Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 05-07-2011) 23-09-2011, n. 34671 Detenzione abusiva e omessa denuncia

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con ordinanza 25-10-2010 la Corte d’Assise d’Appello di Catania ripristinava nei confronti di T.L., ex art. 300 c.p.p., comma 5, la custodia cautelare in carcere, già dichiarata inefficace per effetto dell’assoluzione del predetto dall’omicidio di R. D., e connessi reati in materia di armi. Ripristino dovuto al fatto che T., a seguito di annullamento da parte di questa corte di precedenti sentenze nei suoi confronti, riportava, in data 25-10-2010, condanna per tali reati alla pena di anni 26 di reclusione.

Il Tribunale del riesame di Catania, adito con richiesta di riesame, con provvedimento 28-1-2011 la qualificava come appello richiamando giurisprudenza di questa corte sul punto (Cass. 23061/2002) e la rigettava sull’assunto della ricorrenza tanto del pericolo di reiterazione – presunto ex art. 275 c.p.p., comma 3, ma sussistente anche in concreto (gravità del fatto maturato in contesto mafioso per sventare il tentativo della vittima di allontanarsi dal gruppo)-, che del pericolo di fuga (fondato sulla pericolosità del soggetto, accertato componente di sodalizio mafioso; sulla notevole entità della pena comminata; sulla seconda condanna dopo quella annullata, che rendeva più concreta la possibilità di esecuzione della pena).

Ricorre T., per il tramite dell’avv. Saverio La Grua, deducendo, sul punto del tipo di impugnazione esperibile, erronea applicazione della legge penale e inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, inammissibilità ecc, vizi la cui sussistenza motiva con varie argomentazioni e richiami normativi e giurisprudenziali intesi a sostenere che l’applicazione di misura cautelare ex art. 300 c.p.p., comma 5, è del tutto autonoma rispetto a quella caducata per effetto di sentenza di proscioglimento, soffermandosi sulla disparità di trattamento, cui l’interpretazione condivisa dal tribunale darebbe luogo, tra l’imputato cui la misura fosse applicata per la prima volta in grado di appello, e quello che avesse già subito in precedenza una limitazione della libertà personale.

Si chiede quindi la caducazione del provvedimento ex art. 309 c.p.p., comma 10. Con riferimento al pericolo di reiterazione del reato e al pericolo di fuga, si deducono gli stessi due vizi.

Quanto al primo, si contesta l’applicazione della presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3, applicabile solo in caso di prima applicazione della misura, e non nel caso di misura ripristinatoria di precedente. Comunque la sola valutazione della gravità del fatto e il contesto mafioso sono qualificati insufficienti, in assenza della considerazione dell’epoca del reato (assai risalente), del venir meno dell’attualità del vincolo associativo (il gruppo, numericamente ridotto, si è completamente sfaldato) e di altri elementi a sostegno dell’attuale pericolosità (l’imputato è rimasto in libertà per oltre cinque anni senza che il suo comportamento desse luogo a rilevi).

Sul pericolo di fuga, si osserva che l’entità della pena è insufficiente, essendo solo uno dei possibili elementi sintomatici, e si evidenzia che il fatto è avvenuto dodici anni fa, con conseguente irrilevanza, in ordine al pericolo di fuga, del contesto mafioso e dei motivi dell’omicidio.

Si chiede quindi l’annullamento dell’ordinanza e la liberazione del T..

Motivi della decisione

Il ricorso è infondato e va disatteso.

La questione di diritto posta dal ricorrente è se il provvedimento applicativo di misura cautelare coercitiva ex art. 300 c.p.p., comma 5, sia impugnabile con richiesta di riesame oppure mediante appello, soluzione quest’ultima condivisa nell’ordinanza gravata.

La tesi sostenuta dal difensore di T., imperniata sull’autonomia dell’applicazione della misura rispetto a quella caducata per effetto di sentenza di proscioglimento, va invece nel contrario senso della soggezione del relativo provvedimento a riesame.

