Cass. civ. Sez. II, Sent., 31-01-2012, n. 1378 Cessazione della materia del contendere

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con citazione notificata il 28.9,1981, il Consorzio per il nucleo di industrializzazione di Avezzano agiva in risoluzione per inadempimento del contratto di vendita, datato 27.6.1966, di un lotto di terreno in località (OMISSIS), dell’estensione di mq. 15.462, ceduto alla Rimag s.a.s. al prezzo di L. 773.100, pari a L: 50 al mq.

A sostegno della domanda deduceva essersi trattato di vendita a prezzo simbolico, in quanto la società acquirente aveva assunto col medesimo atto l’obbligazione: a) di destinare il lotto esclusivamente alla costruzione, entro due anni, di uno stabilimento industriale per la produzione e il commercio di rimorchi e macchine ed attrezzi per l’agricoltura; b) di non mutare la destinazione del complesso edilizio e di non cedere a terzi il terreno senza previa autorizzazione del Consorzio stesso; c) di corrispondere a quest’ultimo, a titolo di risarcimento del danno, la differenza tra il prezzo di favore pagato e quello effettivo di mercato del terreno al momento in cui, per qualsiasi causa diversa dalla riconversione, fosse cessata l’attività industriale esercitata su di esso.

Deduceva, quindi, che la Rimag s.a.s. si era resa inadempiente, non avendo nè realizzato le opere previste, nè organizzato la produzione di macchine agricole.

La società convenuta, che resisteva alla domanda chiedendo in via riconvenzionale il pagamento di tutte le opere realizzate, nel corso del giudizio si estingueva per incorporazione nella Geim s.a.s., che chiamava in giudizio e che, a sua volta, si costituiva facendo proprie le difese già svolte dalla Rimag.

Il Tribunale di Avezzano con sentenza del 30.5.2001 accoglieva la domanda di risoluzione, rigettando sia la domanda accessoria di danni, sia quella riconvenzionale.

L’appello proposto dalla Geim s.r.l. era respinto dalla Corte territoriale dell’Aquila, con sentenza del 30.1.2006.

Riteneva il giudice di secondo grado che nessuno dei documenti prodotti dalla parte convenuta valeva a dimostrare l’adempimento delle obbligazioni contrattuali, in quanto il conseguimento della licenza e l’approvazione del progetto da parte del genio civile non erano equipollenti dell’effettiva realizzazione delle opere, e così pure gli accatastamenti, da nessuno dei quali era dato di inferire l’esistenza in loco di un opificio industriale avente le caratteristiche richieste; il rilievo aerofotogrammetrico del 1974 non era riconducibile con esattezza ai luoghi, e ad ogni modo e al massimo, avrebbe provato unicamente la presenza di alcuni capannoni, non già la loro utilizzazione a fini industriali; l’atto notaio Rozzi conteneva soltanto una dichiarazione delle parti, coperta da fede pubblica unicamente quanto alla sua effettuazione davanti al pubblico ufficiale, e non anche in ordine alla sua intrinseca verità; le fotocopie dei libretti di lavoro di due soli operai non erano idonee a dimostrare l’esistenza di un opificio industriale, tanto più considerato che in essi il datore di lavoro risultava essere la Imma s.a.s. e non la Rimag s.a.s.; il rinvenimento in loco nel 1984 dei beni immobili con strutture, impianti e macchinari non provava nè l’esistenza di un’industria funzionante, nè che quest’ultima fosse stata realizzata nei due anni previsti nel contratto; l’approvazione nel 1997 del prospetto per la realizzazione di un insediamento industriale per la produzione di frutta sciroppata e altro, nulla provava circa la pregressa produzione di rimorchi e macchine agricole, mentre il consenso alla cancellazione delle trascrizioni, da parte del Commissario regionale nel 1999, appariva essere stato espresso "senza entrare nel merito della causa intentata venti anni fa".

Per la cassazione di detta sentenza ricorre la Geim s.r.l., formulando quattro motivi d’impugnazione.

