Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 30-01-2012, n. 1264 Indennità di buonuscita o di fine rapporto

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 18.3.2008, la Corte di Appello di Torino respingeva l’appello proposto dalla s.p.a. AETAS avverso la sentenza del Tribunale di Mondovì che aveva condannato la predetta a pagare a D. P.L. l’indennità di fine servizio, preso atto della comunicazione dell’INPDAP con la quale l’ente previdenziale aveva attestato che la AETAS non risultava iscritta alla cassa Inadel/tfr dell’istituto, nonchè al pagamento, in favore delle dipendente, delle differenze retributive rivendicate, pari ad Euro 2.361,91.

Quanto a queste ultime, il giudice del merito osservava che nulla la lavoratrice aveva richiesto per straordinario e che pertanto le contestazioni sul mancato adempimento dell’onere probatorio non erano pertinenti, laddove per le altre differenze il ricalcolo delle spettanze era stato effettuato sulla base delle buste paga, onde il dovutum avrebbe dovuto essere contestato dalla parte datoriale in primo grado, in base al principio dell’onere di contestazione specifica, ex art. 416 c.p.c., comma 3, in relazione ai fatti costitutivi del diritto affermati dall’attore. Non erano stati contestati i fatti costitutivi essendosi limitata la società ad eccepire la mancanza di prova e, peraltro, trattandosi di istituti contrattuali, il relativo adempimento doveva risultare dalle buste paga. In ordine al trattamento di fine rapporto, la Corte territoriale rilevava che, pacifica essendo la natura privatistica del rapporto di lavoro intercorso tra la D.P. e la Aetas, non era revocabile in dubbio la soggezione della fattispecie alla disciplina dell’art. 2120 c.c. ed il conseguente gravare sulla parte datoriale dell’obbligo di pagare la retribuzione differita. L’oggetto del giudizio non era, invero, rappresentato dalla sorte dei contributi asseritamente versati dall’Aetas all’Inpdap per il trattamento di fine servizio dei dipendenti, potendo la domanda di manleva soltanto ampliare l’ambito del decidere, bensì solo ed esclusivamente dalla richiesta di pagamento delle spettanze di fine rapporto rivendicate dalla dipendente. Peraltro, la Aetas aveva eccepito l’adempimento dell’obbligazione, assumendo di avere pagato all’INPDAP, ma il suo assunto era stato smentito dai documenti prodotti in giudizio e da quelli acquisiti dal giudice di ufficio.

Con riferimento alla mancata contestazione del quantum, neanche nel giudizio di gravame l’appellante aveva censurato la quantificazione delle spettanze e, comunque, la somma rivendicata era quella risultante dal mod. 350/p predisposto dalla stessa appellante.

Avverso detta decisione propone ricorso per cassazione la società, affidando l’impugnazione a cinque motivi.

Resiste la D.P., con controricorso.

Motivi della decisione

Con il primo motivo di ricorso, la Aetas spa deduce l’insufficiente e contraddittoria motivazione circa un punto decisivo della controversia, costituito dal riconoscimento, in favore della lavoratrice, di differenze retributive, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, rilevando, quanto al primo profilo, che il fatto controverso in relazione al vizio dedotto ineriva al riconoscimento in capo alla lavoratrice di differenze retributive per lavoro notturno, ferie, permessi e festività non godute, in assenza di prova dalla stessa fornita del diritto a percepire le predette voci e, quanto al secondo profilo, che costituisce onere del lavoratore, che richieda le suddette differenze retributive, provare la prestazione ed il conseguente diritto alle stesse, non essendo sufficiente, ai fini dell’assolvimento degli obblighi imposti dall’art. 2697 c.c., la produzione di conteggio sindacale allegato al ricorso introduttivo, sul presupposto che si trattasse di istituti di natura contrattuale. All’esito della parte argomentativa, pone corrispondenti quesiti, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c..

Con il secondo motivo, la società lamenta la violazione dell’art. 416 c.p.c. e l’insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5.

