Cass. civ. Sez. V, Sent., 03-02-2012, n. 1581 Dazi doganali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La società contribuente propose ricorso avverso avviso di rettifica, notificato il 25.3.2004, di dichiarazione doganale resa il 22.3.1999, conseguente a processo verbale di constatazione della Guardia di Finanza, con il quale era stata contestata l’utilizzazione, ai fini dell’importazione di banane a tasso agevolato, di certificati "Agrim" ritenuti falsi alla luce delle risultanze di accertamenti in sede penale.

L’adita commissione tributaria respinse il ricorso, con decisione confermata, in esito all’appello della società contribuente, dalla commissione regionale.

Respingendo altrettanti motivi di gravame, il giudice di appello:

negò la perenzione del potere di rettifica dell’Agenzia, prospettata in relazione all’intervenuta scadenza del termine triennale di cui al D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11, comma 5, sul presupposto che, in ipotesi di mancati pagamenti che trovino causa in comportamenti di rilevanza penale, il dies a quo del termine suddetto decorre, ai sensi dell’art. 221, par. 4, reg. C.e.e. 2913/1992 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, dalla data di definizione del procedimento penale;

negò il difetto di motivazione asseritamente inficiante l’avviso impugnato; riconobbe la responsabilità della società ricorrente per le violazioni contestate, posto che il ruolo dalla stessa incontrovertitamente assunto, di rappresentante a fini Iva della società importatrice, era, in concreto, per le obbiettive emergenze della documentazione prodotta in dogana, idoneo a renderla tale pure ai fini doganali; negò il difetto di prova sulla falsità dei certificati Agrim, ritenendo la falsità medesima idoneamente dimostrata da attestazione proveniente da competente Autorità di Stato estero.

Avverso tale sentenza, la società contribuente ha proposto ricorso per cassazione in sei motivi.

L’Amministrazione delle Dogane ha resistito con controricorso, deducendo preliminarmente l’inammissibilità del ricorso, perchè notificato intempestivamente e presso la propria sede anzichè presso l’Avvocatura generale dello Stato.

Con nota depositata il 19.12.2011, Adriafruit ha dichiarato la persistenza dell’interesse alla trattazione della causa, ai sensi e per gli effetti della L. n. 183 del 2011, art. 26, comma 1 (modificato dal D.L. n. 212 del 2011, art. 14, comma 1, lett. a).

Entrambe le parti hanno depositato memorie ex art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1) – Preliminarmente, va affermata l’ammissibilità del ricorso.

Incidendo su sentenza depositata il 24.2.2006, il ricorso risulta, infatti, consegnato per la notifica a mezzo posta, l’11.4.2006, nel termine utile di un anno e quarantasei giorni, di cui al combinato disposto dall’art. 327 c.p.c., L. n. 742 del 1969, art. 1. Esso risulta, peraltro, correttamente notificato presso la sede dell’Agenzia delle Dogane, non essendo questa stata difesa dall’Avvocatura dello Stato in grado di appello ed atteso che, in rapporto alle agenzie fiscali (che non configurano organi dello Stato), il patrocinio dell’Avvocatura dello Stato presenta, ai sensi del D.Lgs. n. 300 del 1999, art. 72, carattere facoltativo e non obbligatorio.

2) Con il primo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5, dell’art. 221, par. 3, 4 reg. C.e.e. 2913/1992 e del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, nonchè vizio di motivazione – censura la decisione impugnata per non aver rilevato la perenzione del potere di rettifica dell’Agenzia, per intervenuta scadenza del termine triennale di cui al D.Lgs. n. 347 del 1990, art. 11, comma 5, essendo l’atto impositivo (riguardante operazione doganale risalente al 1999) stato notificato solo in data 25 marzo 2004.

In proposito, la società ricorrente sostiene, in particolare: che – benchè l’art. 221, par. 3 e 4, Reg. C.e.e. 2913/1992, in ipotesi di mancata determinazione del dazio a causa di atto perseguibile penalmente, rimetta alla facoltà degli ordinamenti nazionali la previsione di norma che differisca la decorrenza del termine triennale per la comunicazione al debitore ad un momento successivo a quello dell’insorgenza del debito doganale – nell’ordinamento italiano una siffatta previsione non sarebbe riscontrabile (con conseguente ineludibile generalizzata applicazione del termine secondo l’ordinaria decorrenza), giacchè il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, riguardando la perenzione del potere di riscossione e non quella del potere di rettifica, sarebbe connaturalmente inidoneo ad integrare la previsione di cui all’art. 221, par. 3 e 4, Reg. C.e.e.

