Cass. pen. Sez. I, Sent., (ud. 08-06-2011) 23-09-2011, n. 34700 Giudice dell’esecuzione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza del 17 dicembre 2010 il Tribunale di Taranto, decidendo quale giudice dell’esecuzione sulle istanze presentate da Q.A.:

– ha parzialmente accolto l’istanza sub a), volta a ottenere la correzione del termine di inizio della decorrenza della pena di anni nove di reclusione di cui alla sentenza del 5 maggio 1993 della Corte d’appello di Lecce, irrevocabile il 23 marzo 1994, e a individuare lo stesso nell’aprile 1991, in luogo del 21 maggio 1993, disponendo, a cura del Procuratore della Repubblica in sede, la correzione del provvedimento di esecuzione di pene concorrenti del 16 luglio 2003 con il computo del periodo di presofferto, nella misura di mesi tre e giorni nove, per custodia cautelare subita nell’ambito del procedimento definito con la predetta sentenza del 5 maggio 1993;

– ha rigettato l’istanza sub b), volta a ottenere l’applicazione dell’istituto di cui all’art. 669 cod. proc. pen., in relazione alla medesima sentenza del 5 maggio 1993 della Corte d’appello di Lecce, irrevocabile il 23 marzo 1994 (processo cd. (OMISSIS)), e alla sentenza della Corte d’assise d’appello di Taranto del 13 ottobre 1999, irrevocabile il 26 ottobre 2001 (processo cd. (OMISSIS)), rilevando che fra i fatti oggetto delle due sentenze vi era diversità con riferimento ai titoli di reato e al tempo di commissione dei fatti;

– con riguardo all’istanza sub c), ha dichiarato non luogo a provvedere in ordine alla richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione fra l’indicata sentenza del 5 maggio 1993 della Corte d’appello di Lecce, irrevocabile il 23 marzo 1994, e la sentenza del Tribunale di Taranto del 16 maggio 1997, irrevocabile il 22 maggio 2002, osservando che, con ordinanza del 7 luglio 2003 del Tribunale di Taranto, era stata riconosciuta la continuazione tra i reati di cui alle medesime sentenze, oltre che con la sentenza del 13 ottobre 1999 della Corte d’assise d’appello di Taranto, e che detta continuazione era già stata riconosciuta anche con la sentenza del 16 maggio 1997 del Tribunale di Taranto;

– con riguardo alla stessa istanza sub c), ha dichiarato inammissibile e ha, comunque, rigettato l’istanza volta all’applicazione dell’istituto della continuazione fra le predette sentenze e la sentenza del 16 ottobre 1998 della Corte d’assise d’appello di Napoli, irrevocabile il 7 giugno 1999 (omicidio B.), rappresentando che si trattava di mera riproposizione di richiesta già rigettata e basata sui medesimi elementi, e rilevando che, in ogni caso, non era ravvisatile l’unicità del disegno criminoso tra i fatti di cui alla sentenza del Tribunale di Taranto del 16 maggio 1997 e l’omicidio B. (e i reati collegati);

– ha accolto parzialmente l’istanza sub d), disponendo che l’applicazione del disposto dell’art. 442 cod. proc. pen. e la diminuzione della pena per il rito abbreviato dallo stesso prevista erano estese al reato posto in continuazione in sede esecutiva, giudicato con il rito abbreviato, e, per l’effetto, previa applicazione della detta riduzione di pena sugli aumenti di pena operati con l’ordinanza del 7 luglio 2003 in relazione ai reati di cui alla sentenza del 5 maggio 1993 della Corte d’appello di Lecce, irrevocabile il 23 marzo 1994, pronunciata a seguito di rito abbreviato, ha determinato la pena complessiva, risultante dalla unificazione per continuazione dei reati di cui alle sentenze del 5 maggio 1993 della Corte d’appello di Lecce, del 13 ottobre 1999 della Corte d’assise d’appello di Taranto e del 16 maggio 1997 del Tribunale di Taranto, in anni quattordici e mesi undici di reclusione, in luogo di anni quindici e mesi tre di reclusione.

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, Q.A., che ne chiede l’annullamento, articolando tre motivi.

2.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione alla corretta applicazione dell’art. 669 cod. proc. pen..