Osserva che essa ricorrente aveva contestato, nella memoria di costituzione, i conteggi di controparte, invocando CTU sul quantum, e che, in ogni caso non vi era onere di specifica contestazione, essendosi contestato l’an debeatur e formula quesiti con i quali domanda se era onere del resistente contestare il quantum in tale evenienza.

Con il terzo motivo, la società ricorrente denunzia la falsa applicazione dell’art. 2120 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, e l’insufficiente motivazione su un punto decisivo della controversia, rappresentato dall’obbligo dell’Ente previdenziale di corrispondere direttamente l’indennità premio di servizio al lavoratore. Rileva che, per il trattamento di fine servizio del personale degli enti locali è previsto il versamento dei contributi alla ex cassa INADEL e che, in base al D.I. n. 338 del 1989, art. 4, convertito in L. n. 389 del 1989, ai dipendenti già in servizio è concessa la facoltà di opzione per il mantenimento dell’iscrizione al regime pensionistico obbligatorio ed al trattamento di fine servizio previsto per i dipendenti degli enti locali, in difetto della quale, la relativa indennità premio deve essere liquidata d’ufficio dall’INPDAP all’ex iscritto e lo stesso deve essere iscritto all’assicurazione generale presso l’INPS. Assume la società che, in assenza di specifiche comunicazioni da parte del lavoratore relative al mancato esercizio dell’opzione o all’avvenuta liquidazione d’ufficio del TFS, la società, ai fini della regolarità di iscrizione del proprio personale, aveva continuato a versare all’INPDAP tutti i contributi, compresi quelli per il t.f.s., che l’istituto aveva sempre accettato, laddove alcuna richiesta di effettuare i successivi versamenti all’effettivo titolare della contribuzione era mai pervenuta ad essa ricorrente da parte dell’INPS. Rileva, poi, che nella specie, la intimata, avente diritto al TFS in quanto iscritta prima del 31.12.2000, non aveva esercitato l’opzione per il t.f.r., ai sensi del D.P.C.M. 20 dicembre 1999, art. 1 e conseguentemente non poteva essere iscritta all’INPDAP ai fini del t.f.r., avendo sempre versato i contributi per il TFS e che non erano pertinenti i rilievi della Corte territoriale in ordine alla distinzione tra obbligazione contributiva e previdenziale, non essendo ravvisabile un obbligo diretto del datore di lavoro di provvedere al pagamento del TFS in presenza di versamenti effettuati per tale causale all’Ente previdenziale. All’esito della parte argomentativa, formula quesito di diritto domandando se l’obbligo di provvedere al pagamento dell’indennità premio di servizio direttamente al lavoratore, dipendente di ente depubblicizzato, grava direttamente sul datore in caso di mancato riconoscimento, da parte dell’ente previdenziale, dei versamenti allo stesso effettuati a tale titolo.

Con il quarto motivo, la società denunzia l’omessa e/o insufficiente motivazione circa un punto decisivo della controversia, rappresentato dalla mancata disamina delle produzioni documentali, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, osservando che il giudice del gravame non ha valutato che dalla documentazione prodotta risultava incontrovertibilmente l’assolvimento di tutti gli obblighi gravanti sul datore in tema di versamento dei contributi TFS. In particolare, non avrebbe la Corte territoriale valutato il documento n. 4, che indicava in modo specifico il nominativo della lavoratrice, i documenti nn. 4 bis 5, 6 e 7, che recavano il timbro della sede INPDAP di Torino ed le denunzie mensili (doc. 8-12) che indicavano chiaramente i contributi TFS. Aggiunge che le distinte di versamento indicavano gli importi versati (doc. 16-18) e rileva la carenza motivazionale in ordine a tali documenti, assumendo anche che erano state disattese le istanze istruttorie avanzate al riguardo.

Con il quinto motivo, lamenta la omessa motivazione su un punto decisivo della controversia, rappresentato dal mancato esame della censura mossa alla sentenza di primo grado in tema di mancata valutazione dei documenti di parte Aetas, in quanto prodotti in copia fotostatica, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, denunziando l’omesso esame del motivo di gravame relativo al vizio di ultrapetizione della sentenza di primo grado.