Resiste con controricorso il Consorzio intimato, che ha altresì depositato memoria.

Motivi della decisione

1. – Con il primo motivo parte ricorrente lamenta l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo, determinante la cessazione della materia del contendere.

Sostiene al riguardo che con Delib. 23 luglio 1997, n. 96, il Consorzio aveva approvato il progetto di variante e ampliamento dello stabilimento industriale della Geim s.r.l. esprimendo parere favorevole al rilascio in favore di quest’ultima di concessione edilizia, emessa poi il 17.9.1997 dal comune di Avezzano per l’esecuzione di lavori destinati all’ampliamento dei preesistenti insediamenti industriali. Successivamente, sostiene, con verbale del commissario regionale n. 140 del 6.9.1999 il Consorzio deliberò di consentire la cancellazione delle trascrizioni degli atti di citazione, tra cui quello che ha dato origine alla presente controversia, su parte dei terreni con le relative opere ivi realizzate, affinchè queste ultime potessero essere vendute a soggetti esercenti attività industriali. Quindi, nella stessa data il Consorzio sottoscrisse con la Geim s.r.l. un contratto di transazione autorizzando la cancellazione delle trascrizioni delle domande giudiziali, al fine di consentire l’alienazione a terzi degli immobili.

Tale attività del Consorzio, più che configurare una rinuncia all’azione proposta, aveva determinato la cessazione della materia del contendere, sicchè, sulla base dei documenti prodotti in appello, la Corte territoriale "avrebbe dovuto porsi la sollevata questione pregiudiziale di rito". Tale esame non è avvenuto, in quanto il giudice d’appello ha analizzato la transazione intervenuta fra le parti e il consenso alla cancellazione delle trascrizioni soltanto sotto il diverso profilo della presunta carenza istruttoria in ordine all’esistenza del complesso industriale.

Pertanto, sostiene parte ricorrente, questa Corte Suprema dovrà dichiarare la cessazione della materia del contendere con contestuale declaratoria di estinzione del processo e ordine di cancellazione della trascrizione della sentenza impugnata.

1.1. – Il motivo è infondato.

La cessazione della materia del contendere, quale modalità atipica di definizione della causa assimilabile all’estinzione (per la comune inidoneità al giudicato sul merito della pretesa), presuppone sotto il profilo sostanziale e oggettivo la sopravvenienza di fatti tali da determinare la totale eliminazione delle ragioni di contrasto tra le parti, e, con ciò, il venir meno sia dell’interesse ad agire e a contraddire, essendo stato soddisfatto in modo pieno ed irreversibile il diritto esercitato, sia della necessità di una pronuncia di merito che, se emessa, non avrebbe utilità alcuna per le parti; e sotto l’aspetto processuale e soggettivo richiede la formulazione di conclusioni conformi che denotino l’assenza di ogni residua questione controversa, ad eccezione, eventualmente, del regolamento delle spese, che il giudice opera in tal caso sulla base del criterio della soccombenza virtuale (cfr. e pluribus, Cass. nn. 10553/09, 6909/09, 4034/07 e 2567/07). Pertanto, in mancanza di tale pieno accordo, deve escludersi che il giudice possa dichiarare cessata la materia del contendere per avere una delle parti allegato e provato l’insorgenza di fatti astrattamente idonei a privare essa stessa o la controparte dell’interesse alla prosecuzione del giudizio, e quando, nelle rispettive conclusioni, ciascuno abbia insistito sulle originarie domande (v. Cass. nn. 23289/07, 27460/06, S.U. 13969/04 e 8607/00).

Infine, l’accertamento delle condizioni per dichiarare la cessazione della materia del contendere implica una valutazione di puro fatto che, se espressa con motivazione immune da vizi logico-giuridici, si sottrae al sindacato di legittimità (cfr. Cass. nn. 4672/98, 12614/95 e 9401/93).

