Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-02-2012, n. 1424 Amministratori di società Lavoro subordinato

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Milano, con sentenza del 13.5.2008, in parziale riforma della decisione del Tribunale di Milano, condannava la società URS Italia S.p.a. a pagare al B.E. 48.852,01 per le ferie non godute, in luogo del minore importo liquidato dal primo giudice, nonchè Euro 538,93 per rimborso spese, confermando nel resto la pronuncia nella parte in cui era stato ritenuto insussistente il rapporto di lavoro subordinato del dirigente in relazione al periodo lavorativo 3.9.1990-31.3.1994 ed illegittimo il licenziamento per contestazione tardiva della giusta causa, pur dichiarandosi sussistente la giustificatezza del recesso. Rilevava la Corte territoriale che nel primo periodo di lavoro il B. non eseguiva direttive di superiori gerarchici, ma concordava con il responsabile della società per l’Europa le linee generali dell’attività da svolgere, non doveva chiedere l’autorizzazione ad assentarsi; osservava che il predetto aveva mantenuto, nella gestione dell’incarico e del proprio tempo di lavoro, l’ampia autonomia prevista dalle parti nel contratto, compatibile con l’oggetto dell’incarico che si svolgeva prevalentemente fuori sede ed al di fuori di controlli diretti e continui del datore sulle modalità della prestazione e di orario; aggiungeva che, quando venne costituita nel 1991 la società italiana, il B. ne divenne amministratore e che, pur non essendo incompatibile tale posizione con il rapporto di lavoro subordinato, sarebbe stato onere del ricorrente provare in modo particolarmente rigoroso di essere stato soggetto al potere direttivo, di controllo e disciplinare da parte dell’organo di amministrazione della società. Sino al 1994, pure avendo egli provveduto alle prime assunzioni di personale, non ebbe a sistemare la propria come lavoratore subordinato e non erano significativi di un regime di subordinazione i numeri di matricola attribuitigli per la posizione lavorativa, i reporting settimanali i cd. time sheet, lo svolgimento di una parte del lavoro nella sede italiana ed altri indici considerati. Solo nel 1994, il B. provvide alla propria assunzione, confermata ed autorizzata dalla società, e quindi alla prova della simulazione del rapporto subordinato nel periodo successivo dovevano ritenersi abilitati la società o l’INPS. In ordine al licenziamento, la tardiva contestazione dei fatti, secondo il giudice d’appello, impediva di ritenere giustificato un recesso in tronco, laddove i fatti considerati non erano così gravi da rendere impossibile la prosecuzione del rapporto per il periodo del preavviso, ma avevano fatto venire meno la fiducia del datore di lavoro. La specificità e tempestività per buona parte dei fatti contestati erano idonee a consentire al lavoratore di giustificarsi, ma gli inadempimenti erano tali da rendere palese la giustificatezza del licenziamento, onde il rapporto non poteva essere proseguito e non competeva la chiesta indennità supplementare. La sentenza di primo grado meritava conferma in ordine al rigetto delle domande riconvenzionali di risarcimento, non essendo stati specificati i danni patrimoniali ed all’immagine lamentati; spettava, invece, l’intero importo della retribuzione per ferie richiesto ed il rimborso delle spese pure reclamati.

Per la cassazione di tale decisione ricorre il B., affidando l’impugnazione a tre motivi.

Resiste con controricorso la società, che propone ricorso incidentale, con il quale deduce l’insufficiente e contraddittoria motivazione, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, sulla domanda risarcitola relativa ai danni patiti dalla società URS nei progetti Enichem e Whirpool.

L’INPS ha depositato solo delega in calce al ricorso notificato, non presentando difese.

