Cass. civ. Sez. III, Sent., 31-01-2012, n. 1366 Prelazione

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Svolgimento del processo

I fatti di causa possono così ricostruirsi sulla base della sentenza impugnata.

So.Sa. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Pordenone C.B. e S.A. rispettivamente, venditore e acquirente, con atto di compravendita del 19 gennaio 2000, di fondi confinanti con altri di sua proprietà, in relazione ai quali egli non era stato posto in condizione di esercitare la prelazione attribuitagli dal comb. disp. della L. n. 590 del 1965, art. 8 e L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7 – chiedendo che venisse accertato e dichiarato il suo diritto di riscattarli e che il C. venisse altresì condannato a risarcirgli i danni.

I convenuti, costituitisi in giudizio, contestarono le avverse pretese.

Con sentenza del 28 aprile/10 maggio 2004 il giudice adito rigettò la domanda. Proposto gravame dal soccombente, la Corte d’appello di Trieste, in data 22 agosto 2009, in parziale riforma della decisione impugnata, ha accertato e dichiarato il diritto di So.Sa. a riscattare i fondi di cui ai mappali numero 52 e numero 53 del folio n. 16, rigettando la domanda di riscatto dei predi di cui ai mappali numero 80 e numero 51.

Avverso detto pronuncia ricorre per cassazione S.A., formulando tre motivi e notificando l’atto a So.Sa. e a C.B.. Solo il primo ha notificato controricorso, mentre nessuna attività difensiva ha svolto l’altro intimato.

Motivi della decisione

1 Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 163 cod. proc. civ., comma 5, artt. 184, 345 cod. proc. civ., e art. 111 Cost., , nonchè vizi motivazionali, con riferimento all’ammissione di nuove prove in appello. Evidenzia che la Corte territoriale ha fondato la sua decisione su documenti prodotti solo in sede di gravame, laddove l’ambito di valutazione della indispensabilità dei documenti nuovi di cui sia richiesta l’acquisizione in appello, andrebbe mantenuto nei limiti consentiti dal rispetto del sistema di preclusioni che regolano il giudizio di primo grado, pena il sovvertimento, attraverso l’intervento del giudice, delle regole in materia di onere della prova. In ogni caso il decidente avrebbe dovuto dare conto dell’esercizio dei suoi poteri discrezionali sul punto.

2 Le critiche sono infondate.

Le sezioni unite di questa Corte, nell’affermare l’estensione dell’area normativa dell’art. 345 cod. proc. civ., anche alle produzioni documentali, in un contesto ordinamentale che, all’epoca, ancora non ve le includeva espressamente, ebbero a rimarcare i limiti della sancita inammissibilità, limiti da ravvisarsi in due condizioni previste in via alternativa: la dimostrazione che le parti non avevano potuto proporli prima per causa ad esse non imputabile, ovvero il convincimento del giudice della indispensabilità degli stessi ai fini della decisione (confr. Cass. civ. sez. un. 20 aprile 2005, n. 8203).

A tale secca enunciazione di principio il collegio ritiene di aderire, non essendo superabile l’inequivoco dato testuale costituito dall’uso, nel corpo della disposizione in discorso, del termine ovvero, in chiave chiaramente disgiuntiva e quindi, sul piano logico, alternativa, delle due condizioni in discorso.

A ciò aggiungasi che la legittimazione razionale della disciplina dettata dall’art. 345 cod. proc. civ., per come sin qui interpretata dalla giurisprudenza di questa Corte, in un sistema che pure vede il giudizio di primo grado caratterizzato da preclusioni via via più stringenti, si spiega agevolmente proprio con riguardo ai documenti, in ragione della particolare liquidità della prova da essi di regola offerta e dunque della possibilità di conseguire un obiettivo di giustizia sostanziale senza penalizzare affatto, o senza penalizzare troppo, il principio della ragionevole durata del processo.