1.1.1. – Nel caso di specie, pacifico il contrasto fra le parti circa l’efficienza della Delib. consortile 23 luglio 1997, n. 96, contrasto che, espresso mediante la formulazione di conclusioni contrapposte, già di per sè esclude, in virtù dei principi innanzi richiamati, la fondatezza della doglianza, va osservato, in aggiunta, che la Corte territoriale ha anche motivatamente escluso che il consenso, susseguente alla ridetta delibera, alla cancellazione delle trascrizioni avesse incidenza alcuna sulla lite, essendo stato espresso dal commissario regionale del consorzio "senza entrare nel merito della causa intentata venti anni fa". 2. – Con il secondo motivo è dedotta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1453, 1455 e 2697 c.c., in relazione alla regola di giudizio fondata sull’onere della prova, nonchè l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo.

La domanda di risoluzione del contratto, sostiene parte ricorrente, avrebbe dovuto essere rigettata per insussistenza dell’inadempimento, per la mancata prova della sua gravità e in ogni caso perchè la Geim s.r.l. aveva pienamente assolto il proprio onere di provare i fatti modificativi ed estintivi della pretesa azionata.

Richiama a tal proposito l’orientamento di Cass. S.U. n. 13533/01, e deduce che il Consorzio si è limitato ad allegare il contratto, ma non anche a documentare la formale contestazione dell’inadempimento, avvenuta a sedici anni di distanza dalla conclusione dell’accordo solo con la citazione del 1981.

Sostiene, quindi, l’erronea valutazione dei documenti prodotti dalla difesa dell’appellante e idonei a dimostrare i fatti modificativi ed estintivi dedotti dalla Geim s.r.l., documenti a fronte dei quali sarebbe stato onere del Consorzio allegare la prova che il complesso immobiliare, tempestivamente e regolarmente edificato, non rispondesse alle caratteristiche richieste.

Inoltre, la Corte d’appello avrebbe dovuto riscontrare l’opportunità di nominare un c.t.u. per descrivere lo stato dei luoghi, soprattutto alla luce del rinvenimento ivi, da parte dell’ufficiale giudiziario, di uno stabilimento industriale.

Nè si comprende, prosegue parte ricorrente, in cosa la Corte territoriale abbia ravvisato l’importanza dell’asserito inadempimento avuto riguardo, ex art. 1455 c.c., all’interesse del Consorzio, data l’assoluta carenza di prova al riguardo. E, a ben vedere, l’interesse del Consorzio manifestato con il parare favorevole alla concessione edilizia, era in senso opposto alla risoluzione del rapporto.

2.1. – Il motivo è infondato.

2.1.1. – Proprio il precedente delle S.U. di questa Corte, citato dalla parte ricorrente, afferma, all’opposto di quanto si sostiene nel motivo, che il creditore che agisce per la risoluzione del contratto per inadempimento assolve il proprio onere probatorio mediante la dimostrazione della fonte contrattuale dell’obbligazione inadempiuta, mentre grava sul debitore convenuto provare l’adempimento.

2.1.2. – Nè l’attività di un c.t.u. – di cui parte ricorrente lamenta la mancata nomina, proponendo inammissibili censure di puro merito – può surrogarsi a tale onere della parte convenuta in risoluzione.

2.1.3. – Infine, l’apprezzamento circa la gravità dell’inadempimento dedotto a base della domanda di risoluzione deve ritenersi non soltanto implicito nella motivazione svolta in ordine alla mancata realizzazione dell’opificio industriale così come previsto in contratto, ma altresì rafforzato dal rinvio per relationem alla motivazione della sentenza di primo grado nella parte in cui quest’ultima aveva ravvisato un sicuro sinallagma tra la modestia del prezzo di vendita dell’area e l’obbligo anzi detto, rinvio da ritenersi legittimo a fronte della generica contestazione mossa al riguardo dall’appellante.

3. – Con il terzo motivo è dedotta l’omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, relativo alla mancata ammissione della c.t.u. e delle prove orali, anche per quanto concernente la domanda riconvenzionale, nonchè la violazione e falsa applicazione dell’art. 356 c.p.c..

