Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 31-01-2012, n. 1415 Retribuzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza depositata il 14.10.2008 la Corte d’appello di Roma rigettava il gravame interposto da T.G. contro la sentenza del Tribunale capitolino che ne aveva respinto la domanda avente ad oggetto le differenze retributive invocate ex art. 2099 cpv. c.c. e art. 36 Cost. nei confronti dell’Aero Club di Roma, alle cui dipendenze l’attore aveva lavorato fin dal 1971 con qualifica di pilota e mansioni di istruttore di volo.

Statuivano i giudici d’appello la congruità, ai fini dell’art. 36 Cost., delle retribuzioni percepite dal lavoratore conformemente al contratto collettivo aziendale regolante il rapporto di lavoro dei dipendenti dell’Aero Club di Roma, sebbene inferiori a quelle previste da altre fonti collettive di rango nazionale (non direttamente applicabili nel caso di specie).

Per la cassazione di tale sentenza ricorre il T. affidandosi ad un solo motivo, poi ulteriormente illustrato con memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso l’Aero Club di Roma.

Motivi della decisione

1.1. – Con l’unico motivo di ricorso si lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2099 c.c. e art. 36 Cost. per avere l’impugnata sentenza ritenuto congruo parametro – a fini di verifica del rispetto del dettato costituzionale in tema di retribuzione proporzionata e sufficiente – il contratto collettivo aziendale dei dipendenti dell’Aero Club di Roma, senza aver verificato l’adeguatezza delle retribuzioni percepite dal ricorrente alla luce di contratti collettivi di categoria e di settore.

2.1. – Il motivo è infondato, alla stregua delle considerazioni qui di seguito svolte.

2.2. – In assenza di loro applicabilità diretta, i contratti collettivi di lavoro – siano essi aziendali o nazionali – costituiscono solo possibili parametri orientativi utilizzabili ai fini del combinato disposto dell’art. 2099 cpv. c.c. e art. 36 Cost.

2.3. – E’ pur vero che la retribuzione costituzionalmente garantita corrisponde, in linea generale, a quella determinata dai contratti collettivi (v. Cass. 9/3/2005 n. 5139); per quest’ultima, infatti, esiste in giurisprudenza una mera presunzione semplice di adeguatezza delle relative clausole economiche ai principi di proporzionalità e sufficienza (v. Cass. 14.8.04 n. 15878; Cass. 1.8.03 n. 11767; Cass. 17/5/2003 n. 7752, Cass. 8/1/2002 n. 132).

2.4. – Tuttavia nell’ordinamento non vi è alcun criterio legale di scelta in ipotesi di pluralità di fonti collettive (cfr., ex aliis, Cass. 12.5.2001 n. 6624; Cass. 18.2.2000 n. 1894; Cass. 26.3.98 n. 3218; Cass. 9.8.96 n. 7383).

2.5. – Ora, questa Corte Suprema ha statuito – ripetutamente e da lungo tempo (in passato cfr., ex aliis, Cass. 14.6.85 n. 3586; Cass. 24.6.83 n. 4326; Cass. 12.3.81 n. 1428, Cass. 3/4/1979 n. 1926) – che la determinazione della giusta retribuzione operata dal giudice del merito può formare oggetto di ricorso per cassazione solo per violazione dei criteri dettati dalla norma costituzionale per il processo perequativo e cioè del criterio di sufficienza della retribuzione a sopperire ai bisogni di un’esistenza libera e dignitosa e del criterio di proporzionalità della stessa retribuzione alla quantità e qualità del lavoro prestato, restando riservato al giudice del merito il concreto apprezzamento dell’adeguatezza della retribuzione.

2.6. – Si tratta di stima non censurabile sotto il profilo del puro e semplice mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva, rientrando nel potere discrezionale del giudice fondare la pronuncia, anzichè su di essi, sulla natura e sulle caratteristiche della concreta attività svolta, su nozioni di comune esperienza e, in difetto di utili elementi, persino su criteri meramente equitativi (anche a riguardo la giurisprudenza di questa S.C. è antica e consolidata: v., in passato, Cass. 6.12.96 n. 10872;

Cass. 20.3.87 n. 2791; Cass. 28.3.85 n. 2193).

2.7. – A maggior ragione, dunque, nella scelta del parametro collettivo il giudice del merito è libero (previa idonea motivazione) di fare riferimento, anzichè al contratto collettivo nazionale, a quello aziendale, pur se peggiorativo rispetto al primo e pur se intervenuto in periodo successivo alla conclusione del rapporto di lavoro di cui trattasi (cfr. in tal senso Cass. 20.9.07 n. 19467; Cass. n. 3218/98 cit.).

2.8. – E’ pur vero che l’esistenza d’un contratto collettivo vincolante fra le parti – anche a livello meramente aziendale – di per sè non esclude lo scrutinio di conformità delle relative retribuzioni al precetto dell’art. 36 Cost., ma per ritenerlo violato non basta che la fonte collettiva aziendale preveda retribuzioni inferiori a quello nazionale.

2.9. – Diversamente opinando, si introdurrebbe surrettiziamente un principio di inderogabilità del contratto collettivo nazionale ad opera di quello aziendale, inderogabilità che sussiste solo rispetto al contratto individuale (ex art. 2077 cpv. c.c.).

2.10. – A fortiori non si può fare luogo ad analoga affermazione di sostanziale inderogabilità nel confronto tra un contratto aziendale (la cui diretta applicabilità all’odierno ricorrente non è contestata, vertendo la materia del contendere solo sulla sua adeguatezza ai fini dell’art. 36 Cost.) e uno nazionale che non gli è riferibile in via diretta (per mancanza di bilateralità di iscrizione e in difetto di spontanea ricezione ad opera delle parti del rapporto individuale).

2.11. – Orbene l’impugnata pronuncia, in assenza di una contrattazione collettiva nazionale direttamente applicabile nella fattispecie, ha scelto – nell’ambito dell’apprezzamento riservato al giudice del merito – il parametro collettivo ai sensi dell’art. 36 Cost., individuandolo nel contratto aziendale, scelta che, oltre ad essere in linea di massima rispondente al principio di prossimità all’interesse oggetto di tutela, non è sindacabile in sede di legittimità se non per vizio della motivazione.

2.12. – Si tratta, però, di vizio che l’odierno ricorrente non ha dedotto, limitandosi a lamentare violazione e falsa applicazione dell’art. 2099 c.c. e art. 36 Cost., censura il cui accoglimento – giova rimarcare – incontra l’ostacolo dell’insussistenza, nel nostro ordinamento, d’un criterio legale di scelta in ipotesi di pluralità di fonti collettive.

3.1. – In conclusione, il ricorso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna il ricorrente a pagare le spese del presente giudizio, liquidate in Euro 70,00 per esborsi e in Euro 4.000,00 (quattromila/00) per onorari, oltre rimborso spese generali, IVA e CPA. Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2011.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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