Cass. pen. Sez. IV, Sent., (ud. 12-07-2011) 26-09-2011, n. 34729 Responsabilità del medico e dell’esercente professioni sanitarie

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

R.G. veniva tratto a giudizio per rispondere del reato di omicidio colposo per aver cagionato, nella sua qualità di medico di pronto soccorso, la morte di A.S. per colpa consistita in negligenza, imperizia, imprudenza ed in particolare per aver omesso di effettuare controlli medici, quali l’esame elettrocardiografico supportato da esami di laboratorio e da una ossimetria, volti ad indagare eventuali patologie cardio-polmonari intercorrenti, nonchè per aver omesso di somministrare una appropriata terapia anticoagulante, anche in considerazione del traumatismo patito dalla vittima in sinistro stradale del (OMISSIS) e noto all’anamnesi (fatto commesso il (OMISSIS) cui era seguito il decesso dell’ A. il (OMISSIS)). Con sentenza del 25 marzo 2009 il Tribunale di Bergamo riteneva l’imputato colpevole del delitto ascrittogli e, concesse le attenuanti genetiche, lo condannava alla pena di anni uno di reclusione nonchè al risarcimento dei danni patiti dalle parti civili, la cui liquidazione rimetteva al competente giudice civile, e al pagamento di una provvisionale di Euro 100.000,00 in favore di A.B. A. e di Euro 25.000,00 in favore di ciascuna delle residue parti civili. Nella sentenza, la dinamica dei fatti risultava così ricostruita: A.S., coinvolto in un incidente stradale il 29 luglio 2005, era stato trasportato al pronto soccorso dell’ospedale (OMISSIS) dove gli erano state riscontrate contusioni multiple nonchè ferite lacero contuse al ginocchio destro ed alla caviglia destra; medicato, e non sottoposto ad una precauzionale terapia anticoagulante, gli erano stati prescritti farmaci antidolorifici ed era stato dimesso; circa due settimane dopo, l’ A., nel mentre trascorreva una vacanza con la propria famiglia, aveva accusato episodi di mancanza di respiro e capogiri, in occasione di sforzi fisici di modesta entità, sicchè si era presentato con la moglie al pronto soccorso dell’ospedale di (OMISSIS), prossimo al luogo di villeggiatura, lamentando dolore all’emicostato sinistro, accentuato dalla respirazione, iniziato da circa due giorni, dopo aver cessato l’assunzione degli antidolorifici; il dottor R.G., di turno al pronto soccorso, lo aveva preso in cura, disponendo un esame radiografico del torace per verificare l’eventuale sussistenza di lesioni da pregresso trauma ma era stato rassicurato dal referto della radiologa dottoressa D. del seguente tenore: "non focolai pleuropolmonari in atto. Cuore e mediastino nei limiti. Non fratture costali diastasate nè segni di reazione pleurica"; il dottor R. aveva quindi dimesso l’ A. prescrivendogli di assumere antinfiammatori ed evitare sforzi; nelle prime ore del mattino del (OMISSIS) l’ A. era stato colto, nel sonno, da malore che si era manifestato con rantoli e di cui si era accorta la moglie;

i sanitari del 118, subito allertati e giunti in loco, ne avevano constatato il decesso; l’autopsia aveva consentito di accertare che il paziente era deceduto per trombo embolia massiva, interessante i rami principali dell’arteria polmonare, che aveva avuto origine da una trombosi delle vene dell’arto inferiore destro, con embolizzazione di materiale trombotico distaccatosi dalla periferia, sino a raggiungere il distretto arterioso polmonare; la datazione istomorfologica del materiale trombotico aveva permesso ai consulenti di farne risalire la formazione a non meno di quattro giorni prima della morte (e più precisamente, secondo le dichiarazioni rese in dibattimento dalla dottoressa S., da otto a quattro giorni prima), con la conseguenza che i disturbi accusati dalla vittima nei giorni (OMISSIS) (mancanza di respiro, capogiro, eccetera) erano senz’altro da mettere in correlazione con gli iniziali distacchi e migrazioni al polmone di materiale trombotico, la cosiddetta poussè trombo embolica, e quindi con il già avvenuto instaurarsi della patologia trombo embolica all’atto della sua presentazione davanti al medico dottor R.; le possibilità di vita per l’ A., se fosse stato sottoposto il 16 agosto a terapia adeguata, erano state indicate nel 96%. Il Tribunale ancorava il proprio convincimento alle indicazioni fornite dai periti e riteneva quindi di individuare profili di colpa nel fatto che il dottor R. non aveva preso comunque in considerazione, in correlazione con il dolore toracico del paziente, la possibilità della presenza di una trombosi venosa e della embolia polmonare, e l’aveva esclusa senza aver eseguito accertamenti o comunque prescritto esami tesi a sciogliere il quesito sull’essere o meno in atto una patologia trombo embolica, anche alla luce del fatto che il paziente si era presentato al medico con la cartella clinica dell’Ospedale (OMISSIS) dove si dava atto dei traumatismi che il paziente aveva subito agli arti inferiori circa venti giorni prima.

Proponeva rituale gravame il difensore dell’imputato chiedendo "in via di progressivo subordine e di riforma della impugnata sentenza":

1) accertare e dichiarare la nullità della sentenza gravata essendovi stata condanna per fatti diversi, in difetto di correlazione con l’imputazione contestata; 2) disporre la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale al fine di acquisire la sentenza di assoluzione pronunziata nei confronti della dottoressa D.L. nel separato procedimento ed assolvere il dottor R. dal reato a lui ascritto, perchè il fatto non sussiste, non costituisce reato, non è previsto dalla legge come reato, non è stato da lui commesso; 3) applicare la pena nel minimo i edittale, e nella specie meno afflittiva, con una diminuzione massima consentita dalla concessione delle attenuanti generiche; 4) sostituire la pena detentiva inflitta con la pena pecuniaria della specie corrispondente, revocando, unicamente per il caso di concessa sostituzione della pena detentiva nella pena pecuniaria della specie corrispondente, il beneficio della sospensione condizionale della pena; 5) dichiarare nulle, revocare e comunque riformare le pattuizioni civili, sia sotto il profilo delle condanne generiche ai danni sia sotto il profilo delle provvisionali, mandando il dottor R. assolto dalla osservanza delle domande civili svolte dalle parti civili, in tutto ovvero, in subordine, in parte; 6) dichiarare nulle, revocare o comunque riformare le provvisionali dal Tribunale pronunziate, in tutto ovvero, in subordine, in parte; 7) ordinare la revoca delle concesse provvisionali ovvero la sospensione interinale della loro esecuzione.