Secondo la ricorrente, il Tribunale, nel rigettare l’istanza sub b), ha svolto argomentazioni in contrasto con l’esatta interpretazione della indicata norma, erroneamente ritenendo non esservi identità dei fatti oggetto delle due decisioni per essersi limitato alla valutazione del "dato esclusivamente numerico dell’imputazione rubricata", invece di considerare gli episodi e le vicende criminose, ed erroneamente utilizzando la già riconosciuta continuazione tra le sentenze quale argomento contrario all’applicazione dell’istituto di cui all’art. 669 cod. proc. pen..

2.2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione alla corretta applicazione degli artt. 666 e 671 cod. proc. pen..

Secondo la ricorrente, la valutazione espressa dal Tribunale in ordine alla sussistenza dei requisiti, richiesti dall’art. 666 c.p.p., comma 2, per ritenere la richiesta di concessione della continuazione tra le sentenze del 5 maggio 1993, del 16 ottobre 1990 (rectius 1998) e del 16 maggio 1997 mera riproposizione di richiesta già rigettata, è fondata su errata lettura della previsione normativa.

E’ richiesta, infatti, una comparazione tra le due richieste per verificarne i presupposti di fatto e i motivi di diritto e la loro diversità, pur nella permanenza dello stesso petitum, secondo una interpretazione delle norme costituzionalmente orientata e conforme alle norme della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, anche alla luce della pronuncia n. 18288 del 2010 di questa Corte a sezioni unite.

Ad avviso della ricorrente, in particolare, integra un elemento nuovo e influente per rivalutare la sua posizione, quantomeno per i reati di cui alle sentenze del 5 maggio 1993 e del 16 ottobre 1998, in virtù del principio di uguaglianza, la circostanza rilevante, costituente una evoluzione giurisprudenziale, che nei confronti del coimputato M.R. è stato riconosciuto, con ordinanza dell’8 marzo 2002 della Corte d’assise d’appello di Taranto, il vincolo della continuazione dei reati con riferimento alle stesse sentenze.

2.3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce la violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) ed e), in relazione alla corretta applicazione dell’art. 442 cod. proc. pen., censurando la decisione del Tribunale che non ha esteso la riduzione della pena, spettante a norma dell’art. 442 cod. proc. pen., anche alla violazione più grave giudicata con il rito ordinario.

3. Il Procuratore Generale presso questa Corte ha depositato requisitoria scritta concludendo per l’inammissibilità del ricorso.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

1.2. Questa Corte ha costantemente affermato che il principio generale del ne bis in idem, di cui sono espressione gli artt. 649 e 669 cod. proc. pen., al pari delle norme sui conflitti positivi di competenza (artt. 28 e segg. cod. proc. pen.), tende a evitare che per lo stesso fatto reato si svolgano più procedimenti contro la stessa persona e si emettano più provvedimenti anche non irrevocabili, l’uno indipendente dall’altro, e a porre rimedio alle violazioni del principio stesso (tra le altre, Sez. 6, n. 31512 del 25/02/2002, dep. 20/09/2002, P.M. in proc. Sulsenti, Rv. 222736; Sez. 1, n. 24017 del 30/04/2003, dep. 30/05/2003, Morteo, Rv. 225004).

Ai fini della preclusione connessa al predetto principio, l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/06/2005, dep. 28/09/2005, P.G. in proc. Donati e altri, Rv.

231799; Sez. 1, n. 19787 del 21/04/2006, dep. 09/06/2006, Marchesini, Rv. 234176; Sez. 2, n. 21035 del 18/04/2008, dep. 27/05/2008, Agate e altri, Rv. 240106; Sez. 5, n. 16703 del 11/12/2008, dep. 20/04/2009, Palanza e altri, Rv. 243330; Sez. 4, n. 48575 del 03/12/2009, dep. 18/12/2009, Bersani, Rv. 245740; Sez. 2, n. 26251 del 27/05/2010, dep. 09/07/2010, Rapisarda e altri, Rv. 247849; Sez. 5, n. 28548 del 01/07/2010, dep. 20/07/2010, Carbognani, Rv. 247895).

1.3. In tema di associazione per delinquere, il "fatto" è diverso anche quando il soggetto faccia parte, in coincidenza temporale, di due distinti organismi criminosi, potendo verificarsi anche nel campo dell’economia criminale, come nell’ambito delle attività lecite, che un soggetto sia contemporaneamente sodo di più società (Sez. 1, n. 25727 del 05/06/2008, dep. 25/06/2008, Micheletti, Rv. 240470), perchè, non potendosi far ricorso, in materia di associazioni criminali, al criterio civilistico della personalità giuridica è sempre e comunque la singola persona fisica quella alla quale può e deve addebitarsi (sussistendone, ovviamente, le condizioni di fatto) la duplice e distinta partecipazione, anche in coincidenza temporale, ai due distinti organismi criminosi (Sez. 1, n. 6410 del 13/01/2005, dep. 18/02/2005, Serraino, Rv. 230831).

