Cass. civ., sez. Unite 12-06-2006, n. 13524 SUCCESSIONE NECESSARIA – DIRITTI RISERVATI AI LEGITTIMARI

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con atto notificato l’01-04 luglio 1987 C.M. conveniva davanti al Tribunale di Torino il fratello C.V., nonchè i nipoti E., A. e K.M.R., ed esponeva:

– che in data ? era deceduta B.L., madre di essa attrice e di C.V. e di C.T., quest’ultima premorta lasciando a succederle per rappresentazione alla madre i figli E., A. e K.M.R.;

che con atto in data ? B.L. aveva venduto a C.V. la nuda proprietà su un l’immobile costituente il suo intero patrimonio;

– che tale atto dissimulava una donazione nulla per difetto di forma o comunque una donazione lesiva della propria quota di legittima;

sulla base di tali premesse l’attrice chiedeva che venisse dichiarata la nullità della donazione, con conseguente apertura anche in suo favore della successione legittima o che, nell’ipotesi di validità dell’atto in questione, ne venisse disposta la riduzione nella misura necessaria ad assicurarle la quota di legittima cui aveva diritto.

C.V., costituitosi, contestava il fondamento delle domande.

E., A. e K.M.R. rimanevano contumaci.

Con sentenza non definitiva in data 3 novembre 1992 il Tribunale di Torino rigettava le domande proposte dall’attrice, che proponeva appello, che veniva rigettato dalla Corte di Appello di Torino con sentenza in data 8 febbraio 1995.

C.M. proponeva ricorso per Cassazione, che questa S.C. accoglieva con sentenza in data 18 marzo 1997, n. 2885, ritenendo insufficiente la motivazione con la quale era stata esclusa la simulazione dell’atto in data 6 agosto 1980 ed insussistente in ordine alla subordinata ipotesi della configurabilità di un negotium mixtum cum donatione.

C.M. provvedeva alla riassunzione del giudizio davanti alla Corte di Appello di Torino, che con sentenza non definitiva in data 6 agosto 2001 escludeva la sussistenza della simulazione dell’atto in data 6 agosto 1980 e disponeva l’ulteriore corso del giudizio al fine di accertare la sussistenza o meno di un negotium mixtum cum donatione.

Contro tale decisione C.M., dopo avere fatto riserva di impugnazione, proponeva ricorso immediato e tale ricorso è stato dichiarato inammissibile da questa S.C. con sentenza in data 30 marzo 2006 n. 7502.

Con sentenza in data 15 novembre 2002 la Corte di Appello di Torino, frattanto, aveva ritenuto, sulla base della C.T.U. all’uopo disposta, che con l’atto in data 6 agosto 1980 era stato realizzato un negotium mixtum cum donatione, che, costituendo donazione indiretta, non era soggetto ai requisiti di forma previsti per le donazioni dirette.

A questo punto si poneva il problema di individuare la quota di riserva spettante a C.M. in una situazione caratterizzata dal fatto che la legittima nel suo complesso era pari ai due terzi dell’asse ereditario, avendo B.L. lasciato due figli superstiti e tre nipoti destinati a subentrare per rappresentazione alla terza figlia, ma questi ultimi non erano venuti alla successione.

In sostanza, si trattava di stabilire se la quota pari ai 2/9 in teoria spettante a E., A. e K.M.R. si doveva accrescere in favore delle altre due quote pari a 2/9 ciascuna spettanti a C.M. e C.V..

La Corte di Appello di Torino dava risposta negativa a tale quesito in base alla seguente motivazione:

ÿ vero che la mancata accettazione dell’eredità dei nipoti K. è venuta ad equivalere ad una rinuncia, ma la quota di legittima che è riservata dalla legge non può essere modificata dalla rinuncia di altri eredi. E questo per una serie di ragioni tra loro autonome.

In primo luogo il dato letterale della disposizione normativa.

L’art. 537 c.c., che dispone la riserva a favore dei legittimar parla di figli e non di eredi accettanti.