La Corte d’Appello di Brescia disattendeva le tesi dell’appellante e confermava quindi l’impugnata sentenza dando conto del proprio convincimento, per quanto in questa sede rileva, con argomentazioni che possono così riassumersi: A) non risultava violato il principio di correlazione tra contestazione e sentenza, avendo il primo giudice fatto buon governo dei principi enunciati in materia nella giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite, ed al riguardo venivano evocate talune decisioni, tra le quali le sentenze Primavera e Di Francesco emesse dalle Sezioni Unite; B) quanto alla richiesta di rinnovazione del dibattimento per acquisire la sentenza di assoluzione nei confronti della dottoressa D.L. – originariamente ritenuta anch’essa responsabile dello stesso evento letale – la semplice lettura del capo di imputazione dimostrava l’inconsistenza della questione posta dalla difesa giacchè si era innanzi alla descrizione di una ipotesi di concorso di cause indipendenti: ed in tal caso l’evento consegue ad una mera coincidenza di azioni od omissioni non collegate da alcun vincolo soggettivo; quelle mosse al dottor R. ed alla dottoressa D. apparivano all’evidenza imputazioni tra loro autonome perchè al primo erano state addebitate le omissioni, quali oggetto della contestazione, in rapporto di causa effetto con il decesso del paziente: si trattava di una serie causale assolutamente indifferente rispetto all’attività contestata alla dottoressa D., sicchè era del tutto irrilevante, quanto alla posizione del dottor R., che in relazione a tale attività la dottoressa D. fosse stata assolta o condannata; tra l’altro, dalla sentenza del Tribunale si rilevava – ma si trattava di un elemento in più di conoscenza, non essenziale della regiudicanda che riguardava il dottor R. – che la dottoressa D. era stata assolta perchè era stato accertato che la stessa non si era sbagliata nel leggere e poi refertare la radiografia che aveva eseguito. Ciò che rilevava, era che il dottor R. aveva ricevuto dalla dottoressa D. un referto con una corretta e appropriata lettura della radiografia toracica da lui disposta; donde l’inconferenza ex art. 603 c.p.p., comma 3, della sentenza relativa alla assoluzione della dottoressa D.; parimenti inconferente appariva l’acquisizione del volantino che illustrava il giro a piedi di 4 km per le vie del paese che la "pro loco" del posto aveva offerto alle famiglie perchè fosse compiuto festosamente insieme; la difesa dell’imputato mirava a dimostrare che la persona deceduta era in condizioni fisiche tali da consentirgli di partecipare con i propri familiari al giro a piedi del paese: ma che l’ A. fosse in grado di camminare non era dubbio, e di ciò non poteva essere certo prova un volantino che pubblicizzava una attività predisposta dalla "pro-loco" a favore delle famiglie dei villeggianti e dei residenti; non esisteva dunque alcuna "assoluta necessità" di rinnovazione dibattimentale ex art. 603 c.p.p., comma 3, apparendo assolutamente inutili le acquisizioni sollecitate dalla difesa dell’imputato; C) in punto di responsabilità, la condotta omissiva del dottor R. risultava, all’evidenza, colposa ed in diretto rapporto causale con il decesso della vittima, in base alle indicazioni fornite dai periti e sulla scorta delle seguenti considerazioni: 1) la prova della gravità della colpa generica e specifica nella condotta serbata dal dottor R., quale medico di pronto soccorso, era riscontrabile nello stesso verbale del Pronto Soccorso dal quale si ricavava che il medico aveva restituito al paziente la sintomatologia che da questi aveva ricevuto, dopo averla trasformata in diagnosi; il medico era così venuto meno al proprio dovere di dimettere dal pronto soccorso il paziente solo una volta accertata la sussistenza o la insussistenza di una patologia in atto; "restituire al paziente il sintomo che questi ha espresso quale diagnosi all’esame obiettivo e strumentale è negare alla radice l’esercizio della posizione di garanzia che il dottor R. rivestiva, la tutela della salute di ogni individuo paziente che si rivolge al Pronto Soccorso. E’ altresì negare l’esercizio della professione medica perchè, si badi, all’ A. non si è nemmeno diagnosticato di non avere alcuna patologia in atto (avrebbe comunque sbagliato, ma almeno avrebbe adempiuto al dovere medico di anamnesi, diagnosi, terapia e prognosi), semplicemente si è fatta la eco al paziente di quello che diceva." (così testualmente a pag. 11 della sentenza della Corte d’Appello); 2) ad avviso della difesa, una volta visto l’esito negativo della disposta radiografia toracica, non poteva in alcun modo ritenersi dovuto un approfondimento diagnostico da parte del dottor R. perchè questi non avrebbe avuto ragione alcuna per ulteriormente indagare le condizioni cliniche del paziente, nè tantomeno con accertamenti mirati alla scoperta della trombosi venosa profonda; detta prospettazione difensiva appariva però no condivisibile, posto che: a) il paziente si era presentato lamentando dolore all’emicostato sinistro accentuato dalla respirazione, ed è noto che a fronte della sintomatologia di dolore all’emicostato sinistro viene prescritta nella buona pratica e nelle linee guida di pronto soccorso – e a tanto si era attenuto il dottor R. – una radiografia toracica per accertare/escludere la presenza di patologie cardiache; b) orbene, una volta esclusa con la radiografia toracica la sussistenza di patologie ossee (infrazioni/fratture costali) quali potevano essere quelle note all’anamnesi prossima, dipendenti dalla caduta in moto di circa 20 giorni prima – ed escluse anche quelle cardiache – il dottor R. avrebbe dovuto procedere oltre nell’indagine diagnostica per accertare la causa di quel dolore all’emicostato sinistro, in particolare presente alla respirazione, persistendo invero elementi sintomatici e di conoscenza diretta del medico per nulla rassicuranti sulle effettive condizioni di salute in cui versava il paziente che alle sue cure si era rivolto; c) ed invero, in risposta alla digitopressione toracica operata dal medico sul costato del paziente, costui aveva riferito di non sentire dolore esterno bensì di soffrire di un dolore interno che nulla aveva a che fare con le ossa: "cosa mai potesse essere questo dolore che è un dolore dai connotati negativi precisi perchè ormai è certo, per come si presenta e per come ha verificato il medico, non è di natura ossea, non è di natura cardiaca, è evidente che il dottor R. non se l’è chiesto e si è fermato nell’esercizio professione medica e non ha adempiuto alla posizione di garanzia che rivestiva in quel momento specifico." (così testualmente a pag. 12 della sentenza); d) inoltre, il paziente molto diligentemente aveva recato con sè ed esibito la cartella clinica dell’ospedale (OMISSIS) dove, 20 giorni prima, era stato curato e refertato in seguito all’incidente stradale e sulla quale erano state annotate le escoriazioni e le contusioni riportate agli arti inferiori: tanto si leggeva sul diario di pronto soccorso del (OMISSIS) dell’ospedale di (OMISSIS) e tanto aveva ammesso lo stesso imputato nel suo esame il 18 gennaio 2008 alle pagine 42 e 43 delle trascrizioni: in conformità alla buona scienza medica, a questo punto il dottor R. avrebbe dovuto visitare gli arti inferiori perchè poteva esservi in atto una trombosi venosa profonda (originata dalle lesioni) che – come è noto – con altissima frequenza statistica rappresenta la primaria causa di embolia polmonare; e) l’embolia polmonare è notoriamente una sindrome di difficile diagnosi sicchè è professionalmente corretto ed esigibile sospettare la malattia od il pericolo della stessa se vi è in atto una patologia, quale la trombosi venosa profonda che può – se trascurata – evolversi in essa; f) peraltro, lo stesso imputato non aveva riferito di aver sottoposto il paziente ad esame obiettivo degli arti inferiori: il medico non avrebbe dovuto limitarsi al semplice esame toracico sol perchè gli era stato detto che il dolore era al torace, astenendosi da altre indagini mediante esami tanto facili da eseguirsi quanto vitale il disporre tempestivamente del relativo esito: con particolare riferimento anche alla pulsiossimetria che permette di evidenziare la percentuale di saturazione dell’ossigeno nel sangue, dato utilissimo per indirizzare verso la presenza di trombosi venosa profonda; esame, questo, di semplicissima effettuazione giacchè consiste nel porre al polso del paziente l’ossimetro che è null’altro che una sorta di braccialetto, di normale reperibilità nel pronto soccorso, al quale è collegata una sonda con cui si incappuccia la sommità del dito di una mano, così rilevando nel contempo sia la frequenza cardiaca che il livello di saturazione dell’ossigeno nel paziente; g) d’altra parte, lo stesso imputato – come riportato nell’atto di appello a pag. 31 rinviando al verbale di udienza del 18 gennaio 2008 – aveva ammesso di non aver pensato ad un’embolia; h) "La buona pratica medica, quella cioè che indica professionalità e diligenza in chi la mette in opera, impone di avere presente che il sintomo dolore toracico deve essere trattato con estrema attenzione proprio perchè molte malattie non cardiache o comunque extra toraciche danno una sintomatologia toracica ed entrano in diagnosi differenziale con esso: come è noto, in tema di responsabilità professionale medica, nel caso in cui il sanitario si trovi di fronte ad una sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, la condotta è colposa quando non vi si proceda, mantenendosi nell’erronea posizione diagnostica iniziale (v. Cass. Sez. 4, sent.4452 del 29.11.05, Campanile)" (così testualmente a pag. 15 della sentenza); D) quanto al giudizio controfattuale, sollecitato dall’appellante, l’indagine richiesta doveva essere effettuata nei termini seguenti: verificando se, in presenza del comportamento doveroso cui il R. era tenuto, l’evento si sarebbe comunque prodotto e, di conseguenza, si doveva provvedere alla individuazione specifica del comportamento doveroso e alla dimostrazione che la sua realizzazione avrebbe impedito l’evento; orbene, sulla scorta di tutte le considerazioni svolte ed in base al compendio probatorio acquisito, doveva conclusivamente affermarsi che: 1 ) il dottor R. rivestiva la posizione di garanzia per contratto; 2) l’anamnesi raccolta e l’esame obiettivo condotto secondo le regole professionali esigibili, avrebbero dovuto indurre il dottor R. ad effettuare alcuni semplici esami il cui esito sarebbe stato immediatamente acquisito (per es. l’ossimetria, che era uno degli esami indicati in capo di imputazione) e che avrebbero imposto, quanto meno cautelativamente, di effettuare terapia anticoagulante al paziente perchè costui non presentava alcuna controindicazione alla stessa, sicchè, con una probabilità (indicata a pagina 7 della sentenza di primo grado) pari al 96%, e non essendovi elementi per inserire l’ A. nel 4% eccettuato, l’ A. stesso avrebbe avuto salva la vita perchè la detta terapia anticoagulante (conoscenza professionale di base del medico) avrebbe scongiurato il vendicarsi della embolia polmonare letale.

Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l’imputato. Richiamati – ed in gran parte riportati testualmente – i motivi di appello sottoposti al vaglio del secondo giudice, nonchè i brani ritenuti più significativi della motivazione della sentenza della Corte d’Appello, il ricorrente, allegando i documenti evocati a sostegno del gravame, denuncia violazione di legge e vizio motivazionale con diffuse argomentazioni che possono sintetizzarsi come segue: 1) Violazione del principio di correlazione tra l’accusa contestata e la sentenza: la contestazione aveva ad oggetto l’addebito di un delitto commesso in cooperazione colposa tra il radiologo (la dott.ssa D.) ed il medico del pronto soccorso (il dottor R.), nel senso che, secondo la tesi d’accusa, i due avrebbero fatto dipendere le rispettive valutazioni cliniche dalla erronea lettura dei radiogrammi, ciascuno nella consapevolezza del fatto che l’altro sapesse e tenesse conto della valutazione altrui; in dibattimento era stato poi chiarito che la lettura dei radiogrammi data dal medico radiologo, lungi dall’essere cosi marcatamente erronea da dover essere apprezzata come tale altresì dal medico del pronto soccorso, era invece sotto ogni aspetto corretta; di tal che, ciò che nell’imputazione originariamente elevata con l’esercizio dell’azione penale era una fattispecie di cooperazione colposa è poi divenuta, nella sentenza di primo e secondo grado, una fattispecie monosoggettiva, nell’ambito della quale la colpa è stata individuata non già nel fatto di avere letto in modo erroneo i radiogrammi e per conseguenza assunto condotte terapeutiche parimenti erronee, ma di avere omesso quegli approfondimenti resi necessari dalla correttezza del referto espresso dal radiologo; donde la violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza; 2) Strettamente legato al primo, è il secondo motivo di ricorso con il quale viene censurata la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale; sostiene il ricorrente che, proprio il mutamento del fatto ritenuto in sentenza rispetto a quello contestato, avrebbe reso necessaria l’acquisizione della sentenza di assoluzione della dott.ssa D. passata in giudicato il 25 maggio 2009 dopo che la sentenza di condanna era già stata pronunciata in primo grado a carico del dottor R. il precedente 25 marzo 2009; 3) Il ricorrente si duole poi della mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, finalizzata ad ottenere l’acquisizione del volantino della "pro loco" descrittivo della marcia non competitiva organizzata nella località in cui era in villeggiatura l’ A.; si precisa con il ricorso che tale acquisizione non aveva lo scopo di dimostrare che l’ A. fosse in grado di camminare bensì quello di far rilevare la inattendibilità della parte civile A.B. nella parte in cui costei, sminuendo la rilevanza dell’impegno fisico richiesto dalla marcia de qua, aveva descritto in termini di dispnea quanto dagli altri familiari era stato descritto in termini di mero disturbo da affaticamento: partecipazione alla marcia avvenuta prima e non già dopo l’accesso al Pronto Soccorso come invece affermato dalla Corte d’Appello; 4) Con riferimento alla ritenuta sussistenza della condotta colposa e del nesso causale, sostiene il ricorrente che: 1) i periti dottor M. e dottor Bi. avrebbero concluso per una diagnosi differenziale effettuata dal dottor R. in maniera coerente con l’evidenza clinica e strumentale laddove la diagnosi era stata indirizzata dall’aver messo l’insorgenza del sintomo dolore in relazione alla sospensione dell’antidolorifico, prendendo in considerazione, da un lato, la patologia di interesse osseo ovvero cardiopolmonare, e, dall’altro, l’interessamento pleurico non radiologicamente evidente, risvegliato nel sintomo dalla cessata assunzione dei farmaci antalgici; 2) il perito dottor M. avrebbe escluso qualsiasi possibilità di terapia cautelativa o precauzionale per la eventualità della presenza di una trombosi venosa profonda, essendo prevista per tale patologia esclusivamente la terapia anticoagulante, ma solo in presenza di un sospetto clinico fondato ed oggettivamente acclarato di detta patologia: di tal che, la Corte territoriale avrebbe errato nel rimproverare al dottor R. l’omissione della terapia anticoagulante pur in mancanza di un fondato sospetto di trombosi venosa profonda; 3) non vi erano elementi tali da dover indurre il dottor R. ad un esame degli arti inferiori dell’ A., ed al riguardo la Corte distrettuale non avrebbe dato risposta a quanto dedotto con i motivi di appello; 4) nella perizia non sarebbe stato affermato che i parametri vitali non furono rilevati, ma sarebbe stato precisato che non era possibile stabilire se detti parametri non erano stati rilevati oppure erano stati raccolti ma non riportati; e la Corte di merito – quanto alla deposizione della teste M.I.e, infermiera, la quale aveva affermato di aver provveduto a verificare pressione arteriosa, saturimetria e frequenza cardiaca e di averne riferito al dottor R. gli esiti pensando che fossero normali – non avrebbe dato risposta alcuna alle deduzioni dell’appellante finalizzate a contrastare la valutazione del primo giudice di inattendibilità di tale teste, con particolare riferimento alla circostanza che i parametri vitali ben possono non essere riportati se risultati nella norma; 5) la Corte distrettuale non avrebbe dato risposta alcuna alle deduzioni formulate con i motivi di appello – secondo cui dall’istruzione dibattimentale non erano emersi elementi idonei a dimostrare che l’ A. avesse effettivamente il sintomo della dispnea e lo avesse riferito al sanitario – giungendo ad affermare che già il solo dolore toracico avrebbe dovuto indurre al sospetto di trombosi venosa profonda, così discostandosi dagli esiti dell’istruzione dibattimentale avendo il perito posto in rilievo che solo il sintomo della dispnea avrebbe potuto far sorgere il sospetto di una trombosi venosa profonda, ed avrebbe inoltre originato un codice giallo, dunque di maggiore gravità, all’atto dell’ingresso al Pronto Soccorso; 6) la Corte distrettuale avrebbe del tutto omesso di vagliare gli specifici motivi di appello finalizzati a dimostrare l’attendibilità – negata in vece dal primo giudice – delle prove a discarico documentali e testimoniali con le quali la difesa aveva voluto dimostrare l’insussistenza del sintomo della dispnea, l’avvenuto rilevamento dei parametri vitali e l’irrilevanza, sul piano della causalità, dell’omesso esame da parte del dottor R. degli arti inferiori del paziente; 7) i giudici di seconda istanza non si sarebbero uniformati ai principi affermati nella giurisprudenza di legittimità, in tema di responsabilità sanitaria per omessa diagnosi differenziale, secondo cui sussiste responsabilità solo ove quest’ultima sia riconoscibile.