1 – Il primo ed il secondo motivo vanno trattati congiuntamente, attesa la sostanziale connessione delle questioni con gli stessi poste.

La sentenza ha inteso affermare, contrariamente a quanto si assume nel ricorso, che le differenze retributive emergevano da un confronto tra le buste paga e contratto collettivo applicabile. La società, dolendosi della erroneità della decisione con riguardo al mancato rispetto del principio dell’onere della prova, non specifica, tuttavia, a quali differenze retributive riferisca le proprie censure, riferendosi solo a lavoro notturno, festività e permessi non goduti (oltre straordinario, in relazione al quale è stata già evidenziata nella sentenza impugnata la mancanza di ogni richiesta).

Ebbene, permessi (che corrispondono ai R.O.L. – riduzione dell’orario informa di permessi -, quindi contrattualmente previsti) e festività non godute risultano certamente dalle buste paga in raffronto con il contratto collettivo. Dal confronto, la Corte territoriale ha desunto la fondatezza delle richieste.

Quanto al lavoro notturno, non viene chiarito se le differenze riconosciute a tale titolo dalla sentenza erano imputabili a ricalcolo del relativo compenso – risultando, in tal caso, questo dalle buste paga e quindi rendendosi possibile il raffronto con quanto emergente dal contratto collettivo -, ovvero la richiesta si fondasse su diversi presupposti non chiariti, per cui il difetto di allegazione non consente l’esame della relativa censura.

Alla luce di ciò, avendo la Corte territoriale ritenuto che i fatti costitutivi fossero provati dall’esame delle busta paga alla luce del contratto collettivo, la dedotta mancata contestazione denunciata dalla sentenza si riferisce alla sola quantificazione, argomento sul quale il ricorso è generico e, pertanto, inammissibile.

2 – Quanto alle censure sul TFS, la normativa evocata in causa può essere riassunta nei seguenti termini:

a) il D.L. n. 338 del 1989, art. 4, convertito in L. n. 389 del 1989, prevedeva l’opzione per la conservazione del trattamento premio servizio nella gestione INADEL per il personale delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza privatizzate, con domanda da presentare entro novanta giorni dalla trasformazione della natura giuridica;

b) chi al 31 dicembre 2000 fosse iscritto all’INADEL per il T.P.S. conservava tale trattamento, a meno che aderisse ad un fondo di previdenza complementare, optando per il t.f.r., nel qual caso il T.P.S. costituiva il primo accantonamento del T.F.R. ( L. n. 449 del 1997, art. 59, comma 56 e D.P.C.M. 20 dicembre 1999, art. 1).

3 – Il terzo motivo deve ritenersi inammissibile, perchè, pur denunziandosi un errore di diritto, il corrispondente quesito si sostanzia in una richiesta non correttamente formulata, nella quale non si indica la regola iuris violata e quella ritenuta, al contrario, applicabile alla fattispecie, con ciò rivelandosi la stessa inidonea ad integrare i requisiti prescritti dall’art. 366 bis c.p.c..

4 – Gli ultimi due motivi diventano, pertanto, irrilevanti.

5 – In ogni caso, dipendendo il ragionamento della società anzitutto dal fatto che la lavoratrice fosse già in servizio al momento della privatizzazione dell’ente datore di lavoro, non viene specificata nè la data di assunzione della dipendente, nè quella di privatizzazione dell’ente (in dispregio del principio di autosufficienza) e si afferma solo che la stessa era in servizio il 31.12.2000. Inoltre e comunque, la società avrebbe dovuto dedurre e provare l’opzione della lavoratrice per l’indennità INADEL al momento della trasformazione dell’ente, che sola avrebbe potuto giustificare il pagamento dei contributi all’INADEL. Conclusivamente, deve, pertanto, pervenirsi alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui consegue, in applicazione del principio della soccombenza, la condanna della società ricorrente alla rifusione, in favore della contro ricorrente, delle spese del presente giudizio, nella misura di cui in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara l’inammissibilità del ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in Euro 30,00 per esborsi, Euro 2000,00 per onorario, oltre spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 9 novembre 2011.

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