In secondo luogo vale la "ratio" della disposizione normativa.

Riservando ai figli una parte del patrimonio la legge ha per, per così dire, posto un limite inderogabile alla volontà del testatore, nel senso che gli ha impedito di escludere totalmente il passaggio dei suoi beni ai figli col predeterminare a favore di questi ultimi delle quote minime di riserva.

Peraltro la mancata accettazione di un erede non può costituire un ulteriore elemento di coartazione della volontà del testatore.

In terzo luogo, se è vero che la mancata accettazione dei nipoti K. ha comportato la prescrizione decennale del diritto, tuttavia la prescrizione non può essere rilevata di ufficio.

Contro tale decisione, nonchè contro la sentenza non definitiva in 6 agosto 2001, C.M. ha proposto ricorso per Cassazione, ripetendo, per quanto riguarda la sentenza non definitiva, il motivo del ricorso già proposto contro la stessa sentenza ed investendo con tre motivi la sentenza definitiva.

C.V. ha resistito con controricorso ed ha anche proposto ricorso incidentale, con un unico motivo, al quale resiste con controricorso C.M..

Con ordinanza in data 22 aprile 2005 la Sezione Seconda Civile di questa S.C. ha rimesso gli atti al Primo Presidente al fine di valutare l’opportunità di assegnare la causa alle Sezioni Unite, in considerazione del fatto che ai fini della decisione occorre risolvere alcune questioni di particolare rilevanza giuridica, cui la dottrina da contrastanti soluzioni e che non sono state affrontate ex professo da questa S.C.; in particolare occorre stabilire: a) quale sia il criterio di determinazione della quota di riserva nella ipotesi in cui vi siano più legittimari pretermessi, dei quali uno solo abbia esperito l’azione di riduzione delle disposizioni testamentarie; b) se a tale ipotesi possa ritenersi applicabile l’art. 522 cod. civ..

Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi.

Con l’unico motivo del ricorso principale diretto contro la sentenza non definitiva C.M. censura la motivazione con la quale la Corte di Appello di Torino ha escluso che la vendita effettuata in data 6 agosto 1980 da B.M.L. a C.V. dissimulasse una donazione nulla per difetto di forma.

La doglianza è infondata.

La ricorrente in via principale, infatti, da un lato, propone una diversa valutazione delle prove testimoniali rispetto a quella effettuata dai Giudici di merito, mentre, invece, ai fini della sussistenza del denunciato vizio di motivazione avrebbe dovuto chiarire come le conclusioni cui la Corte di Appello di Torino è pervenuta non siano congruenti, dal punto di vista logico, con il contenuto delle prove testimoniali ritenute attendibili; dall’altro, pretende che assurgano al livello di presunzioni elementi indiziari dal valore probatorio non univoco.

Con il primo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva C.M. censura la valutazione del donatimi data dai Giudici di merito e deduce testualmente:

Con riferimento alla sentenza n. 1609/2002 occorre quindi osservare come la Corte di Appello di Torino ha, a sommesso parere dell’esponente, omesso di considerare che l’operazione posta in essere, cioè la vendita a prezzo vile della nuda proprietà dell’immobile, abbia comportato un duplice beneficio in favore del C.V.: uno immediato cioè l’acquisto a prezzo di gran lunga inferiore al reale della nuda proprietà dell’immobile, il secondo differito al momento in cui, con il decesso della de cuius, il V. sarebbe divenuto nudo proprietario dell’immobile.

Per calcolare quindi correttamente il beneficio ricevuto la Corte di Appello avrebbe dovuto relazionare il prezzo pattuito e ritenuto pagato nell’? al valore della piena proprietà dell’immobile al tempo dell’apertura della successione.

La Corte di Appello ha invece effettuato un calcolo aritmetico attraverso il quale viene semplicemente trasposta la percentuale del prezzo asseritamele pagato nel ? sul valore della nuda proprietà a quella data per concludere che nella medesima percentuale è da considerare il beneficio ricevuto dal donatario al momento in cui l’usufrutto si consolidò nella nuda proprietà.