Il B. e la società Italia hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

Va, preliminarmente, disposta la riunione dei ricorsi, ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Con il primo motivo, il B. deduce la sussistenza della subordinazione nel periodo dal 3 settembre 1990 al 31 marzo 1994, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 2094 c.c., in rapporto anche all’art. 1 del c.c.n.l. per i dirigenti commerciali del 1.3.1988, poi rinnovato e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., ex art. 360 c.p.c., n. 3. Assume che la Corte territoriale non ha valutato il carattere multinazionale dell’impresa ed il controllo esercitato dai proprietari sull’intero pacchetto azionario, con esercizio, da parte della proprietà americana ed inglese, dell’eterodirezione per via economica e gerarchica anche nella controllata italiana e con pieni poteri di direzione anche nei riguardi di esso ricorrente, con ogni facoltà di assunzione e licenziamento di dirigenti anche in Italia, per statuto. Rileva che l’assetto dei rapporti così delineato non si era modificato dopo l’assunzione del B. ed il compenso era stato pattuito per l’incarico di responsabile per l’Europa di Dames & Moore (il ricorrente doveva contattare clienti italiani cui offrire i servizi della società) conferito al predetto, a fronte in un preciso inquadramento, con obbligo per lo stesso di rendere conto del proprio lavoro. All’esito della parte argomentativa, il ricorrente formula quesito, ai sensi dell’art. 366 bis c.p.c., con il quale chiede affermarsi se per il dirigente subordinato, che si caratterizza per ampia autonomia, discrezionalità ed iniziativa delle proprie funzioni, contrasti con la subordinazione l’attribuzione dell’incarico di imprimere a tutta l’impresa proprie direttive e se debba qualificarsi come imprenditore, nelle imprese a carattere multinazionale, chi detenga il controllo della maggioranza della società, esercitando in concreto la direzione delle singole imprese controllate; se la mera autonomia del dirigente possa non assumere valenza decisiva per il dirigente subordinato e se assumano valenza indiziaria i cosiddetti indici di subordinazione, quali l’assenza di rischio, la retribuzione di mercato stabile, l’orario di lavoro a tempo pieno.

Con il secondo motivo, il ricorrente denunzia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 4, la violazione e la falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., l’omesso esame della questione relativa alla violazione della L. n. 300 del 1970, art. 7; ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, la violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 7, in rapporto all’art. 2119 c.c. ed all’art. 29, punti 15, 16 17, del contratto collettivo, sostenendo il carattere ingiustificato del licenziamento irrogato, per carenza di preventiva contestazione.

Rileva che la lettera di licenziamento in tronco, a carattere disciplinare, del 21.3.2003, non era stata preceduta da preventiva contestazione e che esso dirigente aveva eccepito tale nullità, che il giudice di primo grado aveva condiviso l’applicabilità dell’art. 7 dello Statuto dei Lavoratori, negando la possibilità di licenziamento in tronco nell’ipotesi di mancata osservanza della norma richiamata, ma aveva ritenuto che ciò non impedisse l’esame della giustificatezza del recesso. Afferma il ricorrente di avere appellato sul punto la decisione di primo grado, ma che la Corte del gravame non aveva esaminato il capo dell’impugnazione relativo alla conseguenza della violazione, che il giudice di primo grado aveva recepito la tesi dell’applicabilità della procedura di contestazione e che il mancato gravame sul punto lo rendeva fermo. Aggiunge che la lettera di licenziamento del 21.3.2003, non preceduta da contestazione alcuna, non conteneva una alternativa subordinata alla giusta causa e non era possibile una qualificazione giuridica diversa, onde, definito illegittimo il recesso, il giudice doveva semplicemente applicare le penali, limitando la discrezionalità al quantum. Formula, poi, quesito relativo alla violazione dell’art. 112 c.p.c., domandando se viola tale norma il giudice d’appello che omette totalmente l’esame espressamente devoluto in ordine alle conseguenze connesse alla violazione della procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7, per omessa preventiva contestazione disciplinare e se, in particolare, la conseguenza della ingiustificatezza, senza necessità di ulteriore indagine, sussista anche qualora il mancato esame si fondi sul presupposto errato della esistenza di contestazione quando la stessa sia inesistente e neppure prospettata dalle parti. Richiama in proposito la sentenza della Corte di cassazione a S.U. n. 7880/2007 e la successiva n. 13812/2008, alla prima conforme, e chiede affermarsi il conseguente principio di diritto, la cui corretta applicazione avrebbe dovuto comportare il riconoscimento delle due indennità supplementari previste dal c.c.n.l..

