Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 03-02-2012, n. 1639 Rapporto di pubblico impiego

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 16/03 il Tribunale di Avellino accoglieva solo parzialmente l’opposizione a decreto ingiuntivo proposta dal Comune di Solofra contro il decreto ingiuntivo – emesso ad istanza dell’INPS – con cui gli era stato ingiunto il pagamento della complessiva somma di L. 1.923.994.306 di cui L. 578.376.000 a titolo di contributi non versati per prestazioni lavorative rese in favore di detta amministrazione in regime di convenzioni che, in realtà, presentavano i requisiti propri del rapporto di lavoro subordinato;

revocato il decreto opposto, il Tribunale condannava il Comune a pagare la sola somma di Euro 298.706,27 per contributi.

Con sentenza depositata il 16.10.06 la Corte d’appello di Napoli rigettava il gravame interposto dal Comune di Solofra.

Statuivano i giudici del merito che i contratti de quibus, sostanzialmente di lavoro subordinato, pur essendo nulli perchè stipulati senza previo concorso o prova pubblica selettiva, nondimeno producevano ex art. 2126 c.c. le conseguenti obbligazioni contributive a carico del Comune, contributi da versarsi non alla CPDEL ma all’INPS. Per la cassazione di tale sentenza ricorre il Comune di Solofra affidandosi a quattro motivi, poi ulteriormente illustrati con memoria ex art. 378 c.p.c..

Resiste con controricorso l’INPS.

Motivi della decisione

1- Con il primo motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. e 2126 c.c. per avere l’impugnata sentenza ritenuto applicabile l’art. 2126 c.c. a contratti di pubblico impiego nulli perchè costituiti senza le prescritte modalità, mentre la norma codicistica è da riservarsi ai soli contratti di lavoro subordinato; inoltre, quelli de quibus intercorsi con il Comune di Solofra erano validi rapporti di prestazione d’opera professionale L. n. 219 del 1981, ex art. 60 instaurati secondo legittimi e non impugnati atti di convenzione.

Il motivo è infondato.

Per costante insegnamento di questa Corte Suprema – al quale va data continuità – un rapporto di lavoro subordinato sorto con un ente pubblico non economico per i fini istituzionali dello stesso, nullo perchè non assistito da un regolare atto di nomina o addirittura vietato da norma imperativa, rientra pur sempre sotto la sfera di applicazione dell’art. 2126 c.c., con conseguente diritto del lavoratore al trattamento retributivo e alla contribuzione previdenziale per il tempo in cui abbia avuto materiale esecuzione (cfr. Cass. 17.10.05 n. 20009; Cass. 20.5.08 n. 12749; Cass. 3.7.03 n. 10551; Cass. 14.6.99 n. 5895: gli unici accenti non concordanti nel quadro di tale giurisprudenza attengono all’individuazione del creditore dei contributi – se INPS o CPDEL e, poi, INPDAP -, ma si tratta di questione non sollevata nel presente contenzioso).

A tale consolidato principio si è attenuta l’impugnata sentenza, che – quindi – non merita censura.

2- Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione della L. n. 219 del 1981, art. 60, art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c. nonchè vizio di motivazione laddove l’impugnata sentenza ha ritenuto che su atti formali adottati dalla pubblica amministrazione (anteriormente alla contrattualizzazione del pubblico impiego a seguito del D.Lgs. n. 29 del 1993) e non rimossi attraverso apposita impugnativa giurisdizionale possa prevalere l’accertamento dell’effettiva natura del rapporto.

Il motivo è infondato.

Correttamente l’impugnata sentenza ha ricordato che la qualificazione giuridica di contratto d’opera o per prestazioni professionali data dall’amministrazione è sempre suscettibile di verifica giurisdizionale, atteso che una diversa esegesi risulterebbe costituzionalmente illegittima (cfr. Corte cost. n. 115/94). In altre parole, non esiste una presunzione relativa (o, men che meno, assoluta) di conformità della natura giuridica del rapporto al nomen iuris attribuitogli dall’amministrazione.

A sua volta la difformità tra qualificazione giuridica del rapporto e suo reale svolgimento può emergere indifferentemente dalla prova diretta dell’elemento della subordinazione o da quella indiziaria attraverso indici rivelatori (cfr., ex aliis, Cass. 25.7.02 n. 10971;

Cass. 25.5.98 n. 5214), senza che a tal fine risulti pregiudiziale un’eventuale rimozione a seguito di impugnativa giurisdizionale, vertendosi – anzi -in materia attribuita alla giurisdizione del giudice ordinario anche prima del D.Lgs. n. 29 del 1993, trattandosi di controversia non tra lavoratore e datore di lavoro pubblico, ma tra quest’ultimo e l’INPS. Invero, qualora venga dedotto in giudizio l’omesso versamento di contributi assicurativi obbligatori (come nel caso di specie) vantati da un istituto previdenziale nei confronti di un ente pubblico non economico in relazione a pretesi rapporti di lavoro subordinato instaurati con tale ente, la causa deve essere decisa dal giudice ordinario, dovendosi distinguere – in base al titolo, ai soggetti e al contenuto – tra il rapporto previdenziale e quello di pubblico impiego la cui cognizione, relativamente alle fattispecie in cui non trovi applicazione, ai fini della determinazione della giurisdizione, la nuova disciplina di cui al D.Lgs. n. 29 del 1993 e, successivamente, di cui al D.Lgs. n. 80 del 1998 (entrambi poi confluiti nel t.u. approvato con D.Lgs. n. 165 del 2001), è attribuita invece alla giurisdizione del giudice amministrativo.