1.4. Alla luce di detti principi, condivisi dal Collegio, è indubbio che l’accertamento della esistenza, o meno, della identità del fatto è questione di fatto, che va risolta mediante l’esame di indici materiali congruamente apprezzati in base alle regole di esperienza.

Nel caso di specie, la valutazione del giudice di merito è congrua rispetto ai dati fattuali e logica, poichè la diversità dei fatti oggetto delle sentenze di condanna del 5 maggio 1993 della Corte d’appello di Lecce e del 13 ottobre 1999 della Corte d’assise d’appello di Taranto è stata affermata in ragione della diversità dei titoli di reato e del tempo di commissione dei reati, concernendo la prima il delitto di cui all’art. 416 c.p., n. 7, commesso in Taranto nel giugno 1991, e il delitto di cui all’art. 112 c.p., nn. 1 e 2 e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 commesso in Taranto fino al giugno 1991, e la seconda i delitti di cui all’art. 416-bis c.p., comma 2, artt. 81 e 110 cod. pen. e artt. 74 e 81 cod. pen. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73 unificati per continuazione, commessi in Taranto dal 1987 al 1993.

Nè appare illogico o giuridicamente errate il rilievo, a comprova di quanto illustrato in ordine alla pluralità di fatti, dell’intervenuto riconoscimento del vincolo della continuazione tra detti reati con la sentenza del 13 ottobre 1999, che aveva giudicato il secondo gruppo di reati, rideterminando la pena in continuazione con quella di cui alla sentenza del 5 maggio 1993, rispetto alla quale ora si invoca il ne bis in idem.

1.5. La doglianza del ricorrente, che oppone a tale valutazione l’insegnamento dell’ordinanza n. 128 del 2009 della Corte costituzionale, omette di rilevare che detta ordinanza ha riguardato, come puntualmente rilevato dal Procuratore requirente, la diversa questione dell’applicabilità delle disposizioni dell’art. 669 cod. proc. pen. anche nei casi in cui un reato, separatamente giudicato, coincida con altro ritenuto satellite, in continuazione con altro, in diversa pronuncia di condanna, ferma restando la necessaria identità dei fatti ed escludendosi che l’identità del fatto reato separatamente giudicato e di quello satellite dell’altra condanna determini l’identità di tutti e tre i reati.

La doglianza è, poi, palesemente inammissibile nella parte in cui, tendendo a opporre censure in punto di fatto e un’alternativa lettura di dati fattuali e una diversa valutazione della rilevanza degli episodi e delle vicende criminose in cui la ricorrente è rimasta coinvolta, è estranea alla previsione dell’art. 606 c.p.p., comma 1. 2. La seconda censura è manifestamente infondata.

2.1. A norma dell’art. 671 cod. proc. pen. il giudice dell’esecuzione può applicare in executivis l’istituto della continuazione nel caso di più sentenze o decreti penali irrevocabili, pronunciati in procedimenti distinti contro la stessa persona, e rideterminare le pene, inflitte per i reati separatamente giudicati, alla stregua dei criterì dettati dall’art. 81 cod. pen.. Tale possibilità in sede esecutiva ha, tuttavia, carattere sussidiario e suppletivo rispetto all’applicazione nella competente sede di cognizione, stante il carattere meno completo dell’accertamento e la presenza dei limiti imposti dall’art. 671 cod. proc. pen. e artt. 187 e 188 disp. att. cod. proc. pen. e perchè suppone che l’applicazione della disciplina del reato continuato non sia stata esclusa dal giudice della cognizione (tra le altre, Sez. 6, n. 225 del 13/01/2000, dep. 08/05/2000, P.G. in proc. Mastrangelo e altri, Rv. 216142; Sez. 2, n. 44310 del 04/11/2005, dep. 05/12/2005, Soma e altro, Rv. 232855; Sez. 1, n. 13158 del 10/02/2010, dep. 08/04/2010, Fimiani, Rv. 246664).