3 Quanto poi ai rilievi critici, formulati nel lungo e articolato motivo, in ordine alla necessità che l’esercizio dei poter discrezionali attribuiti dall’art. 345 cod. proc. civ., avvenga, in ogni caso, attraverso un provvedimento motivato, provvedimento che, nella fattispecie, sarebbe mancato, è sufficiente rilevare che la Corte territoriale ha ravvisato nei documenti prodotti in sede di gravame il connotato di indispensabilità di cui alla norma processuale testè richiamata, in ragione della finalizzazione di quei documenti alla prova, non offerta in primo grado, di due dei requisiti fondamentali al vittorioso esperimento del diritto di riscatto: la sussistenza della qualifica di coltivatore diretto, in capo al riscattante, e l’assenza della vendita di fondi rustici nei due anni precedenti alla proposizione della domanda.

Tanto basta, a giudizio del collegio, per ritenere soddisfatto l’onere motivazionale imposto dall’art. 345 cod. proc. civ..

3 Con il secondo mezzo l’impugnante denuncia violazione della L. 26 maggio 1965, n. 590, art. 8 e dell’art. 2697 cod. civ., nonchè mancanza, insufficienza e contradditorietà della motivazione in ordine alla sussistenza dei requisiti per l’esercizio del diritto di riscatto. Si duole l’esponente che la Corte d’appello abbia ritenuto dimostrata la qualità di coltivatore diretto del So. sulla base delle certificazioni dallo stesso prodotte, così facendo malgoverno della giurisprudenza di legittimità che costantemente evidenzia l’insufficienza di attestazioni anagrafiche o amministrative, dovendo la prova in discorso essere fornita in concreto. In ogni caso sarebbe del tutto mancato l’accertamento che il riscattante disponeva di forza lavorativa non inferiore a un terzo di quella occorrente per la normale necessità di coltivazione del fondo e per l’allevamento del bestiame; che lo stesso fosse effettivamente e direttamente dedito alla coltivazione dei fondi confinanti; che sul fondo oggetto di retratto non fossero insediati mezzadri, coloni e/o affittuari, aventi un diritto di prelazione di grado poziore; che la trascrizione dell’acquisto del So. fosse antecedente a quello dell’atto di compravendita tra C.B. e S.A..

4 Le critiche sono fondate nei sensi che qui di seguito si vanno a precisare.

La Curia territoriale ha ritenuto indubitabile, stante il tenore delle certificazioni prodotte, che il So. fosse in possesso del requisito di coltivatore diretto di numerosi fondi di sua proprietà;

ed altresì dimostrato che sui predi oggetto di riscatto non fossero insediati affittuari, coloni o mezzadri aventi essi stessi diritto di prelazione. Sotto quest’ultimo riguardo ha giudicato contraddittorio l’esito delle prove testimoniali, segnatamente evidenziando come da esse emergesse che lo S. si limitava a coadiuvare transitoriamente il C. nell’attività di coltivazione e che tale circostanza era avvalorata sia dall’ambiguità della scrittura concernente il preteso rapporto di affittanza, priva di data certa, sia, soprattutto, dalla presentazione, a iniziativa del C., e non dello S., della domanda per l’erogazione dei contributi comunitari. Ha quindi evidenziato che solo relativamente a due mappali esisteva il requisito della confinanza, necessario al vittorioso esperimento del retratto, come accertato dal consulente tecnico.

5 A fronte di tale percorso motivazionale osserva il collegio che le critiche, nella parte in cui contestano la rilevanza probatoria attribuita alle certificazioni prodotte, sono prive di autosufficienza. Vale infatti il criterio per cui il ricorrente per cassazione, il quale intenda dolersi dell’omessa o erronea valutazione di un documento da parte del giudice di merito, ha il duplice onere – imposto dall’art. 366 cod. proc. civ., comma 1, n. 6 – di produrlo agli atti e di indicarne il contenuto. Il primo onere, riguardante il c.d. contenente, va adempiuto indicando esattamente nel ricorso in quale fase processuale e in quale fascicolo di parte si trovi il documento in questione; il secondo deve essere assolto trascrivendo o riassumendo nel ricorso il contenuto del documento. La violazione anche di uno soltanto di tali oneri rende il ricorso inammissibile (confr. Cass. civ., 23 marzo 2010, n. 6937; Cass. civ. 4 settembre 2008, n. 22303; Cass. civ. 12 giugno 2008, n. 15808;

Cass. civ. 25 maggio 2007, n. 12239).