2913/1992; che, in ogni caso, ai sensi del combinato disposto dall’art. 221, parr. 3 e 4, Reg. C.e.e. 2913/1992 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, comma 3, lo slittamento della decorrenza del termine per la comunicazione della rettifica al debitore, alla data di definitiva chiusura del procedimento penale, avrebbe luogo solo ove formale notizia criminis intervenisse nell’ambito dell’ordinario decorso del termine, circostanza questa che, nel caso di specie, non risulterebbe provata.

La doglianza è infondata.

Occorre invero, in primo luogo, rilevare che, secondo ampiamente consolidata e condivisibile giurisprudenza di questa Corte, l’Amministrazione doganale è tenuta al rispetto del particolare procedimento di revisione previsto dal D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11 (e, in precedenza, di quello previsto dal poi abrogato D.P.R. n. 43 del 1973, art. 74) e dei corrispondenti termini di decadenza solo in ipotesi di attività di revisione in senso proprio (incidente, cioè, sulla qualificazione delle merci importate, in rapporto alle relative caratteristiche); non, invece, nelle ipotesi di rideterminazione o recupero del dazio causata da evenienze che, del tutto prescindendo dall’identificazione soggettiva ed oggettiva della merce nei suoi elementi fiscalmente rilevanti (quali, tra le altre, l’accertamento di falsificazioni o fatti penalmente perseguibili), non comportano alcuna ulteriore indagine sulla merce. In tale secondo caso, ai fini della rideterminazione del tributo, assume rilievo, con riguardo alla normativa nazionale, la procedura generale prevista dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 82, e segg., ed il corrispondente termine di prescrizione triennale (quinquennale, prima della novella di cui alla L. n. 428 del 1990, art. 29, comma 1) previsto dal successivo art. 84 (cfr. Cass. ord. 19549/09, 14522/08, 20733/06, 20361/06, 19196/06, 11406/96, 4892/94).

Da tale premessa, s’inferisce che, così come ritenuto dal giudice di appello, la fattispecie in rassegna è regolata dall’art. 221, par. 3 e 4 Reg. C.e.e. 2913/1992, Codice doganale comunitario (in vigore sino all’entrata in vigore del Reg. C.e. 450/2008, Codice doganale comunitario aggiornato) e dal D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84 (Testo unico leggi doganali), il cui comma 3 è stato dichiarato compatibile con la disciplina comunitaria da C.G., sentenza 17 giugno 2010, in causa C-75/09, Agra. Articoli che, in combinato disposto, sanciscono che l’azione per il recupero del dazio, che trovi origine in evenienze che prescindano dall’identificazione soggettiva ed oggettiva della merce, si prescrive nel termine di tre anni dall’irregolare introduzione della merce nel territorio doganale, salvo che si verta in tema di illecito che abbia rilevanza pure dal punto di vista penale, nel qual caso l’azione si prescrive nel termine di tre anni dalla data in cui la sentenza od il decreto pronunciati nel giudizio penale sono divenuti irrevocabili.

Ciò posto, deve, peraltro, convenirsi con la società contribuente che, discostandosi da precedente orientamento (per il quale, v.

(Cass. 11499/97, 7751/97), la più recente giurisprudenza di questa Corte (cfr. Cass. 9773/10, 22014/06 e 19193/06) venendo, così, ad individuare, nel combinato disposto dall’art. 221, parr. 3 e 4, reg.

C.e.e. 2913/1992 e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 84, comma 3, la previsione di una causa di interruzione-sospensione dell’ordinario decorso del termine di prescrizione – è pervenuta all’affermazione del principio, secondo cui il termine triennale di prescrizione dell’azione di recupero a posteriori dei dazi all’importazione, nel caso in cui la mancata determinazione del dazio sia stata causata da comportamenti penalmente perseguibili, inizia a decorrere dalla data in cui il provvedimento che ha concluso il procedimento penale, ancorchè non esteso a tutti i debitori d’imposta, sia divenuto irrevocabile o definitivo; ma ciò soltanto se, entro il triennio dall’effettuazione dell’operazione doganale, sia intervenuta formale comunicazione della notitia criminis all’Autorità giudiziaria (in tal senso, esplicitamente, Cass. 22014/06 e 19193/06).