Nè in contrario rileva il fatto che da parte dell’ente pubblico sia contestata l’esistenza d’un rapporto di natura sostanzialmente subordinata, dal momento che anche la relativa questione pregiudiziale è riservata all’accertamento del giudice della causa pregiudicata – da compiersi, ai sensi dell’art. 34 c.p.c., solamente in via incidentale – salvo che taluna delle parti, che dimostri di avervi un concreto interesse trascendente quello immediato alla risoluzione della controversia, non chieda una pronuncia con efficacia di giudicato sulla specifica questione; in tale ultima evenienza si configura l’esistenza di una causa pregiudiziale, devoluta al giudice amministrativo (per le fattispecie – s’intende – anteriori all’operatività del nuovo regime introdotto con la contrattualizzazione del pubblico impiego), nel necessario contraddittorio con tutti i soggetti ai quali è stata riferita l’omissione contributiva dedotta in giudizio (cfr. Cass. S.U. n. 30.5.05 11329; Cass. S.U. 5.5.03 n. 6767).

Quanto al dedotto vizio di motivazione, esso si colloca all’esterno dell’area dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il vizio di motivazione spendibile mediante ricorso per cassazione concerne solo la motivazione in fatto, giacchè quella in diritto può sempre essere corretta o meglio esplicitata, sia in appello che in cassazione (v. art. 384 c.p.c., u.c.), senza che la sentenza impugnata ne debba in alcun modo soffrire.

Invero, rispetto alla questione di diritto ciò che conta è che la soluzione adottata sia corretta ancorchè malamente spiegata o non spiegata affatto; se invece risulta erronea, nessuna motivazione (per quanto dialetticamente suggestiva e ben costruita) la può trasformare in esatta ed il vizio da cui risulterà affetta la pronuncia sarà non già di motivazione, bensì di inosservanza o violazione di legge o falsa od erronea sua applicazione.

3- Con il terzo motivo il ricorrente si duole di vizio di motivazione per erronea valutazione del materiale probatorio quanto ad orario di lavoro, esclusività o meno del rapporto, possesso di partita IVA da parte dei soggetti con i quali il Comune aveva stipulato i contratti e deposizioni acquisite.

Il motivo è inammissibile perchè, essendo stato formulato in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, ex art. 366 bis c.p.c. (applicabile ratione temporis, vista la data di deposito dell’impugnata sentenza), si sarebbe dovuto concludere, per costante giurisprudenza di questa S.C., con un momento di sintesi del fatto controverso e decisivo, per circoscriverne puntualmente i limiti in maniera da non ingenerare incertezze in sede di formulazione del ricorso e di valutazione della sua ammissibilità (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 1. 10.07 n. 20603; Cass. Sez. 3 25.2.08 n. 4719; Cass. Sez. 3 30.12.09 n. 27680).

A ciò si aggiunga, quale ulteriore autonomo profilo di inammissibilità, che il vizio di omessa o insufficiente motivazione, deducibile in sede di legittimità ex art. 360 c.p.c., n. 5, sussiste solo se nel ragionamento del giudice di merito, quale risulta dalla sentenza, sia riscontrabile il mancato o deficiente esame di un punto (ora, dopo la novella di cui al D.Lgs. n. 40 del 2006, di un "fatto") decisivo della controversia, potendosi in sede di legittimità solo controllare, sotto il profilo logico – formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, soltanto al quale spetta individuare le fonti del proprio convincimento e, all’uopo, valutarne le prove, controllarne l’attendibilità e la concludenza e scegliere, tra le risultanze probatorie, quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr., ex aliis, Cass. S.U. 11.6.98 n. 5802 e innumerevoli successive pronunce conformi).

Nè vi è alcuna contraddizione logica fra ritenuto obbligo di orario di lavoro e svolgimento del rapporto non a tempo pieno, trattandosi di profili diversi e non incompatibili fra loro.

4- Con il quarto motivo il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione della L. 28 ottobre 1986, n. 730, art. 12, art. 2697 c.c. e art. 116 c.p.c., nonchè vizio di motivazione, laddove l’impugnata sentenza non ha escluso la natura subordinata almeno per i rapporti in convenzione in quanto il cit. art. 12 dispone l’immediata immissione straordinaria nei ruoli speciali ad esaurimento come dipendente pubblico solo di chi abbia intrattenuto un rapporto convenzionale, con esclusione del rapporto sostanzialmente subordinato la cui esistenza è pretesa dall’INPS. Tale censura di diritto è irrilevante perchè nella specie non si controverte di diritto o meno all’immissione in ruolo, nè quest’ultima può avere – in un senso piuttosto che in un altro, in astratto o in concreto – valore dirimente rispetto alla sostanziale natura subordinata delle prestazioni de quibus.

Da ultimo, quanto all’asserito vizio di motivazione dedotto ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, valga quanto sopra ricordato sulla non configurabilità ove attenga alla motivazione in punto di diritto.

5- In conclusione, il corso è da rigettarsi.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.

P.Q.M.

LA CORTE rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente a pagare le spese del giudizio di legittimità, che liquida Euro 80 oltre Euro 4.500,00 per onorari, oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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