Motivi della decisione

Il ricorso deve essere rigettato per le ragioni di seguito indicate.

Quanto al primo motivo di doglianza, è utile ricordare che nella giurisprudenza di questa Corte sono state indicate e più volte ribadite (cfr., in particolare, Sez. Un. De Francesco) quelle che sono le condizioni necessarie perchè possa dirsi violato il principio della correlazione tra accusa e sentenza, avuto riguardo alla nozione di "mutamento del fatto": "In tema di correlazione tra l’imputazione contestata e la sentenza deve affermarsi che, per aversi mutamento del fatto, occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume l’ipotesi astratta prevista dalla legge, così da pervenire ad un’incertezza sull’oggetto della imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l’indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non si esaurisce nel mero confronto letterale tra contestazione e sentenza perchè, vertendosi in materia di garanzie difensive, la violazione non sussiste se l’imputato, attraverso l’iter del processo, sia comunque venuto a trovarsi nella concreta condizione di potersi difendere in ordine all’oggetto della imputazione" (in termini, "ex plurimis", Sez. 4, n. 16900 del 04/02/2004 Ud. – dep. 09/04/2004 – Rv. 228042); e con specifico riferimento all’ipotesi della cooperazione colposa – che nella specie rileva – è stato ulteriormente, e condivisibilmente, precisato che "non costituisce violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza la condanna a titolo monosoggettivo per delitto colposo, a fronte dell’imputazione a titolo di cooperazione colposa, purchè venga comunque riconosciuta la rilevanza causale della condotta colposa dell’imputato, come delineata nell’imputazione" (Sez. 4, n. 14505 del 14/01/2010 Ud. – dep. 15/04/2010 -Rv. 247125). Orbene, nel caso di specie sono stati evidenziati al R., con l’esercizio dell’azione penale e successivamente attraverso l’evoluzione dell’istruttoria dibattimentale, i seguenti elementi di accusa in ordine ai quali è stato quindi possibile esercitare in concreto il diritto di difesa: la posizione di garanzia che lo coinvolgeva nel fatto (medico in servizio presso il Pronto Soccorso dell’Ospedale cui si era rivolto l’ A.); il profilo della sua colpa con riferimento agli omessi accertamenti ed alla conseguente omessa terapia anticoagulante che l’esito di detti accertamenti, se espletati, avrebbe indicato come necessaria "quoad vitam" al fine di scongiurare l’embolia polmonare quale conseguenza della trombosi venosa; il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento (l’omessa terapia anticoagulante aveva cagionato la morte).