Con il terzo motivo, il B. lamenta la violazione e la falsa applicazione dell’art. 29, commi 15, 16 e 17, del c.c.n.l., la errata interpretazione del carattere giustificato o ingiustificato del licenziamento e la carenza di immediatezza del provvedimento espulsivo, ex art. 360 c.p.c., n. 3. Sul merito della valutazione della giustificatezza richiama prove a conforto dell’assunto della ingiustificatezza, la valutazione positiva ottenuta il 21.8.2002 dagli organi della società e la mancanza di perdite, con riscontro nel bilancio della società, deducendosi a sostegno delle deduzioni che il preteso dato negativo del bilancio del 2003 non compare nella lettera di licenziamento. Domanda, con specifico quesito, se i fatti addebitati e, comunque, posti a fondamento del licenziamento debbano necessariamente avere, al fine di essere valutati sotto il profilo della giustificatezza della sanzione, la caratteristica dell’immediatezza e se gli elementi che rilevano siano solo quelli dedotti ed indicati nella lettera di licenziamento, con esclusione di quelli allegati in sede giudiziaria, se possa ritenersi giustificato un licenziamento che si fondi su allegazioni e addebiti precedenti al successivo giudizio positivo espresso dall’azienda nei confronti del dirigente e se il dato contabile della modesta passività di bilancio, a fronte di aumento complessivo del fatturato, consenta di sostenere la giustificatezza della sanzione.

Il primo motivo, con il quale si sostiene la erroneità della valutazione compiuta dalla Corte territoriale, nella parte in cui ha ritenuto la mancanza di subordinazione nel primo periodo lavorativo deve essere disatteso. Le censure si risolvono nella sostanza nell’affermazione della sussistenza della subordinazione del dirigente anche nel primo periodo, senza spiegare quali siano gli errori di diritto commessi dal giudice del merito, ed il ricorrente piuttosto valorizza diversamente gli elementi considerati dalla Corte territoriale per affermare il differente atteggiarsi del rapporto come attività di consulenza e di reperimento di clienti cui offrire i servizi della società in regime di autonomia. L’assunto secondo cui la sentenza non aveva esaminato la portata dell’applicazione dell’art. 2112 c.c. si concretizza, più che nella rilevazione di un vizio nella applicazione della norma richiamata, nella rilevazione di un iter motivazionale incongruo per avere rilevato una cesura nella continuità della posizione rivestita dal B., laddove la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che la subordinazione del predetto si concretizzò, dopo qualche anno rispetto alla creazione della società italiana, appartenente al gruppo multinazionale, con la formale assunzione. Per il periodo precedente, a prescindere da ogni valutazione riferita agli equilibri azionari della multinazionale ed al controllo del pacchetto azionario in modo totalitario da parte della URS americana e della URS inglese – cui si richiama il ricorrente per sostenere la eterodirezione da parte del gruppo della propria attività, in assenza di ogni alea dell’impresa controllata italiana – la Corte del merito ha ritenuto, invece, la mancanza di subordinazione. Ed ha correttamente motivato, senza incorrere in vizi motivazionali di carattere logico-giuridico, come, sia prima che anche dopo la creazione della società italiana, di cui il B. era divenuto amministratore, il rapporto di lavoro era stato caratterizzato da totale autonomia, rilevando come la prova della sussistenza della subordinazione, pur non incompatibile con la posizione di amministratore assunta, dovesse essere supportata, in tal caso, da elementi maggiormente probanti relativamente all’assoggettamento del lavoratore al potere direttivo, di controllo e disciplinare da parte dell’organo di amministrazione della società. La qualifica di amministratore di una società commerciale non è, invero, di per sè incompatibile con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa società, ma perchè sia configurabile un rapporto di lavoro subordinato è necessario che colui che intende farlo valere non sia amministratore unico della società e provi in modo certo il requisito della subordinazione – elemento tipico qualificante del rapporto – che deve consistere nell’effettivo assoggettamento – nonostante la carica di amministratore rivestita -al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società nel suo complesso. Il relativo accertamento, istituzionalmente demandato al giudice di merito, è censurabile in sede di legittimità esclusivamente sotto il profilo del vizio di motivazione (cfr. Cass 24 maggio 2000 n. 6819, e, con riferimento alla irrilevanza dell’esercizio del potere gestorio ai fini dell’esclusione della subordinazione, Cass 17 novembre 2004 n. 21759). Non risulta che nel caso considerato siano stati evidenziati vizi motivazionali in ordine alla valutazione della congerie di elementi presi in considerazione dalla Corte del merito, onde deve essere respinto il motivo nei termini in cui è stato formulato.