Ad avviso del collegio, tale assunto si scontra in primo luogo con la collocazione della previsione nell’ambito della norma dedicata all’estinzione delle misure per effetto di determinate sentenze, estinzione che paralizza l’efficacia della misura, senza incidere sulla sua validità. Se il legislatore avesse inteso recidere qualunque collegamento tra la prima e la seconda applicazione della misura, la disposizione di cui all’art. 300 c.p.p., comma 5. sarebbe stata superflua, in quanto la possibilità di applicazione ex novo sarebbe stata regolata dalle disposizioni generali in tema di misure cautelari personali. La disposizione in esame e la sua collocazione depongono quindi nel senso della voluntas legis di stabilire un legame tra i due provvedimenti, rendendo il secondo una reiterazione del primo – genetico della misura -, rimasto inoperativo per sopravvenuta inefficacia, impregiudicata la sua validità.

La successiva applicazione delle misura a seguito di sentenza di condanna, configurandosi dunque come un ripristino della precedente, è conseguentemente soggetta al rimedio dell’appello, secondo la qualificazione attribuita dal tribunale del riesame di Catania all’impugnazione proposta da T..

Qualificazione in linea con l’orientamento espresso in tal senso da questa corte, sul rilievo che, essendo la perdita di efficacia correlata ad un fatto esterno alla misura, la successiva applicazione di essa è una "riemissione" della precedente, rimasta paralizzata a seguito dell’assoluzione (Cass. 23061/2002).

Del resto tale indirizzo non è significativamente contrastato da altre pronunce, non essendo convincente, in particolare, la sentenza n. 842/1999 che, accomunando senza distinzione tutte le ordinanze applicative di misura cautelare per qualunque ragione caducate (ma relativa al caso di provvedimento annullato a seguito di ricorso per cassazione: punto sul quale vedi oltre), le assoggetta al rimedio del riesame sul solo rilievo del dato testuale di cui all’art. 309 c.p.p., (che assoggetta a riesame l’ordinanza che dispone una misura coercitiva, anzichè l’ordinanza che dispone per la prima volta una misura coercitiva), ma senza ulteriori approfondimenti della ratio dell’istituto.

Non affronta, d’altro canto, la questione, la pronuncia evocata nel ricorso (Cass. 3092/2000), relativa ad un caso di riesame di provvedimento emesso ai sensi dell’art. 300 c.p.p., comma 5, in cui il tipo di impugnazione proposta non era stato però messo in discussione.

Per contro avvalora la soluzione qui prescelta la circostanza che, come del resto riconosciuto dal ricorrente, la giurisprudenza sia pacifica sull’appellabilità del provvedimento applicativo della misura a seguito di scarcerazione per decorrenza dei termini (Cass. 12-4-1996, Miceli, riv. 205672; Cass. 2022/1997), caso analogo al presente, essendo entrambi caratterizzati dall’effetto paralizzante esercitato sulla misura da un fattore esterno, estraneo alla validità del titolo, e non incidente nel merito dello stesso.

Nè avvalora l’opposta tesi, sostenuta nel ricorso, l’asserita omogeneità della previsione di cui all’art. 300 c.p.p., comma 5 con quella di cui all’art. 275 c.p.p., comma 1 bis, data la diversità di sedes materiae delle due disposizioni.