In realtà sarebbe stato corretto, giusto il disposto della norma di cui all’art. 747 c.c., in punto momento che deve aversi presente per la valutazione del valore dell’immobile, calcolare il valore della donazione e quindi la quota del bene immobile oggetto di donazione alla data dell’apertura della successione.

Poichè nel tempo la svalutazione del denaro e la rivalutazione dei beni immobili in termini di valore nominale non ha andamento sempre coincidente (e poi ogni immobile – bene in fungibile per eccellenza – fa storia a sè), e in ogni caso, poichè con la consolidazione dell’usufrutto il beneficio ricevuto dal donatario è individuabile nella piena proprietà del bene, la quota del donatum doveva essere effettuata parametrando il sacrificio economico sopportato dal C.V. ? al beneficio ricevuto all’apertura della successione (ovvero il valore della piena proprietà dell’immobile al tempo dell’apertura della successione).

La Corte di Appello di Torino ha invece del tutto omesso detta operazione trasfondendo la percentuale del "pagato" sul valore della nuda proprietà al ? alla quota ideale di donazione (e infatti ? rappresentano proprio il 22,22% – la Corte ha finito con l’arrotondare a 22,25% – di 168.750.000 valore della nuda proprietà al ? secondo il seguente calcolo aritmetico 168.750.00/100 = 1.687.500; 37.500.000/1.687.500 = 22,22).

Il Giudice del merito ha quindi concluso che il donatum fosse una quota ideale pari al 77,75% (100-22,25) dell’immobile.

Detto criterio di calcolo non tiene in nessun conto il criterio di cui al citato art. 747 c.c. e soprattutto non considera che con il decesso dell’usufruttuaria il donante ha conseguito l’ulteriore beneficio della consolidazione dell’usufrutto.

L’esponente aveva proposto invece il seguente diverso criterio di calcolo: somma di 37.500.000; rivalutata al ? pari a L. 76.500.000;=.

Detta somma rivaluta rappresenta una percentuale del 12,96% del valore alla stessa data della piena proprietà del compendio immobiliare (590.000.000).

Ne derivava quindi che la percentuale del donatum era da individuarsi nell’87,04% e non già nella minore percentuale del 77,75.

Anche a non voler condividere detto criterio di calcolo, in ogni caso, il Giudice del merito avrebbe dovuto individuare criteri atti a rapportare, come sopra visto, il presunto sacrificio economico del C.V. al ? con il beneficio complessivo da calcolarsi al momento dell’apertura della successione.

Il motivo, a prescindere dalla sua teorica fondatezza o meno, è inammissibile, in quanto investe una questione che non risulta trattata nella sentenza impugnata, nè viene espressamente denunciata una omessa pronuncia, il che sarebbe stato necessario, in considerazione delle conclusioni che risultano formulate nell’epigrafe della sentenza impugnata.

Con il secondo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva C.M. sostiene che nella specie il negotium mixtum cum donatione doveva considerarsi nullo per difetto di forma, in applicazione del criterio della c.d. prevalenza.

Il motivo è infondato, alla stregua quantomeno della più recente giurisprudenza di questa S.C., la quale ha affermato che per il negotium mixtum cum donatione non è necessaria la forma dell’atto pubblico richiesta per la donazione diretta, essendo, invece, sufficiente la forma dello schema negoziale adottato, senza far menzione del criterio della c.d. prevalenza (cfr. sent. 21 gennaio 2000 n. 642; 10 aprile 1999 n. 3499).

Con il terzo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva C.M. ripropone la tesi secondo la quale il mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte dei nipoti ex sorore comportava l’accrescimento (anche) in suo favore della quota di legittima agli stessi in teoria spettante.

Si tratta del problema con riferimento al quale la causa è stata assegnata a queste Sezioni Unite.

