversia fra INPS e datore di lavoro, in un caso di pacifica più lunga presenza dei lavoratori in azienda rispetto alla tabella oraria esposta.

Entrambi i ricorsi vanno così respinti.

Le spese in ragione della reciproca soccombenza vanno compensate tra le parti.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi, li rigetta e compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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