Strettamente legato al primo, è il secondo motivo di ricorso con il quale è stata censurata la mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale: in proposito vale quindi quanto già osservato. A ciò aggiungasi che alla sentenza di proscioglimento della dottoressa D. – la cui mancata acquisizione da parte dei giudici di merito ha formato oggetto della censura del ricorrente – non può in alcun modo attribuirsi la connotazione di "decisività" secondo la nozione precisata in plurime e condivisibili decisioni di questa Corte:

"Prova decisiva", la cui mancata assunzione legittima il ricorso per cassazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), è quella idonea a superare contrasti e conseguenti dubbi emergenti dall’acquisito quadro probatorio oppure atta di per sè ad inficiare l’efficacia dimostrativa di altra o altre prove di sicuro segno contrario. Tale non è quella abbisognevole di comparazione con gli elementi già acquisiti, non per negarne l’efficacia dimostrativa, bensì per comportarne un confronto dialettico al fine di effettuare una ulteriore valutazione per quanto oggetto del giudizio" (Sez. Un., n. 17050/2006, Maddaloni, RV 233729); l’"error in procedendo" rilevante "ex" art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), è configurabile soltanto quando la prova richiesta e non ammessa, confrontata con le motivazioni addotte a sostegno della sentenza impugnata, risulti decisiva, cioè tale che, se esperita, avrebbe potuto determinare una decisione diversa; la valutazione in ordine alla decisività della prova deve essere compiuta accertando se i fatti indicati dalla parte nella relativa richiesta fossero tali da poter inficiare le argomentazioni poste a base del convincimento del giudice di merito" (Sez. 4, n. 23505/2008 , Di Dio, RV 240839); "la mancata acquisizione di una prova può essere dedotta in sede di legittimità, a norma dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), quando si tratta di una "prova decisiva", ossia di un elemento probatorio suscettibile di determinare una decisione del tutto diversa da quella assunta, ma non quando i risultati che la parte si propone di ottenere possono condurre – confrontati con le altre ragioni poste a sostegno della decisione – solo ad una diversa valutazione degli elementi legittimamente acquisiti nell’ambito dell’istruttoria dibattimentale" (Sez. 6, n. 37173/2008 – lanniello, RV 241009).

L’impugnata sentenza è stata altresì censurata con riferimento al diniego della rinnovazione del dibattimento che era stata richiesta dalla difesa anche per ottenere l’acquisizione del volantino della "pro-loco", descrittivo della marcia non competitiva organizzata nella località in cui era in villeggiatura l’ A.; detta acquisizione era stata sollecitata – per come precisato con il ricorso – onde far rilevare la inattendibilità della parte civile A.B. laddove costei, sminuendo la rilevanza dell’impegno fisico richiesto dalla marcia de qua, aveva descritto in termini di dispnea quanto dagli altri familiari era stato riferito in termini di mero disturbo da affaticamento: partecipazione alla marcia avvenuta non già dopo l’accesso al Pronto Soccorso, come affermato dalla Corte d’Appello, bensì prima. Trattasi di doglianza priva di fondamento. Ed invero, pur rilevandosi dalla deposizione di A. B., quale trascritta a pag. 24 del ricorso, che la partecipazione dell’ A. alla marcia avvenne effettivamente prima dell’accesso di costui al Pronto Soccorso, risultano tuttavia del tutto insignificanti la collocazione cronologica di tale evento e la prospettata discrasia tra la Al. ed altri testi circa la natura e l’entità dei disturbi che l’ A. aveva lamentato, non potendo attribuirsi alcuna valenza probatoria alla marcia, ed alle condizioni dell’ A. in occasione della stessa, tenuto conto: a) di quanto risultava dalla cartella clinica esibita dall’ A. al dottor R., dall’anamnesi, e dalle condizioni in cui l’ A. si presentò allo stesso dottor R.; b) dei sintomi riferiti dal paziente, nonchè, in particolare, dell’esame clinico che, non avendo evidenziato patologie di natura ortopedica, avrebbe dovuto allertare il medico ed indurlo a quegli accertamenti ritenuti indispensabili anche dai periti ed invece colposamente omessi (cfr. in proposito pag. 16 della sentenza impugnata), come in prosieguo si avrà modo di precisare ulteriormente analizzando specificamente i profili di colpa ravvisabili nel comportamento del dottor R..

Possono essere congiuntamente esaminati gli ulteriori motivi di ricorso, strettamente connessi in quanto relativi alla ritenuta sussistenza, sia della condotta colposa che del nesso di causalità tra la condotta stessa, addebitata all’imputato, ed il decesso dell’ A..

Anche al riguardo le tesi difensive risultano infondate.