Tuttavia (in disparte la considerazione che, da C. Cost. 247/2011, specie punto 5.3, sembra emergere il criterio che la proroga dei termini di accertamento è legittima se, entro lo spirare del termine originario, emergano come obiettivamente riscontrabili gli elementi richiesti dall’art. 331 c.p.p., per l’insorgenza dell’obbligo di denunzia all’Autorità giudiziaria) il rilievo non giova alla società contribuente, giacchè, nella specie, l’evocata notitia criminis appare certamente collocabile nel triennio dall’effettuazione dell’operazione doganale.

Risalendo tale operazione al 1999, in tal senso milita, infatti, l’allegazione dell’Agenzia (cfr. controricorso p. 11), secondo cui procedimento penale per i fatti in oggetto (peraltro esteso all’allora legale rappresentante di Adriafruit) era stato radicato davanti al Tribunale di Catania già nel 2000 (R.g. 8474/00). Si tratta, infatti, di allegazione, che lo stesso ricorso della società contribuente (v. p. 13) rivela dedotta e documentalmente assistita dall’Agenzia già in primo grado e che, per converso, non risulta probatoriamente contraddetta dalla società contribuente o da essa specificamente contestata nè in questa sede di legittimità nè, con inevitabili ricadute anche sul piano dell’autosufficienza del ricorso in merito al dedotto vizio di motivazione, nei pregressi gradi di merito.

3) – Con il secondo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 5 bis, della L. n. 212 del 2000, art. 7, nonchè vizio motivazionale – censura la decisione impugnata per aver negato il difetto di motivazione asseritamente inficiante l’avviso impugnato.

La doglianza va disattesa.

Al riguardo, deve, in primo luogo rilevarsi che, pur evocando violazione di legge e carenza di motivazione, il motivo pare, in realtà, rimettere inammissibilmente in discussione accertamento in fatto del giudice di merito, che – riscontrata l’enunciazione dei presupposti dell’accertamento (dichiarazione doganale, falsità dei certificati d’importazione all’uopo presentati, quale riferita dall’Autorità apparentemente emittente e riscontrata in sede penale) ha ritenuto idonei i contenuti motivazionali del contestato accertamento, con valutazioni che, ancorate alle risultanze processuali e in sè coerenti si sottraggono al sindacato di legittimità. Nell’ambito di tale giudizio, non è, infatti, conferito il potere di riesaminare e valutare il merito della causa, ma solo quello di controllare, sotto il profilo logico-formale e della correttezza giuridica, l’esame e la valutazione fatta dal giudice del merito, restando a questo riservate l’individuazione delle fonti del proprio convincimento e, all’uopo, la valutazione delle prove, il controllo della relativa attendibilità e concludenza nonchè la scelta, tra le risultanze probatorie, di quelle ritenute idonee a dimostrare i fatti in discussione (cfr. Cass. 22901/05, 15693/04, 11936/03).

Deve, inoltre, considerarsi che, secondo la giurisprudenza di questa Corte (v. Cass. 19195/06) l’atto teso al recupero dei diritti doganali ai sensi del D.P.R. n. 43 del 1973, artt. 81 e 82, è congruamente motivato con la sola indicazione della causale (nella specie idoneamente configurata dalla dedotta falsità dei certificati d’importazione utilizzati ai fini della dichiarazione e dal ruolo assunto dalla ricorrente nell’operazione doganale) e dell’ammontare della somma richiesta.

4) – Con il terzo motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 17, comma 2, e art. 1, par. 3, dir. 77/388/C.e.e. (come modificato dall’art. 1 dir. 2000/65/C.e.) nonchè dell’art. 4, n. 18, 5, 64, 201, 202 e 203 Reg. C.e.e. 2913/1992 (Cod. dog. corti.) e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38 (T.U.L.D.) – censura la decisione impugnata per non aver negato la responsabilità della società ricorrente, per le contestate violazioni doganali, benchè essa rivestisse qualifica di rappresentante dell’importatrice a soli fini Iva D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17, comma 2.