Questa S.C. ha avuto occasione di affermare che se più sono i legittimari (nell’ambito della categoria dei discendenti), ciascuno ha diritto ad una frazione della quota di riserva e non all’intera quota, o comunque ad una frazione più ampia di quella che gli spetterebbe se tutti gli altri (non) facessero valere il loro diritto (sent. 22 ottobre 1975 n. 3500, 1978 n. 5611).

Tale orientamento, peraltro, si pone in implicito contrasto con la giurisprudenza formatasi con riferimento alla ipotesi in cui disponibile e legittima variano in funzione della esistenza di più categorie di legittimari o del numero di legittimari nell’ambito di una stessa categoria.

Ad es., in base all’art. 542 cod. civ., comma 1, se chi muore lascia, oltre al coniuge, un solo figlio, legittimo o naturale, a quest’ultimo è riservato un terzo del patrimonio ed un altro terzo spetta al coniuge; in base all’art. 542 cod. civ., comma 2, quando, invece, i figli, legittimi o naturali, sono più di uno, ad essi è complessivamente riservata la metà del patrimonio ed al coniuge spetta un altro quarto.

Con riferimento ad entrambe le ipotesi si pone il problema se il mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte del coniuge pretermesso comporta che la legittima dell’unico figlio o dei piùfigli si "espanda", diventando rispettivamente pari alla metà o ai due terzi del patrimonio del de cuius, secondo quando previsto dall’art. 537 cod. civ., comma 1 e 2.

Con riferimento alla ipotesi prevista dal primo comma dell’art. 542 cod. civ., si pone il problema se il mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte dell’unico figlio comporta la espansione della legittima del coniuge, in modo da farle raggiungere la misura prevista dall’art. 540 cod. civ., comma 1.

Con riferimento, infine all’ipotesi prevista dall’art. 542 cod. civ., comma 2, si pone il problema se l’esperimento dell’azione di riduzione da parte di uno solo dei figli comporta che la legittima allo stesso spettante debba essere determinata secondo quanto disposto dal comma 1.

La giurisprudenza di questa S.C. si è mostrata favorevole alla tesi della c.d. espansione della quota di riserva con riferimento all’ipotesi di mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte del coniuge superstite (sent. 26 ottobre 1976 n. 3888; 9 marzo 1987 n. 2434; 11 febbraio 1995 n. 1529).

Si è, in proposito, affermato (sent. 9 marzo 1987, cit.) che .. occorre tenere presente che, a norma dell’art. 521 c.c., la rinunzia all’eredità è retroattiva nel senso che l’erede rinunziante si considera come se non fosse mai stato chiamato all’eredità. ÿ dunque impossibile far riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione, dal momento che tale situazione è soggetta a mutare, per effetto di eventuali rinunzie, con effetto retroattivo. ÿ quindi alla situazione concreta che occorre far riferimento, e non a quella teorica, riferita al momento dell’apertura della successione, indipendentemente dalle vicende prodottesi in seguito; devesi dunque far riferimento agli eredi che concretamente concorrono nella ripartizione dell’asse ereditario e non a quelli che in teoria a tale riparto avrebbero potuto partecipare.

Tale orientamento è conforme a quanto sostenuto in dottrina, in cui ugualmente si è invocato il principio della retroattività della rinuncia fissato nell’art. 521 c.c. e si è sostenuto che un argomento a favore dello stesso sarebbe desumibile dall’art. 538 cod. civ., che regola la riserva spettante agli ascendenti "se chi muore non lascia figli legittimi", in quanto la norma dovrebbe applicarsi soltanto nel caso in cui l’ereditando non abbia avuto figli o questi siano tutti presenti o assenti; se invece sopravvivessero figli capaci di succedere e tutti rinunziassero, si dovrebbe concludere nel senso che o rimane ferma a beneficio degli ascendenti la quota riservata di due terzi stabilita dall’art. 537 c.c., oppure che non sorge alcun diritto di riserva in favore degli ascendenti, conclusioni, l’una e l’altra, evidentemente inammissibili.