Nè la richiesta può risolversi nella mera riproposizione di richiesta già rigettata della quale sia identica per oggetto e per elementi giustificativi, sfociando in tal caso in una inammissibilità rilevabile anche de plano ai sensi dell’art. 666 c.p.p., comma 2. 2.2. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, la continuazione presuppone l’anticipata e unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee, e tale situazione è ben diversa da una mera inclinazione a reiterare nel tempo violazioni della stessa specie, anche se dovuta a una determinata scelta di vita o a un programma generico di attività delittuosa da sviluppare nel tempo secondo contingenti opportunità, quale quello tipico dell’associazione per delinquere (tra le altre, Sez. 1, n. 3834 del 15/11/2000, dep. 31/01/2001, Barresi, Rv. 218397; Sez. 2, n. 18037 del 07/04/2004, dep. 19/04/2004, Tuzzeo, Rv. 229052 Sez. 1, n. 35797 del 12/05/2006, dep. 25/10/2006, Francini, Rv. 234980; Sez. 4, n. 16066 del 17/12/2008, dep. 16/04/2009, Di Maria, Rv. 243632; Sez. 1, n. 48125 del 05/11/2009, dep. 17/12/2009, Maniero, Rv. 245472;

Sez. 2, n. 40123 del 22/10/2010, dep. 12/11/2010, Marigliano, Rv.

243862).

La prova di detta congiunta previsione – ritenuta meritevole di trattamento sanzionatorio più benevolo per la minore capacità a delinquere di chi si determina a commettere gli illeciti in forza di un singolo impulso, invece che di spinte criminose indipendenti e reiterate -, poichè attiene alla "inesplorabile interiorità psichica" del soggetto, deve essere ricavata di regola da indici esteriori significativi, alla luce dell’esperienza, del dato progettuale sottostante alle condotte tenute.

Tra tali indici, esemplificativamente elencati dalla giurisprudenza, vengono in considerazione la tipologia dei reati, il bene giuridico offeso, le condotte poste a fondamento delle diverse condanne, le loro modalità di commissione, la causale delle violazioni, la loro omogeneità, la sistematicità, il contesto spaziale e il contenuto intervallo temporale. Essi hanno normalmente un carattere sintomatico, e non direttamente dimostrativo, della preordinazione di fondo che unifica le singole violazioni; l’accertamento diretto al riconoscimento o al diniego del vincolo della continuazione, pur officioso e non implicante oneri probatori, deve assumere il carattere della effettiva dimostrazione logica, non potendo essere affidato a semplici congetture o presunzioni (tra le altre, Sez. 1, n. 1587 del 01/03/2000, dep. 20/04/2000, D’Onofrio, Rv. 215937; Sez. 1, n. 44862 del 05/11/2008, dep. 02/12/2008, Lombardo, Rv. 242098;

Sez. 5, n. 49476 del 25/09/2009, dep. 23/12/2009, Notaro, Rv. 245833;

Sez. 1, n. 12905 del 17/03/2010, dep. 07/04/2010, Bonasera, Rv.

246838).

2.3. Il Tribunale, nel caso di specie, ha correttamente interpretato il parametro normativo di cui all’art. 81 c.p., comma 2, e, con motivazione logicamente articolata, ha fatto esatta applicazione dei suddetti principi, pienamente condivisi da questo Collegio.

Il Tribunale ha, infatti, evidenziato che con sentenza del 16 maggio 1997 del Tribunale di Taranto è stato riconosciuto il vincolo della continuazione tra i reati oggetto della stessa sentenza e quelli di cui alla sentenza del 5 maggiol993; che tale valutazione è stata confermata dallo stesso Tribunale, con ordinanza del 7 luglio 2003, anche con riferimento alla sentenza del 13 ottobre 1999 della Corte d’assise d’appello di Napoli, ravvisandosi l’unitarietà del disegno criminoso nell’attiva militanza della Q. nel sodalizio criminoso capeggiato dal convivente dell’epoca M.R.", e che, con detta ordinanza, è stata rigettata l’istanza di applicazione della continuazione del tutto analoga a quella proposta in questo giudizio.