Peraltro, anche il quesito, per come proposto, mira a contestare la valutazione della prova e non l’applicazione di parametri della subordinazione non corrispondenti, e ciò è in contrasto con quanto ribadito in più occasioni da questa Corte, che ha affermato che la qualificazione giuridica del rapporto di lavoro effettuata dal giudice di merito è censurabile in sede di legittimità soltanto limitatamente alla scelta dei parametri normativi di individuazione della natura subordinata o autonoma del rapporto, mentre l’accertamento degli elementi, che rivelano l’effettiva presenza del parametro stesso nel caso concreto attraverso la valutazione delle risultanze processuali e che sono idonei a ricondurre le prestazioni ad uno dei modelli, costituisce apprezzamento di fatto che, se immune da vizi giuridici e adeguatamente motivato, resta insindacabile in Cassazione (v. Cass 16681/2007).

Quanto al secondo motivo, deve rilevarsi che la richiamata sentenza 30 marzo 2007 n. 7880 delle s. u di questa Corte (cfr. succ conformi Cass. 27 maggio 2008 n. 13812 e Cass. 17.1.2011 n. 897) ha affermato il principio alla cui stregua "le garanzie procedimentali dettate dalla L. 20 marzo 1970, n. 300, art. 7, commi 2 e 3, devono trovare applicazione nell’ipotesi di licenziamento di un dirigente – a prescindere dalla specifica collocazione che lo stesso assume nell’impresa – sia se il datore di lavoro addebiti al dirigente stesso un comportamento negligente (o, in senso lato, colpevole) sia se a base del detto recesso ponga, comunque, condotte suscettibili di farne venir meno la fiducia e che dalla violazione di dette garanzie, che si traduce in una non valutabilità delle condotte causative del recesso, scaturisce l’applicazione delle conseguenze fissate dalla contrattazione collettiva di categoria per il licenziamento privo di giustificazione, non potendosi per motivi, oltre che giuridici, logico-sistematici, assegnare all’inosservanza delle garanzie procedimentali effetti differenti da quelli che la stessa contrattazione fa scaturire dall’accertamento della sussistenza dell’illecito disciplinare o di fatti in altro modo giustificativi del recesso.

Ciò premesso, deve rilevarsi che la relativa questione, prospettata nella presente sede sotto il profilo della omessa pronunzia da parte del giudice del gravame, sebbene indicata come espressamente già devoluta a quest’ultimo, non risulta essere stata proposta nei termini affermati, con specifico rilevo attinente alla necessità di pronunziarsi in ordine alle conseguenze connesse alla violazione della procedura di cui alla L. n. 300 del 1970, art. 7 per omessa preventiva contestazione disciplinare e con richiesta di affermare la conseguenza della ingiustificatezza senza necessità di ulteriore indagine.

