Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 01-02-2012, n. 1422 Licenziamento per riduzione del personale

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte di Appello di Napoli, riformando la sentenza di primo grado, accoglieva la domanda di M.M., proposta nei confronti della società IPC,avente ad oggetto l’impugnativa del licenziamento per riduzione di personale comunicatogli dalla predetta società in data 2 maggio 2001 all’esito di una procedura di mobilità ex lege n. 223 del 1991.

La Corte territoriale, innanzitutto, ribadiva l’inammissibilità della chiamata in causa, perchè richiesta dal M. solo ad istruttoria ultimata, della società Chirico – alla quale nelle more del giudizio era stata ceduta l’azienda facente capo alla società IPC. Riteneva, poi, detta Corte, l’illegittimità del licenziamento impugnato, sia perchè valutava come generica e insufficiente la informazione fornita, della citata L. n. 223 del 1991, ex art. 4, comma 3, sia perchè considerava violati i criteri di scelta posti a base del licenziamento in quanto il M. non risultava ,al momento del recesso, facente parte del reparto controllo qualità oggetto della soppressione concordata in sede sindacale ed assunta come criterio identificativo del personale da licenziare.

Precisava,infine, la Corte partenopea che non poteva farsi luogo alla reintegrazione nel posto di lavoro essendo pacifico che lo stabilimento, cui era addetto il lavoratore all’epoca del licenziamento, era stato ceduto alla società Chirico.

Avverso questa sentenza la società IPC ricorre in cassazione sulla base di quattro censure.

Resiste con controricorso il M. che propone impugnazione incidentale assistita da un unico motivo, illustrato da memoria.

La società Chirico in epigrafe deposita procura.

Motivi della decisione

I ricorsi vanno, preliminarmente riuniti, riguardando l’impugnazione della stessa sentenza.

Con il primo motivo del ricorso principale la società IPC, denunciando violazione della L. n. 223 del 1991, art. 4 e degli artt. 1427 e 1429 c.c., e formulando vari quesiti, sostanzialmente assume che erroneamente il giudice: si è sostituito alle organizzazione sindacali nella valutazione della adeguatezza della normativa; ha affermato un vizio del consenso nella formazione della volontà delle organizzazioni sindacali; ha ritenuto viziato per errore il consenso delle predette organizzazioni sindacali; non ha considerato il fatto noto costituito dalla sottoscrizione di un accordo sindacale; non ha analizzato tutte le specifiche ragioni poste a base della sentenza impugnata.

Con la seconda censura del ricorso principale la società IPC denuncia insufficiente e/o contraddittoria motivazione in relazione a quella parte della pronuncia con la quale sono state delineate le mansioni espletate dal Dott. M..

Con la terza critica del ricorso principale la società IPC, prospettando violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., pone il seguente quesito: "sussiste o meno violazione e/o falsa applicazione dei principi degli artt. 2727 e 2729, allorquando il giudice fa derivare l’affermazione di un fatto incerto da altro fatto pure incerto presuntivamente ricavato?".

Con il quarto motivo del ricorso principale la società, allegando violazione dell’art. 18 st. lav. e degli artt. 112 e 277 c.p.c., formula i seguenti quesiti: 1. "sussiste o meno violazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, allorquando il giudice, nel liquidare il risarcimento del danno di cui alla norma medesima, non tenga conto ai fini di una riduzione del risarcimento stesso di quanto ha percepito nelle more a diverso titolo in ragione di un reddito comunque conseguito in ragione della sua posizione lavorativa?"; 2. "sussiste o meno violazione degli artt. 112 e 277 c.p.c., allorquando il giudice ometta la decisione in ordine ad una eccezione proposta nei termini di cui al quesito che precede?".

Con l’unica censura del ricorso incidentale il M., deducendo violazione degli artt. 102 e 112 c.p.c., art. 2112 c.c., formula il seguente quesito: "se non è conforme e non rispettosa del diritto, la decisione del Giudice di dichiarare inammissibile la richiesta integrazione del contraddittorio da proporsi in ogni stato e grado del giudizio di merito, nei confronti del successore nel rapporto controverso allorchè trattasi di trasferimento d’azienda ex art. 2118 c.c. e art. 111 c.p.c., e, quindi, di litisconsorzio necessario ex art. 102 c.p.c.".

Venendo all’esame del ricorso principale rileva la Corte che il secondo ed il terzo motivo sono inammissibili per violazione dell’art. 366 bis c.p.c..

Invero il primo motivo con il quale si denuncia un vizio di motivazione è privo della specificazione del fatto controverso richiesta dal richiamato art. 366 bis c.p.c..

Nè può ritenersi soddisfi la prescrizione di cui al predetto art. 366 bis c.p.c., la mera indicazione del fatto su cui si appunta la critica concernente il vizio di motivazione, atteso che oltre al mero fatto il ricorrente deve indicare, in una sintesi riassuntiva simile al quesito di diritto, le ragioni che rendono, in caso d’insufficienza, inidonea la motivazione a giustificare la decisione, in caso di omissione, decisivo il difetto di motivazione e in caso di contraddittorietà, non coerente la motivazione (cfr. Cass. 25 febbraio 2009 n. 4556, Cass. S.U. 18 giugno 2008 n. 16528 e Cass. S.U. 1 ottobre 2007 n. 2063).