Riprodotti i capitoli di prova, si sostiene che appare illogico il sindacato operato al riguardo dalla Corte d’appello, la quale ha ritenuto di disattendere l’istanza in quanto nella comparsa conclusionale l’appellante si era rimesso, come del resto ovvio, alla discrezionalità della Corte, ritenendo comunque carente l’istruzione probatoria. Allo stesso modo, prosegue il ricorso, non è adeguatamente giustificato il diniego di nomina di un c.t.u..

Parte ricorrente critica, inoltre, la sentenza impugnata anche quanto al rigetto della domanda riconvenzionale, il cui accoglimento soltanto avrebbe evitato un’inaccettabile locupletazione in danno della Geim e a vantaggio del Consorzio. Invece, la Corte aquilana, pur dichiarando la risoluzione del contratto ha ritenuto non configurabile la liquidazione di un indennizzo in favore della Geim, ai sensi dell’art. 936 c.c., nè ha preso in considerazione la perizia giurata prodotta da parte appellante, che descriveva analiticamente lo stato, le caratteristiche, le dimensioni e l’epoca di costruzione dei vari fabbricati costituenti il complesso immobiliare realizzato sul terreno, per cui è censurabile, conclude parte ricorrente, l’omessa valutazione della perizia giurata e la mancata pronuncia sull’ammissibilità e rilevanza della c.t.u. richiesta.

3.1. – Anche tale motivo è infondato in ciascuna delle doglianze che espone.

3.1.1.- Secondo il costante indirizzo di questa Corte, la consulenza tecnica d’ufficio è un mezzo istruttorio (e non una prova vera e propria) sottratto alla disponibilità delle parti ed affidato al prudente apprezzamento del giudice di merito, rientrando nel suo potere discrezionale la valutazione di disporre la nomina dell’ausiliario giudiziario. La motivazione dell’eventuale diniego può anche essere implicitamente desumibile dal contesto generale delle argomentazioni svolte e dalla valutazione del quadro probatorio unitariamente considerato effettuata dal suddetto giudice (cfr. Cass. nn. 6479/02, 4660/06, 15219/07 e 9461/10).

3.1.1.1. – Nello specifico, la complessiva motivazione svolta dalla Corte d’appello in merito all’inadempimento dedotto appare tale da giustificare la scelta di non disporre accertamenti tecnici. Il dettagliato esame di tutta la documentazione prodotta dall’appellante e la valutazione espressa circa l’inidoneità di questa a dimostrare l’adempimento integrano una più che sufficiente giustificazione del decisimi, che nel suo impianto logico non lascia residuare margini di incertezza tali da richiedere verifiche di natura tecnica.

3.1.2. – Il caso in esame non ricade sotto la norma dell’art. 936 c.c..

Questa Corte ha più volte affermato che la disciplina dettata dall’art. 936 c.c., trova applicazione soltanto quando l’autore delle opere sia realmente terzo, ossia non abbia con il proprietario del fondo alcun rapporto giuridico, di natura reale o personale, tale da consentirgli la facoltà di costruire sul suolo. Tale ipotesi si verifica non soltanto nell’originaria assenza di alcun vincolo contrattuale, ma anche allorchè un preesistente contratto sia venuto meno per invalidità o per risoluzione, stante l’efficacia retroattiva inter partes della relativa pronuncia (cfr. Cass. nn. 4623/01, 12703/99, 895/97, 956/95, 12804/93, 3704/76).

Tale principio, però, risulta formulato con riguardo a fattispecie in cui la costruzione era stata realizzata in forza del diritto di proprietà, del possesso o della detenzione del suolo attribuiti al costruttore da un titolo negoziale successivamente caducato (per invalidità o per scioglimento del rapporto), mentre diverso è il caso in cui l’edificazione su suolo altrui sia la risultante dell’esecuzione di un obbligo contrattuale la cui causa de bendi sia (per le stesse ragioni) successivamente venuta meno.