Come emerge dalla lettura delle pagine da 33 a 37 dell’atto di appello richiamate dal ricorrente e riprodotte nel corpo del ricorso per cassazione, non risulta essere stata compiutamente articolata una censura in sede di gravame che attenga alla conseguenze della mancata contestazione disciplinare in termini di ingiustificatezza del licenziamento intimato al dirigente. Ed invero, ad onta delle deduzioni contenute nel presente ricorso con riguardo alla completezza dei profili di censura avanzati nella fase del gravame, il relativo motivo si incentrava esclusivamente sulla considerazione che la lettera di licenziamento, intimato per giusta causa, non conteneva un’ alternativa subordinata e nella stessa non veniva dedotta la giustificazione del provvedimento ai sensi del contratto, dal che, secondo l’appellante, doveva discendere che la statuizione subordinata era da considerarsi inammissibile e neanche doveva essere esaminata dal primo giudice. Si assumeva, ancora, che, definito illegittimo il recesso, il giudice avrebbe dovuto semplicemente applicare le penali, limitando la discrezionalità al quantum, ma non si prospettava, come è dato evincere dal contenuto dell’atto di gravame, la questione – che non può, quindi, ritenersi affatto devoluta all’esame della Corte territoriale – delle conseguenze connesse alla violazione della procedura di cui alla L. 20 maggio 1970, n. 300, art. 7 per omessa preventiva contestazione degli addebiti – indicati solo nella lettera di licenziamento del 21.3.2003 – ai fini della declaratoria della ingiustificatezza del licenziamento. Sotto tale assorbente profilo, il motivo in esame deve, pertanto, dichiararsi inammissibile, per la novità della questione proposta soltanto nella presente sede di legittimità.

Con riferimento al terzo motivo di ricorso, si rileva che le censure, pur richiamando specifiche norme del c.c.n.l. di categoria, nella sostanza propongono una diversa valutazione degli elementi attinenti al comportamento del dirigente, sostenendo la non riconducibilità ad esso ricorrente delle perdite societarie ed in generale dell’andamento negativo degli affari, ai fini dell’esame della giustificatezza del recesso.

La nozione di giustificatezza del licenziamento del dirigente, per la particolare configurazione del rapporto di lavoro dirigenziale, non si identifica con quella di giusta causa o giustificato motivo L. n. 604 del 1966, ex art. 1, potendo rilevare qualsiasi motivo, purchè apprezzabile sul piano del diritto, idoneo a turbare il legame di fiducia con il datore. Ne consegue che anche la semplice inadeguatezza del dirigente rispetto ad aspettative riconoscibili "ex ante", o una importante deviazione del dirigente dalla linea segnata dalle direttive generali del datore di lavoro, o un comportamento extralavorativo incidente sull’immagine aziendale possono, a seconda delle circostanze, costituire ragione di rottura del rapporto fiduciario e, quindi, giustificarne il licenziamento sul piano della disciplina contrattuale dello stesso, con valutazione rimessa al giudice di merito sindacabile, in sede di legittimità, solo per vizi di motivazione (cfr. Cass 11 giugno 2008 n. 15496).