Per quel che riguarda la condotta del dottor R., mette conto sottolineare che la colpa è stata individuata dai giudici di merito in primis nell’omissione di quegli accertamenti – dai periti ritenuti doverosi a fronte del quadro clinico che presentava l’ A. (con particolare riferimento all’esito negativo della radiografia al torace ed ai postumi del pregresso incidente desumibili dal referto dell’ospedale (OMISSIS) e riferiti al medico dallo stesso A.) – che, se eseguiti, avrebbero orientato il medico verso una diagnosi di trombosi profonda, in presenza della quale sarebbe stato poi doveroso, da parte del dottor R., sottoporre il paziente alla terapia anticoagulante quale rimedio salvifico; siffatto comportamento colposo emerge all’evidenza dalle conclusioni dei periti quali sintetizzate dalla Corte distrettuale (in particolare alle pagine 15 e 16 della sentenza impugnata). La condotta omissiva, consistita nella mancata somministrazione della terapia anticoagulante, non è stata rimproverata "ex se" all’imputato, vale a dire senza alcun collegamento con la specifica posizione di garanzia da lui assunta nei confronti dell’ A. in relazione al quadro clinico che costui presentava, ma, ovviamente, quale conseguenza dell’omissione colposa "a monte"; ed invero, l’esame obiettivo degli arti inferiori – doveroso ed esigibile, avuto riguardo al pregresso incidente ed a quanto risultava dal referto dell’ospedale (OMISSIS), ed invece omesso – e taluni semplici esami, pure doverosi in conseguenza dell’esito della radiografia toracica che non aveva evidenziato patologie di natura ortopedica, ed anch’essi invece non espletati, avrebbero consentito agevolmente di diagnosticare (o quanto meno di sospettare fondatamente) quella trombosi venosa profonda che poi generò l’embolia polmonare a sua volta causa della morte (perchè, appunto, non contrastata con la terapia anticoagulante). In buona sostanza, la mancata prescrizione e somministrazione della terapia anticoagulante è da ricondurre al profilo di colpa chiaramente ravvisatole nell’errore diagnostico in cui il R. era già inizialmente incorso; egli era rimasto infatti arroccato su una diagnosi di patologia traumatica, pur in presenza di elementi clinici – e non solo quelli che risultavano dalla documentazione dell’ospedale (OMISSIS) a lui esibita, ma, ancor più, l’esito della radiografia che aveva consentito di escludere inequivocabilmente la causa traumatica del dolore toracico lamentato dall’ A. – che, ulteriormente corroborati dalla successione cronologica dei fatti riferiti dal paziente, erano certamente idonei ad orientare il medico verso una diagnosi differenziale. Nella concreta fattispecie, la condotta del dottor R. si inquadra dunque perfettamente nell’ambito della colpa professionale (del medico), secondo il consolidato orientamento affermatosi nella giurisprudenza di legittimità con riferimento alla diagnosi differenziale: "in ipotesi di omicidio colposo, versa in colpa, per imperizia, nell’accertamento della malattia, e negligenza, per l’omissione delle indagini necessarie, sia al fine di dissipare dubbi circa la esatta diagnosi del male portato dal paziente, sia per individuare la terapia di urgenza più confacente al caso, il primario ospedaliero che, in presenza di sintomatologia idonea a porre una diagnosi differenziale, rimanga arroccato su diagnosi inesatta, benchè posta in forte dubbio dalla sintomatologia, dalla anamnesi e dalle altre notizie, comunque, pervenutegli, omettendo così di porre in essere la terapia più profittevole per la salute del paziente." (in termini, "ex plurimis", Sez. 4, n. 11651/1988 -ud.

08/11/1988, dep. 29/11/1988 – Rv. 179815). Così può dunque sintetizzarsi la condotta colposa del dottor R.: a) omesso esame obiettivo degli arti inferiori – nonostante il paziente avesse riferito al medico dell’incidente di 15 giorni prima – che avrebbe consentito di rilevare l’aumento di volume dell’arto destro e quindi ingenerare il fondato sospetto di un processo tromboembolico poi riscontrato in sede di autopsia ed evento frequente nel caso di traumi agli arti inferiori; b) omissione di accertamenti finalizzati ad una diagnosi differenziale una volta esclusa la causa traumatica del dolore toracico anche sulla base dell’esito della radiografia; c) omissione della terapia anticoagulante, quale conseguenza delle precedenti omissioni; d) dimissione del paziente nonostante la mancanza di una vera e propria diagnosi, "il posto che nel referto l’imputato si limitò ad annotare "diagnosi: dolore toracico sn.", così riportando quello che non era altro che il sintomo lamentato dal paziente.

Restano ora da esaminare le argomentazioni svolte dal ricorrente in ordine alla ritenuta sussistenza del nesso causale.

E’ noto che il tema del nesso di causalità in relazione al reato colposo per condotta omissiva, oltre ad essere stato oggetto di un vivace dibattito in dottrina, aveva anche determinato un contrasto nell’ambito della giurisprudenza di legittimità, che, non avendo trovato spontanea composizione, aveva reso necessario – con specifico riferimento alla materia della colpa professionale del medico – l’intervento delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione. Queste ultime si sono quindi pronunciate nel 2002 con la sentenza n. 27/2002 (ud. 10 luglio 2002, ric. Franzese) con la quale sono stati individuati i criteri da seguire perchè possa dirsi sussistente il nesso causale tra la condotta omissiva e l’evento, e sono stati enunciati taluni principi che, pur affermati, come detto, con specifico riferimento alla responsabilità colposa (per condotta omissiva) del medico, valgono evidentemente in generale per quel che riguarda la ricostruzione del nesso causale – quale elemento costitutivo del reato – in qualsiasi caso di reato colposo per condotta omissiva. I principi enucleabili dalla sentenza Franzese possono così riassumersi: 1) il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica – universale o statistica – si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa impeditiva dell’evento "hic et nunc", questo non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva; 2) non è consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, così che, all’esito del ragionamento probatorio che abbia altresì escluso l’interferenza di fattori alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica";

3) l’insufficienza, la contraddittorietà e l’incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all’evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta omissiva rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell’evento, comportano la neutralizzazione dell’ipotesi prospettata dall’accusa e l’esito assolutorio del giudizio; 4) alla Corte di Cassazione, quale giudice di legittimità, è assegnato il compito di controllare W retrospettivamente la razionalità delle argomentazioni giustificative – la c.d. giustificazione esterna – della decisione, inerenti ai dati empirici assunti dal giudice di merito come elementi di prova, alle inferenze formulate in base ad essi ed ai criteri che sostengono le conclusioni: non la decisione, dunque, bensì il contesto giustificativo di essa, come esplicitato dal giudice di merito nel ragionamento probatorio che fonda il giudizio di conferma dell’ipotesi sullo specifico fatto da provare. Può dunque affermarsi che le Sezioni Unite hanno ripudiato qualsiasi interpretazione che faccia leva, ai fini della individuazione del nesso causale quale elemento costitutivo del reato, esclusivamente o prevalentemente su dati statistici ovvero su criteri valutativi a struttura probabilistica, in tal modo mostrando di propendere, tra i due contrapposti indirizzi interpretativi delineatisi nella giurisprudenza di questa Suprema Corte, maggiormente verso quello più rigoroso (favorevole alla necessità dell’accertamento del nesso causale in termini di certezza) delineatosi in tempi più recenti.

L’articolato percorso motivazionale seguito nella sentenza Franzese, induce a ritenere che le Sezioni Unite, nel sottolineare la necessità dell’individuazione del nesso di causalità (quale "condicio sine qua non" di cui agli artt. 40 e 41 c.p.) in termini di "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica", abbiano inteso riferirsi non alla certezza oggettiva (storica e scientifica), risultante da elementi probatori di per sè altrettanto inconfutabili sul piano della oggettività, bensì alla "certezza processuale" che, in quanto tale, non può essere individuata se non con l’utilizzo degli strumenti di cui il giudice dispone per le sue valutazioni probatorie: "certezza" che deve essere pertanto raggiunta dal giudice valorizzando tutte le circostanze del caso concreto sottoposto al suo esame, secondo un procedimento logico – analogo a quello seguito allorquando si tratta di valutare la prova indiziaria, la cui disciplina è dettata dal secondo comma dell’ari.