Del pari inidoneo a sostenere tale soluzione, è il richiamo operato dal ricorrente ad una serie di provvedimenti applicativi di misura cautelare ritenuti dalla giurisprudenza impugnabili con richiesta di riesame. Anzi l’applicabilità di tale rimedio in caso di revoca di custodia cautelare (Cass. 22-3-1996 Occhipinti, riv. 204402; Cass. 842/1999; Cass. 22868/2002; Cass. 43814/2008), di inefficacia della misura per mancato rispetto dei termini di cui all’art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, di nuova ordinanza emessa dal giudice competente, o a seguito di annullamento da parte di questa corte, non fa che confermare la conclusione che, in caso di provvedimento ex art. 300 c.p.p., comma 5, il rimedio non può che essere, invece, quello dell’appello, essendo l’inefficacia di quello precedente estranea alla validità e al merito di esso, non discendente da violazione di legge, nè dal carattere provvisorio di quello emesso da giudice incompetente, nè conseguenza di annullamento. Del resto anche l’orientamento della giurisprudenza di legittimità nel senso dell’impugnabilita, mediante richiesta di riesame, dell’ordinanza emessa a seguito di caducazione di precedente misura per omessa effettuazione nei termini dell’interrogatorio di garanzia (Cass. 12398/2001), apporta ulteriore conforto alla tesi condivisa nel provvedimento impugnato, dal momento che, in quel caso, non diversamente che in quello dell’inosservanza dei termini di cui all’art. 309 c.p.p., commi 5 e 10, la violazione di legge che inquina il precedente provvedimento, comporta la novità ed autonomia del successivo. Il che non accade nell’ipotesi di cui all’art. 300 c.p.p., comma 5.

Vale poi la pena rilevare come, nel caso di provvedimento ex art. 300 c.p.p., comma 5, la giurisprudenza sia concorde nell’affermare che non è richiesta l’effettuazione dell’interrogatorio di garanzia (Cass. 2218/1889 e 2220/1998), il che ulteriormente corrobora la conclusione del carattere ripristinatorio della precedente dell’applicazione della misura.

Invano, poi, il ricorrente lamenta la disparità di trattamento, cui a suo avviso l’interpretazione condivisa dal tribunale darebbe luogo, tra l’imputato cui la misura fosse applicata per la prima volta in grado di appello, e quello che avesse già subito in precedenza una limitazione della libertà personale, in quanto quest’ultimo, a differenza del primo, è già stato titolare della facoltà di proporre richiesta di riesame dell’ordinanza genetica della misura, onde l’appellabilità del successivo provvedimento non è lesiva dei suoi diritti di difesa.

La corretta qualificazione come appello del gravame già proposto da T., esclude quindi la caducazione ex art. 309 c.p.p., comma 10, del provvedimento ripristinatorio della misura. Del pari infondato il motivo inerente alle esigenze cautelari, per plurime ragioni. In primo luogo opera, ad avviso del collegio, la presunzione di cui all’art. 275 c.p.p., comma 3. Infatti l’intervenuta pronuncia di incostituzionalità di tale norma (Corte Cost. 164/2011) nella parte in cui, in relazione al reato di omicidio, non fa salva l’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure, non ha toccato la parte della norma relativa ai delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416 bis c.p., o al fine di agevolare l’attività di quelle associazioni.

Non si condivide, poi, l’assunto del ricorrente, secondo cui l’applicazione della presunzione in questione opererebbe solo in caso di prima applicazione della misura, e non nel caso, quale quello in esame, di misura ripristinatoria di precedente, il che tra l’altro è in palese contraddizione con quanto sostenuto nel motivo già esaminato.

Infatti è in via di definitivo consolidamento l’indirizzo favorevole all’estensione della regola alle diverse fasi processuali (Cass. 1.6.1995, Salvatore, Riv. 202041; 15-10-1993, Di Pierro, Riv. 195571;

18-3-1993, Pelini, Riv. 193975), in linea con la collocazione sistematica della norma e con il rilievo dell’inspiegabilità dell’inapplicabilità della presunzione proprio quando, intervenuta sentenza di condanna, lo stimolo a sottrarsi alla possibile esecuzione, potrebbe diventare più forte (Cass. 3092/2000).

Al di là di quanto sopra, il tribunale ha comunque congruamente motivato la sussistenza in concreto tanto del pericolo di fuga che di quello di reiterazione del reato (con le considerazioni sopra ricordate, a fronte delle quali restano recessive quelle, in fatto, svolte nel ricorso), sì da rendere perfino superflua l’applicazione della presunzione. Al rigetto del ricorso segue la condanna alle spese.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.

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