Attesa la rilevanza del solo vizio di motivazione, deve ulteriormente rilevarsi che le censure mirano a sollecitare una rivisitazione del merito, non consentita nella presente sede di legittimità, posto che il ricorso per cassazione, con il quale si facciano valere vizi di motivazione della sentenza, impugnata a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 5, deve contenere – in ossequio al disposto dell’art. 366 c.p.c., n. 4, che per ogni tipo di motivo pone il requisito della specificità sanzionandone il difetto – la precisa indicazione di carenze o lacune nelle argomentazioni sulle quali si basano la decisione o il capo di essa censurato, ovvero la specificazione d’illogicità, consistenti nell’attribuire agli elementi di giudizio considerati un significato fuori dal senso comune, od ancora la mancanza di coerenza fra le varie ragioni esposte, quindi l’assoluta incompatibilità razionale degli argomenti e l’insanabile contrasto degli stessi. Ond’è che risulta inidoneo allo scopo il far valere la non rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice del merito all’opinione che di essi abbia la parte ed, in particolare, il prospettare un soggettivo preteso migliore e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi dell"’iter" formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della norma in esame. Diversamente, si risolverebbe il motivo di ricorso per cassazione ex art. 360 c.p.c., n. 5 in un’inammissibile istanza di revisione delle valutazioni effettuate ed, in base ad esse, delle conclusioni raggiunte dal giudice del merito; cui, per le medesime considerazioni, neppure può imputarsi d’aver omesso l’esplicita confutazione delle tesi non accolte e/o la particolareggiata disamina degli elementi di giudizio ritenuti non significativi, giacchè nè l’una nè l’altra gli sono richieste, mentre soddisfa l’esigenza di adeguata motivazione che il raggiunto convincimento risulti da un esame logico e coerente di quelle, tra le prospettazioni delle parti e le emergenze istruttorie, che siano state ritenute di per sè sole idonee e sufficienti a giustificarlo (in tali termini, cfr. Cass. 23 maggio 2007 n. 120520). Nella specie non risulta che la doglianza abbia evidenziato i profili di omissione, insufficienza o contradittorietà della motivazione nei termini consentiti in sede di legittimità, indicati dalla pronunzia di legittimità richiamata.

Quanto al ricorso incidentale della società, con il quale la sentenza viene impugnata per insufficiente e contraddittoria motivazione ex art. 360 c.p.c., n. 5, il motivo si conclude con quesito che riassume i termini della censura, con il quale si chiede se il dirigente che violi il dovere di diligenza nell’esecuzione del contratto di lavoro, determinando quale conseguenza immediata e diretta della sua condotta un danno economico alla società, debba essere ritenuto civilmente responsabile, in base ai principi che governano la responsabilità contrattuale e sia, pertanto, tenuto a risarcire il danno arrecato alla società, dovendosi escludere la necessaria ricorrenza del dolo o del carattere grave della colpa, non prevista dallo stesso art. 1218 c.c. ai fini della insorgenza della relativa obbligazione risarcitoria a carico del dirigente.

Il motivo deve essere dichiarato inammissibile, perchè non si indicano quali siano gli elementi pretermessi nella delibazione della condotta del dirigente in relazione a progetti dallo stesso curati che avevo prodotto un danno alla società. Non risultano prodotti i documenti richiamati e la fonte della responsabilità è solo genericamente indicata senza alcun preciso riferimento contrattuale alla causalità del comportamento, al fine di rendere giustificato l’obbligo risarcitorio riconnesso a mancati guadagni e non a perdite, insiti nella gestione del dirigente. Peraltro, ai fini della affermazione della responsabilità del lavoratore verso il datore di lavoro per un evento dannoso verificatosi nel corso dell’espletamento delle mansioni affidategli, è, anzitutto, onere del datore di lavoro dare prova che l’evento dannoso è da riconnettere ad una condotta colposa del lavoratore per violazione degli obblighi di diligenza, e cioè in rapporto di derivazione causale da tale condotta. Solo una volta che risulti assolto tale onere, il lavoratore dovrà provare la non imputabilità a sè dell’inadempimento (cfr. Cass. 19.7.1997 n. 6645). Al di là dell’improprio richiamo alla colpa grave ed al dolo del dirigente, il giudice del merito ha fondato la decisione di rigetto della riconvenzionale sulla mancanza di elementi di prova del dedotto inadempimento e dei danni lamentati e a tale convincimento il ricorrente incidentale non ha contrapposto censure atte ad individuare errori valutativi e vizi logici idonei a determinare la necessità di approfondimenti nella sede di merito.

La reciproca soccombenza delle parti, per effetto del rigetto di entrambi i ricorsi, giustifica la compensazione integrale tra le stesse delle spese di lite del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte riunisce i ricorsi e li rigetta. Compensa tra le parti le spese di lite del presente giudizio.

Così deciso in Roma, il 7 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 1 febbraio 2012

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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