192 del codice di procedura penale – che consenta di poter ricollegare un evento ad una condotta omissiva "al di là di ogni ragionevole dubbio" (vale a dire, appunto, con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica"). Invero, non pare che possa diversamente intendersi il pensiero che le Sezioni Unite hanno voluto esprimere allorquando hanno testualmente affermato che deve risultare "giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica".

Ciò detto, non resta ora che verificare se, nel caso che ne occupa, l’"iter" argomentativo seguito dai giudici di seconda istanza – posto a fondamento del convincimento della responsabilità del dottor R. – sia in sintonia con i principi di cui sopra affermati dalle Sezioni Unite. La risposta è affermativa. Innanzi tutto mette conto evidenziare che i giudici di merito – sia il Tribunale che la Corte di Appello, le cui sentenze si integrano trattandosi di doppia conforme – hanno posto a base del percorso argomentativo, rispettivamente seguito, le risultanze peritali, così ancorando il proprio convincimento ad un dato scientifico, supportato dall’esito dell’autopsia: decesso per trombo embolia massiva, interessante i rami principali dell’arteria polmonare, che aveva avuto origine da una trombosi delle vene dell’arto inferiore destro, con embolizzazione di materiale trombotico distaccatosi dalla periferia, sino a raggiungere il distretto arterioso. Alle indicazioni fornite dai periti, il Tribunale prima, e la Corte di Appello poi, hanno peraltro riservato un ampio spazio argomentativo svolgendo articolate considerazioni che risultano logicamente concatenate nonchè assolutamente in sintonia con i principi enunciati dalle Sezioni Unite. Fermo restando ciò che i periti hanno riferito circa i profili di colpa ravvisabili nella omissione di quegli accertamenti che, se svolti, avrebbero potuto orientare il dottor R. verso la diagnosi differenziale della trombosi venosa, basti ricordare, in aggiunta a quanto fin qui già osservato, il significativo riferimento dei periti stessi anche alle linee guida: "le linee guida indicano che nel sospetto di trombosi venosa, in assenza di controindicazione, si inizia il trattamento anticoagulante, trattamento che è analogo a quello prescritto per l’embolia polmonare, ed è pertanto negligente il comportamento del dottor R. per non aver correttamente raccolto l’anamnesi anche con eventuale valenza negativa, chiedendo al paziente che lamentava dolore toracico se mai avesse lamentato dispnea e/o sudorazione associata alla dispnea ovvero ancora malore o perfino pre-lipotimia, nel non aver rilevato i parametri vitali e nel non aver visitato gli arti inferiori del paziente tanto più alla luce del trauma segnalato sul verbale di accettazione" (pag. 16 della sentenza impugnata).

Nè la Corte distrettuale ha omesso di procedere al giudizio controfattuale, indicato dalle Sezioni Unite come indispensabile passaggio motivazionale per la individuazione del nesso causale.

Nella concreta fattispecie, invero, la Corte d’Appello – ancora una volta basandosi rigorosamente sui dati scientifici e statistici evidenziati dai periti – ha affermato che se fosse stata effettuata una terapia anticoagulante al paziente, l’ A., con una probabilità pari al 96%, avrebbe avuto salva la vita "perchè la detta terapia anticoagulante, ed è questa conoscenza professionale di base del medico, avrebbe scongiurato il verificarsi della embolia polmonare letale" (così testualmente a pag. 18 della sentenza impugnata). E’ bene sgombrare il campo da eventuali perplessità che potrebbero derivare dal riferimento della Corte d’Appello ad una percentuale numerica di probabilità. Ed invero, tenuto conto del contesto argomentativo in cui esso risulta collocato nella sentenza di secondo grado, deve certamente escludersi che detto riferimento possa essere inteso come riconducibile ad una opzione interpretativa adesiva al mero criterio probabilistico ripudiato invece dalle Sezioni Unite, posto che: a) la Corte d’appello ha ritenuto di dover confermare la validità dell’ipotesi accusatoria sull’esistenza del nesso causale, sulla base delle circostanze del fatto e dell’evidenza disponibile, nel rispetto dunque dei criteri indicati dalle Sezioni Unite, non avendo mancato di sottolineare la mancanza di elementi per inserire l’ A. nel 4% eccettuato: d’altra parte si trattava di un soggetto ancora giovane, ed i periti non hanno fatto alcun accenno ad eventuali gravi patologie emerse dall’autopsia, diverse da quella che ha causato il decesso dell’ A. (nè il ricorrente ha fornito qualche elemento concreto ed idoneo a scalfire il convincimento espresso dalla Corte distrettuale); b) il percorso motivazionale seguito dalla Corte di merito, quale appena sintetizzato, globalmente valutato, risulta certamente adeguato ed idoneo per dimostrare che la condotta omissiva del dottor R. è stata condizione necessaria dell’evento lesivo con "alto o elevato grado di credibilità razionale" o "probabilità logica". Giova infine sottolineare, quanto ai profili di colpa ravvisagli nella condotta del dottor R. ed al nesso di causalità, le significative analogie riscontrabili tra la concreta fattispecie e quella oggetto della sentenza Franzese: nell’occasione, le Sezioni Unite, nel pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, hanno ritenuto configurabile la responsabilità dell’imputato ricorrente, ai fini delle statuizioni concernenti gli interessi civili, in relazione all’addebito di non aver compiuto, nella qualità di medico, una corretta diagnosi e di non aver praticato adeguate cure al paziente.