Il Tribunale ha, poi, rappresentato, quanto alla invocata continuazione tra i reati di cui alla sentenza del 25 giugno 1997, confermata con sentenza del 16 ottobre 1998 (omicidio B. e connessi reati in materia di armi), e i reati di cui alla sentenza del 5 maggio 1993, che con la detta sentenza del 25 giugno 1997 è stata esclusa la continuazione sulla base del rilievo che l’omicidio del B. è stato determinato dalla necessità della eliminazione del medesimo, manifestatasi dopo, e non al momento della costituzione del sodalizio, e dipendente dalla sua inaffidabilità per la sua sopravvenuta tossicodipendenza, mentre la richiesta di riconoscimento del vincolo della continuazione tra la sentenza del 25 giugno 1997 e la sentenza del 13 ottobre 1999 è stata respinta con l’ordinanza del Tribunale di Taranto del 14 gennaio 2004. 2.4. La valutazione del giudice di merito, che, in coerenza con le indicate pronunce, ha dichiarato non luogo a provvedere in ordine alla richiesta di applicazione dell’istituto della continuazione in sede esecutiva tra i reati di cui alle indicate sentenze del 5 maggio 1993 e del 16 maggio 1997, e ha rigettato la richiesta di unificazione a detti reati di quelli giudicati con la sentenza del 25 giugno 1997, è ragionevole, in quanto condotta e argomentata sulla scorta della disamina delle motivazioni delle sentenze, delle specifiche condotte contestate e dei dati fattuali dalle stesse emergenti, e la sussistenza di un’unica originaria ideazione criminosa è stata esclusa in ragione di dati coerenti rispetto alle risultanze dei provvedimenti esaminati e congrui rispetto alla ratio dell’istituto della continuazione.

2.5. Le conclusioni che sono state tratte con l’ordinanza impugnata, che ha anche escluso il carattere vincolante per la decisione dell’ordinanza dell’8 marzo 2002 della Corte d’assise d’appello di Taranto, che ha riconosciuto il vincolo della continuazione, tra i reati di cui alle sentenze del 5 maggio 1993, del 16 ottobre 1998 e del 13 ottobre 1999, nei confronti di M.R., per l’inidoneità della decisione a integrare un elemento nuovo, idoneo a prospettare dati indicativi della sussistenza della continuazione, resistono alle censure mosse con il ricorso.

Si tratta di obiezioni, che, mentre nulla oppongono alle valutazioni svolte dal Tribunale per pervenire all’adottata decisione, si risolvono nella deduzione che nei confronti di coimputato la continuazione è stata riconosciuta, non prospettabile, in ogni caso, in questa sede in virtù dei principi di autonomia dei procedimenti e di soggettività della continuazione che, attenendo all’elemento psicologico, può sussistere per alcuni coimputati e non per altri.

3. Del tutto infondato è anche il terzo motivo, che censura la decisione del Tribunale per non avere esteso la, riduzione della pena, spettante a norma dell’art. 442 cod. proc. pen., anche alla violazione più grave giudicata con il rito ordinario, limitandola invece agli aumenti di pena per i reati satelliti giudicati con il rito abbreviato.

Questa Corte ha costantemente affermato che non può perdersi la riduzione per il rito, che vada a incidere sui reati satelliti giudicati con il rito speciale, trasformandosi la pena autonomamente determinata per il reato definito con il rito speciale, sulla quale è stata operata la diminuzione ai sensi dell’art. 442 cod. proc. pen. (Sez. 1, n. 15409 del 17/02/2004, dep. 31/03/2004, Pennisi, Rv.

227929; Sez. 1, n. 44477 del 04/11/2009, dep. 19/11/2009, Modeo, Rv.

245719; Sez. 1, n. 49981 del 19/11/2009, dep. 30/12/2009, Scalas, Rv.

245966), o ai sensi dell’art. 444 vcod. proc. pen. (Sez. 5, n. 5520 del 16/12/1996, dep. 15/01/1997, P.G. in.proc. lerardi, Rv. 206565), in aumento ex art. 81 cod. pen., che va pertanto ridotto di un terzo.

Di tale principio ha fatto corretta applicazione il Giudice dell’esecuzione, escludendo con logica argomentazione che, nel caso di riconoscimento della continuazione fra reati, di cui taluni giudicati con il rito ordinario e altri con il rito abbreviato, la riduzione di un terzo propria di tale rito deve operarsi sull’intera pena determinata per continuazione, e coerentemente affermando che l’aumento per la continuazione relativo al reato giudicato con il rito abbreviato, operato sulla pena base calcolata con riferimento a reato giudicato con il rito ordinario, deve essere ridotto di un terzo.

4. Il ricorso deve essere, pertanto, dichiarato inammissibile.

Alla dichiarazione d’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonchè – valutato il contenuto del ricorso e in difetto dell’ipotesi di esclusione di colpa nella proposizione dell’impugnazione – al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 1.000,00 alla Cassa delle ammende.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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