Si tratta di un orientamento che il collegio ritiene di non poter condividere.

Appare, in primo luogo, inopportuno il richiamo agli effetti della rinuncia di uno dei chiamati in tema di successione legittima, secondo quanto previsto dagli artt. 521 e 522 cod. civ., per vari motivi.

Nella successione legittima il c.d. effetto retroattivo della rinuncia di uno dei chiamati e il conseguente accrescimento in favore degli accettanti trovano una spiegazione logica nel fatto che, diversamente, non si saprebbe quale dovrebbe essere la sorte della quota del rinunciante.

La situazione è ben diversa con riferimento alla c.d. successione necessaria.

Il legislatore, infatti, si è preoccupato di far sì che ad ognuno dei legittimari considerati venga garantita una porzione del patrimonio del de cuius anche contro la volontà di quest’ultimo.

Mancando una chiamata congiunta ad una quota globalmente considerata con riferimento alla ipotesi di pluralità di riservatari (ed anzi essendo proprio la mancanza di chiamata ereditaria il fondamento della successione necessaria), da un lato, viene a cadere il presupposto logico di un teorico accrescimento, e, dall’altro, non esistono incertezze in ordine alla sorte della quota (in teoria) spettante al legittimario che non eserciti l’azione di riduzione: i donatari o gli eredi o i legatari, infatti, conservano una porzione dei beni del de cuius maggiore di quella di cui quest’ultimo avrebbe potuto disporre.

La lettera della legge, poi, costituisce un ostacolo insormontabile per l’adesione alla tesi finora sostenuta in dottrina ed in giurisprudenza.

Dalla formulazione degli artt. 537 c.c., comma 1 ("se il genitore lascia"), 538 c.c., comma 1 ("se chi muore non lascia"), 542 c.c., comma 1 ("se chi muore lascia"), 542 c.c., comma 2 ("quando chi muore lascia"), risulta chiaramente che si deve fare riferimento, ai fini del calcolo della porzione di riserva, alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione; non viene preso, invece, in considerazione, a tal fine, l’esperimento dell’azione di riduzione da parte di alcuno soltanto dei legittimari.

Mancano, pertanto, le condizioni essenziali (esistenza di una lacuna da colmare e possibilità di applicare il principio ubi eadem ratio ibi eadem legis dispositio) per una estensione in via analogica delle norme in tema di successione legittima.

La tesi criticata, poi, sembra in contrasto con la ratio ispiratrice della successione necessaria, che non è solo quella di garantire a determinati parenti una porzione del patrimonio del de cuius, ma anche (come rovescio della medaglia) quella di consentire a quest’ultimo di sapere entro quali limiti, in considerazione della composizione della propria famiglia, può disporre del suo patrimonio può disporre in favore di terzi. ÿ evidente che l’esigenza di certezza in questione non verrebbe soddisfatta ove tale quota dovesse essere determinata, successivamente all’apertura della successione, in funzione del numero di legittimar che dovessero esperire l’azione di riduzione.

Non possono, poi, essere taciuti gli inconvenienti pratici connessi alla adesione della c.d. espansione della quota di riserva.

Occorre, a tal fine, partire dalla considerazione che l’esercizio dell’azione di riduzione è soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale e che non è prevista una actio interrogatoria, al contrario di quanto avviene con riferimento all’accettazione dell’eredità (art. 481 cod. civ.). Ne consegue che all’apertura della successione ogni legittimario può esperire l’azione di riduzione solo con riferimento alla porzione del patrimonio del de cuius che gli spetterebbe in base alla situazione familiare di quest’ultimo a tale momento. Solo dopo la rinunzia all’esercizio dell’azione di riduzione da parte degli altri legittimari o la maturazione della prescrizione in danno degli stessi potrebbe agire per ottenere un supplemento di legittima, con evidente incertezza medio tempore in ordine alla sorte di una quota dei beni di cui il de cuius ha disposto per donazione o per testamento a favore di terzi.