Infine, neppure possono assumere rilievo, nella concreta fattispecie, le modifiche apportate dalla legge n. 46/2006 (c.d. Legge Pecorella) all’art. 606 c.p.p.. A fronte dei motivi di ricorso formulati dal ricorrente, compito di questa Corte non è quello di ripetere l’esperienza conoscitiva del Giudice di merito, bensì quello di verificare se il ricorrente sia riuscito a dimostrare, in questa sede di legittimità, l’incompiutezza strutturale della motivazione della Corte di merito; incompiutezza che derivi dal non aver tenuto presente, la Corte distrettuale, fatti decisivi, di rilievo dirompente dell’equilibrio della decisione impugnata. In realtà, le deduzioni del ricorrente non risultano in sintonia con il senso dell’indirizzo interpretativo di questa Corte secondo cui (Sez. 6, Sentenza n. 38698 del 26/09/2006, Rv. 234989, imp. Moschetti ed altri) la Corte di Cassazione deve circoscrivere il suo sindacato di legittimità, sul discorso giustificativo della decisione impugnata, alla verifica dell’assenza, in quest’ultima, di argomenti viziati da evidenti errori di applicazione delle regole della logica, o fondati su dati contrastanti con il senso della realtà degli appartenenti alla collettività, o connotati da vistose e insormontabili incongruenze tra loro, oppure inconciliabili, infine, con "atti del processo", specificamente indicati dal ricorrente e che siano dotati autonomamente di forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto, determinando al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua la motivazione. Ciò posto, se la denuncia del ricorrente va letta alla stregua dei contenuti concettuali dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), come modificato dalla L. n. 46 del 2006, occorre allora tener conto che:

1) la legge citata non ha normativamente riconosciuto il travisamento del fatto, anzi lo ha escluso: semmai, può parlarsi di "travisamento della prova", che, nel rinnovato indirizzo interpretativo di questa Corte, ha un duplice contenuto, con riguardo a motivazione del Giudice di merito o difettosa per commissione o difettosa per omissione, a seconda che il Giudice di merito, cioè, incorra in una utilizzazione di un’informazione inesistente, ovvero in una omissione decisiva della valutazione di una prova (Sez. 2, n. 13994 del 23/03/2006, Rv. 233460, P.M. in proc. Napoli). In sostanza, la riforma della L. n. 46 del 2006 ha introdotto un onere rafforzato di specificità per il ricorrente in punto di denuncia del vizio di motivazione. Infatti, il nuovo testo dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) – nel far riferimento ad atti del processo che devono essere dal ricorrente "specificamente indicati" – detta una previsione aggiuntiva ed ulteriore rispetto a quella contenuta nell’art. 581 c.p.p., lett. c) (secondo cui i motivi di impugnazione devono contenere "l’indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta"). Con la conseguenza che sussiste a carico del ricorrente – accanto all’onere di formulare motivi di impugnazione specifici e conformi alla previsione dell’art. 581 c.p.p. – anche un peculiare onere di inequivoca "individuazione" e di specifica "rappresentazione" degli atti processuali ritenuti rilevanti in relazione alla doglianza dedotta, onere da assolvere nelle forme di volta in volta più adeguate alla natura degli atti stessi, e cioè integrale esposizione e riproduzione nel testo del ricorso, allegazione in copia, precisa identificazione della collocazione dell’atto nel fascicolo del giudice et similia (cfr.

Sez. 1, n. 20370 del 20/04/2006, Rv. 233778, imp. Simonetti ed altri). In forza di tale principio (cosiddetta autosufficienza del ricorso) si impone, inoltre, che in ricorso vengano puntualmente ed adeguatamente illustrate le risultanze processuali considerate rilevanti e che dalla stessa esposizione del ricorso emerga effettivamente una manifesta illogicità del provvedimento, pena altrimenti l’impossibilità, per la Corte di Cassazione, di procedere all’esame diretto degli atti (in tal senso, "ex plurimis", Sez. 1 n. 16223 del 02/05/2006, Rv. 233781 imp. Scognamiglio): manifesta illogicità motivazionale assolutamente insussistente nel caso in esame, se si tiene conto delle argomentate risposte fornite dalle integrative pronunce di primo e secondo grado alle questioni poste dalla difesa dell’imputato. Ma v’è di più, posto che, rc sempre con riferimento alla portata delle innovazioni della legge n. 46/2006 /U relativamente allo specifico caso di ricorso per cassazione di cui all’art. 606 c.p.p., lett. e), non è sufficiente: a) che gli atti del processo evocati con il ricorso siano semplicemente "contrastanti" con particolari accertamenti e/o valutazioni del giudicante, o con la sua ricostruzione complessiva (e finale) dei fatti e delle responsabilità; b) nè che tali atti possano essere astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante. Occorre invece che gli "atti del processo", presi in considerazione per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione, siano "decisivi", ossia autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità cosi da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. In definitiva: la nuova formulazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8, nella parte in cui consente la deduzione, in sede di legittimità, del vizio di motivazione sulla base, oltre che del "testo del provvedimento impugnato", anche di "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame", non ha mutato la natura del giudizio di cassazione, che rimane pur sempre un giudizio di legittimità, per cui gli atti in questione non possono che essere quelli concernenti fatti decisivi che, se convenientemente valutati (non solo singolarmente, ma in relazione all’intero contesto probatorio), avrebbero potuto determinare una soluzione diversa da quella adottata, rimanendo comunque esclusa la possibilità che la verifica sulla correttezza e completezza della motivazione (cui deve limitarsi la corte di cassazione) possa essere confusa con una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito (Sez. 2, n. 19584 del 05/05/2006, Rv. 233775, imp. Capri ed altri).

Tenendo conto di tutti i princìpi testè ricordati, deve concludersi che, nel caso di specie, le argomentazioni poste a base delle censure sopra esaminate e gli atti del processo evocati nel ricorso non valgono a scalfire la congruenza logica del complesso motivazionale impugnato, alla quale il ricorrente ha inteso piuttosto sostituire una sua perplessa visione alternativa del fatto facendo riferimento all’art. 606 c.p.p., lett. e): pur asserendo di volere contestare l’omessa o errata ricostruzione di risultanze della prova dimostrativa, il ricorrente, in realtà, ha piuttosto richiesto a questa Corte un intervento in sovrapposizione argomentativa rispetto alla decisione impugnata, e ciò ai fini di una lettura della prova alternativa rispetto a quella, congrua e logica, fornita dalla Corte di merito.

Le allegazioni difensive non valgono dunque a disarticolare l’apparato argomentativo delle integrative pronunce di primo e secondo grado (trattasi di doppia conforme): è principio pacifico in giurisprudenza quello secondo cui, nel caso di doppia conforme, le motivazioni della sentenza di primo grado e di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione (in termini, "ex plurimis", Sez. 3, n, 4700 del 14/02/1994 Ud. – dep. 23/04/1994 – Rv.

197497; conf. Sez. 2, n. 11220 del 13/11/1997 Ud. – dep. 05/12/1997 – Rv. 209145).

Al rigetto del ricorso segue, per legge, la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; il ricorrente deve essere altresì condannato alle spese sostenute dalle parti civili per questo giudizio di cassazione che si liquidano in complessivi Euro 4.000,00 oltre accessori come per legge.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna i ricorrente al pagamento delle spese processuali, oltre alle spese in favore delle parti civili che liquida in complessivi Euro 4.000,00 oltre accessori come per legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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