E parimenti le censure non colgono nel segno laddove ne è oggetto la negativa valutazione del giudice di merito in ordine alla prova dell’insediamento sul fondo di affittuari, mezzadri o coloni con diritto di prelazione di grado poziore, avendo il decidente ampiamente ed esaustivamente illustrato le ragioni del proprio convincimento. E non par dubbio che il relativo apprezzamento, in quanto congruamente motivato, è incensurabile in sede di legittimità.

Infine, le critiche relative al mancato accertamento dell’epoca della trascrizione dell’acquisto del So. introducono una questione non trattata nella sentenza impugnata, e quindi nuova. Il ricorrente, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, aveva pertanto l’onere non solo di allegarne l’avvenuta deduzione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione, di indicare in quale atto del giudizio precedente lo aveva fatto, onde dar modo alla Corte di controllare de visu la veridicità di tale asserzione (confr. Cass. civ. sez. lav. 28 luglio 2008, n. 20518; Cass. civ. 1, 31 agosto 2007, n. 18440). Invece la prospettazione è svolta in chiave di insufficienza dell’attività cognitiva e valutativa del decidente, senza che sia dato conoscere se la deduzione era stata oggetto di una specifica eccezione volta a contrastare la domanda di retratto e quindi se la questione era compresa nel thema decidendum e nel thema probandum del giudizio di appello.

6 Vero è invece che la Corte territoriale ha completamente omesso di accertare se il So. coltivasse direttamente, da almeno un biennio, i fondi confinanti con quelli offerti in vendita con lavoro prevalentemente proprio e della propria famiglia, laddove tale condizione è specificamente richiesta dalla L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7. Valga al riguardo considerare che, come ripetutamente affermato da questa Corte, per il vittorioso esperimento della procedura, non è sufficiente che il prelazionante eserciti altrove l’attività di agricoltore, in quanto l’intento perseguito dal legislatore è l’ampliamento dell’impresa coltivatrice diretta finitima e non l’acquisto della proprietà della terra da parte di qualsiasi coltivatore diretto: da parte, in particolare, di chi eserciti l’attività di coltivatore su fondi diversi da quelli confinanti (confr. Cass. civ. 15 marzo 2011, n. 6017; Cass. civ., 27 gennaio 2010, n. 1712; Cass. civ. 4 giugno 2007, n. 12934; Cass. civ. 16 giugno 2005, n. 12963; Cass. civ. 27 luglio 2002, n. 11134).

Ne deriva che, in accoglimento, per quanto di ragione, del secondo motivo di ricorso, nel quale resta assorbito il terzo, volto a contestare la compensazione delle spese di causa, la sentenza impugnata deve essere cassata, con rinvio al giudice di merito che provvederà anche sulle spese del presente giudizio e che, nel decidere, si atterrà al seguente principio di diritto: ai fini dell’esercizio della prelazione agraria da parte del proprietario confinante, ai sensi della L. 14 agosto 1971, n. 817, art. 7, è necessario non solo che egli rivesta la qualifica di coltivatore diretto, ma anche che coltivi direttamente da almeno un biennio il fondo adiacente a quello posto in vendita, non essendo sufficiente che egli eserciti altrove l’attività di agricoltore.

P.Q.M.

La Corte rigetta il primo motivo di ricorso; accoglie il secondo, assorbito il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del giudizio di cassazione, alla Corte d’appello di Trieste in diversa composizione.

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