Limitando il discorso alla risoluzione del titolo contrattuale, che sottosta alla complessiva vicenda in esame, occorre tenere distinte le due ipotesi, nel senso che l’art. 936 c.c., deve ritenersi applicabile unicamente all’area non coperta dall’art. 1458 c.c., che disciplina le restituzioni conseguenti allo scioglimento del rapporto.

L’art. 936 c.c., mira a regolare la ricaduta patrimoniale di un’attività di costruzione su suolo altrui, che coinvolge soggetti fra loro terzi, cioè non legati da un vincolo contrattuale esistente ed efficace, ovvero che è essa stessa estranea al contenuto dell’eventuale rapporto giuridico tra le parti, in quanto non oggetto dell’agere necesse ivi programmato. Pertanto, nel caso di risoluzione del contratto attributivo di un diritto reale implicante la facoltà di sfruttamento edilizio del suolo, il conseguente venir meno della coincidenza fra costruttore e titolare dello ius aedificandi costituisce un effetto di risulta che, non essendo disciplinabile in base ai principi che presiedono le obbligazioni contrattuali, data la sua estraneità alla logica commutativa, è regolato dallo statuto della proprietà mediante l’alternativa tra accessione, con pagamento dei materiali, e ius tollendi. Diversamente, allorchè l’attività costruttiva esprima non già l’esercizio di un diritto, ma l’adempimento di un’obbligazione, la risoluzione del contratto che ne costituisce la fonte determina l’insorgere di un obbligo restitutorio, ai sensi dell’art. 1458 c.c., da soddisfare in natura, ove possibile, o per equivalente monetario. In tal caso, l’esigenza normativa non è l’assegnazione della proprietà di un bene, quanto il ripristino delle rispettive posizioni economiche delle parti contraenti, riportandole per quanto possibile alla situazione preesistente alla stipula del contratto (cfr. per un caso in cui è stata esclusa l’applicabilità dell’art. 936 c.c., essendo la costruzione inerente alla sfera del rapporto contrattuale instaurato con il proprietario del fondo, Cass. n. 11835/03).

3.2. – Nel caso di specie, è appunto quest’ultima situazione che si è avverata, ove si consideri che in cambio della cessione a prezzo pressochè simbolico dell’area edificabile, la società acquirente si era obbligata a realizzare un dato programma costruttivo, la cui mancata esecuzione ha provocato la risoluzione del contratto.

4. – Con il quarto motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 c.c., nonchè l’omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, riguardante l’interpretazione dell’art. 4 del contratto 27.6.1966, che prevedeva l’obbligo per la società acquirente di corrispondere al Consorzio, a titolo di risarcimento danni, la differenza di valore fra il prezzo di eccezionale favore pagato per la cessione del terreno ed il prezzo venale corrente, che lo stesso terreno avrebbe avuto al momento in cui l’industria impiantata su di esso fosse venuta a cessare. La Geim, appellante, aveva eccepito che tale clausola escludeva, secondo la chiara intenzione delle parti, la possibilità di risoluzione del contratto, ma a fronte di ciò la Corte d’appello si è limitata a osservare che il Tribunale aveva evidenziato il sicuro sinallagma tra la modestia del prezzo preteso per la vendita e l’obbligo di realizzare l’opificio industriale, e non ha tenuto conto del successivo comportamento delle parti, in particolare del consenso espresso dal Consorzio al rilascio di autorizzazione all’ampliamento dell’opificio industriale e della successiva transazione.

4.1 – Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza, non avendo parte ricorrente trascritto nel ricorso la clausola contrattuale di cui lamenta la mancata o inesatta interpretazione (cfr. fra le tante in ordine al difetto di autosufficienza del motivo riguardante l’interpretazione del contratto, Cass. nn. 2560/07 e 24461/05).

5. – In conclusione il ricorso va respinto.

6. – Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza della parte ricorrente.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente alle spese, che liquida in Euro 3.200,00, di cui 200,00 per esborsi, oltre spese generali di studio, IVA e CPA come per legge.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile della Corte Suprema di Cassazione, il 8 novembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 31 gennaio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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