Nè utili argomenti a favore della tesi criticata possono desumersi dall’art. 538 cod. civ..

In primo luogo, nel ragionamento sopra trascritto è incomprensibile il riferimento ad una quota pari a due terzi riservata in favore dagli ascendenti dall’art. 537 cod. civ., dal momento che tale disposizione fa riferimento alla quota riservata ai figli legittimi o naturali.

Non si comprende, poi, perchè sarebbe inammissibile la conclusione (cui si perverrebbe aderendo alla tesi che il collegio ritiene preferibile) secondo la quale, ove sopravvivessero al de cuius figli legittimi e tutti rinunziassero non sorgerebbe alcun diritto di legittima a favore degli ascendenti.

Va, innanzitutto, rilevato che non è chiaro se la rinunzia viene riferita all’accettazione dell’eredità o all’esperimento dell’azione di riduzione.

Nel primo caso un problema di tutela degli ascendenti non si porrebbe neppure, in quanto in loro favore di aprirebbe la successione legittima ex art. 569 cod. civ., dovendo i figli legittimi, a seguito della rinunzia all’eredità, considerarsi come mai chiamati alla successione.

Nel secondo caso la esclusione della configurabilità di una quota di riserva in favore degli ascendenti sarebbe espressione della scelta del legislatore di garantire il conseguimento di una quota del patrimonio del de cuius solo ai parenti più prossimi (oltre che al coniuge) esistenti al momento dell’apertura della successione. I parenti di grado successivo, che sono considerati come legittimar solo in mancanza di quelli di grado più vicino, pertanto, non possono essere rimessi in corsa in caso di mancato esercizio dell’azione di riduzione da parte di questi ultimi.

In definitiva, il legislatore ha considerato iniquo il fatto che il de cuius disponga dell’intero suo patrimonio a favore di estranei nel caso in cui abbia solo discendenti o solo ascendenti; non ha considerato, invece, iniquo il fatto che rimangano fermi gli atti con i quali il de cuius, il quale lasci discendenti e ascendenti, abbia disposto dell’intero suo patrimonio a favore di estranei, nel caso in cui i discendenti (unici legittimari considerati) non esperiscano l’azione di riduzione.

Alla luce delle considerazioni svolte si può, pertanto, concludere che ai fini della individuazione della quota di riserva spettante alle singole categorie di legittimari e ai singoli legittimari nell’ambito della stessa categoria occorre fare riferimento alla situazione esistente al momento dell’apertura della successione e non a quella che si viene a determinare per effetto del mancato esperimento (per rinunzia o prescrizione) dell’azione di riduzione da parte di qualcuno dei legittimari.

Alla luce delle considerazioni svolte è evidente che anche il terzo dei motivi del ricorso principale diretti contro la sentenza definitiva va rigettato.

Con l’unico motivo del ricorso incidentale C.V. si duole del fatto che la Corte di Appello di Torino, per quanto riguarda la valutazione dell’immobile oggetto della vendita in data ?, nella quale è stata individuato un negotium mixtum cum donatione, e la rivalutazione dello stesso al momento dell’apertura della successione, abbia recepito le conclusioni del C.T.U., senza tenere conto delle critiche rivolte all’operato dello stesso.

Il motivo è infondato, in quanto non viene specificamente censurata la esattezza dell’elemento decisivo sul quale si sono fondate le valutazioni del C.T.U. recepite dalla sentenza impugnata e cioè i dati compartivi desumibili dal mercato immobiliare per costruzioni similari, in base anche alle concrete risultanze ancora in possesso delle agenzie immobiliari operanti in loco.

In definitiva, entrambi i ricorsi vanno rigettati.

In considerazione della problematicità della questione con riferimento alla quale il ricorso è stato assegnato alla Sezioni Unite di questa S.C., ritiene il collegio che sussistano giusti motivi per la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

la Corte riunisce e li rigetta; compensa le spese.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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