Il terzo motivo del ricorso principale, con il quale si denuncia violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., è altresì inammissibile per genericità del relativo quesito.

Infatti non potendosi desumere il quesito dal contenuto del motivo o integrare il primo con il secondo, pena la sostanziale abrogazione del suddetto articolo, il quesito, come si desume dalla su riportata trascrizione dello stesso, si risolve in un’enunciazione di carattere generale e astratta, priva di qualunque indicazione sul tipo della controversia e sulla sua riconducibilità alla fattispecie in esame, tale da non consentire alcuna risposta utile a definire la causa nel senso voluto dal ricorrente (Cass. S.U. 11 marzo 2008 n. 6420).

Tenuto conto, poi, che la sentenza impugnata risulta ancorata a due distinte rationes decidendi, autonome l’una dalla altra, e ciascuna, da sola, sufficiente a sorreggerne il dictum: da un lato, all’affermazione dell’insufficienza e genericità dell’informazione L. n. 223 del 1991; dall’altro, al rilievo della violazione dei criteri di scelta non risultando che il M. al momento del licenziamento fosse addetto al reparto soppresso, risulta ultroneo l’esame del primo motivo del ricorso concernente appunto la censura alla prima delle indicate autonome ratio decidendo della sentenza di appello.

E’ consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, il principio per il quale l’impugnazione di una decisione basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l’uno dallo altro, e ciascuno, di per sè solo, idoneo a supportare il relativo dictum, per poter essere ravvisata meritevole di ingresso, deve risultare articolata in uno spettro di censure tale da investire, e da investire utilmente, tutti gli ordini di ragioni cennati, posto che la mancata critica di uno di questi o la relativa attitudine a resistere agli appunti mossigli comporterebbero che la decisione dovrebbe essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato e priverebbero l’impugnazione dell’idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (cfr., in merito, ex multis, Cass. 26 marzo 2001 n. 4349, Cass. 27 marzo 2001 n 4424 e da ultimo Cass, 20 novembre 2009 n. 24540).

Orbene nel caso di specie le censure afferenti la ratio concernente la ritenuta illegittimità del licenziamento per violazione dei criteri di scelta sono, come detto, inammissibili, con la conseguenza che dovendosi mantenere ferma la sentenza impugnata in base a siffatta ratio è del tutto ultroneo verificare la fondatezza o meno della critica svolta nei confronti della alternativa autonoma ratio decidendi afferente la genericità ed insufficienza della informazione al sindacato di cui trattasi.

L’ultimo motivo del ricorso principale relativo alla mancata considerazione, nella determinazione delle conseguenze economiche della L. n. 300 del 1970, ex art. 18, dell’aliunde perceptum cade a fronte della mancata precisazione, in violazione del principio di autosufficienza del ricorso, da parte della Società ricorrente di aver riproposto – ed i quali termini – in appello la relativa allegazione.

Secondo questa Corte, difatti, in tema di impugnativa di licenziamento in grado di appello, l’eccezione cosiddetta dell’aliunde perceptum, cioè la deduzione della rioccupazione del lavoratore licenziato al fine di limitare il danno da risarcire a seguito di licenziamento illegittimo, non costituisce eccezione in senso stretto ma ha carattere di eccezione in senso lato, con la conseguenza che i fatti suscettibili di formare oggetto di tale eccezione sono rilevabili d’ufficio dal giudice d’appello, sempre che l’appellato non abbia tacitamente rinunciato ad avvalersene non avendovi fatto riferimento in alcuna delle proprie difese del grado, atteso che l’onere della dettagliata esposizione di tutte le sue difese (imposto dall’art. 436 cod. proc. civ., comma 2, non è assolto se nel corso del giudizio l’interessato non dimostri di volersi avvalere della specifica difesa dedotta in primo grado (Cass. 15 marzo 2005 n. 5610 e Cass. 20 giugno 2006 n. 14115).

Passando all’esame del ricorso incidentale rileva la Corte che lo stesso è infondato.

Premesso che secondo giurisprudenza di questa Corte nel caso di trasferimento d’azienda ex art. 2112 c.c., non vi è, nell’ipotesi di controversia instaurata con il cedente, litisconsorzio necessario nei confronti del cessionario (Cass. 21 novembre 1984 n. 5971), è corretta la sentenza impugnata che ha ritenuto inammissibile la chiamata in causa della società Chirico in quanto effettuata ad istruttoria esaurita.

Infatti è ius reception nella giurisprudenza di legittimità che la chiamata del terzo rimane preclusa a seguito di espletamento, sia pure in parte, di attività istruttoria o decisoria, a pregiudizio definitivo del terzo chiamato (V. per tutte Cass. 5 marzo 2002 n. 3156).

In conclusione il ricorso principale e quello incidentale vanno respinti.

La reciproca seccombenza giustifica la compensazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

La Corte riuniti i ricorsi, li rigetta. Compensa le spese del giudizio di legittimità.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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