La doglianza è infondata.

In proposito, va rilevato che questa Corte ha già reiteratamente precisato (cfr. Cass. 7261/09 e 13890/08, in relazione ad analoga controversia tra le medesime parti del presente giudizio) che il rappresentante fiscale a fini Iva D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 17, comma 2 – se, per tale ruolo, è elettivamente chiamato a rispondere, in solido con il rappresentato, limitatamente agli obblighi derivanti dall’applicazione delle norme in tema di Iva – ben può assumere, in concreto e in rapporto agli effetti ed agli obblighi scaturenti dalla dichiarazione doganale, anche qualità di soggetto passivo dell’obbligazione doganale. Ciò quale riflesso del fatto che, in forza della previsione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, Iva all’importazione e diritti di confine (che sono di natura doganale) presentano, quanto a meccanismi applicativi, disciplina comune e, pur configurando tributi distinti e separatamente liquidati, sono resi oggetto di unico prelievo effettuato sulla bolletta doganale quale condizione per il rilascio della merce.

Occorre, invero, rilevare che, in materia doganale, obbligati al versamento dei dazi sono, non solo l’importatore (direttamente e/o quale soggetto per conto del quale è resa la dichiarazione) e, in via solidale, il di lui rappresentante indiretto, ma anche qualsiasi altro soggetto che, pur partecipando alle formalità doganali, non dichiari di agire, a tal riguardo, a nome o per conto di un terzo ovvero dichiari di agire a nome o per conto di un terzo senza disporre del relativo potere di rappresentanza; questi è considerato agire a suo nome e per proprio conto e, conseguentemente, risponde dell’obbligazione doganale quale sottoscrittore della dichiarazione o, comunque, "cooperante" al perfezionamento dell’operazione.

In aderenza alla specifica finalità della norma doganale tesa a salvaguardare l’interesse pubblicistico all’adempimento dell’obbligazione daziaria, l’art. 201, comma 3, Reg. C.e.e.

2913/1992 precisa, infatti, che, quando una dichiarazione è resa in base a dati che determinano la mancata riscossione totale o parziale dei dazi dovuti per legge, le persone che hanno fornito i dati necessari alla stesura della dichiarazione e che erano od avrebbero dovuto essere a conoscenza della erroneità possono essere parimenti considerati debitori conformemente alle vigenti disposizioni doganali; e, in linea con la regolamentazione comunitaria, il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 38 (T.U.L.D.), vincola all’obbligazione doganale, generalizzatamente, tutti coloro comunque ingeritisi nell’operazione.

Se ne deve inferire che, in tale contesto normativo, chi, come Adriafruit, risulti incontrovertitamente affiancato al proprietario/destinatario delle merci nella dichiarazione doganale (seppur con l’indicazione di rappresentante fiscale), non può essere considerato estraneo alla conseguente responsabilità per i diritti daziari, atteso che, all’uopo, rileva anche la mera fattuale ingerenza nel perfezionamento dell’operazione d’importazione (la cui essenza l’Agenzia non è tenuta a vagliare, essendo onere dell’interessato contraddire probatoriamente) e che la responsabilità solidale ai fini dell’Iva all’importazione non vale ad escludere quella di profilo strettamente doganale, ben potendo, con questa, concorrere. Ciò, mentre la sentenza C.G. 21.12.2011, in causa C-499/10, citata dal ricorrente in sede di discussione orale, non appare conferente, riguardando regime di responsabilità non concernente rapporti doganali ed essendo, peraltro, concepita in termini di assoluta oggettività, senza alcuna facoltà di prova contraria.

5) – Con il quarto motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 374 del 1990, art. 11, comma 1, e dell’art. 2697 c.c., art. 2699 c.c., art. 2700 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 7, nonchè vizio motivazionale – censura la decisione impugnata per aver negato il difetto di prova sulla falsità dei certificati "Agrim".

La doglianza va disattesa.

I giudici del merito hanno ritenuto la falsità dei certificati "Agrim" di cui alla controversia in oggetto, in base al disconoscimento dell’Autorità spagnola, da cui essi apparentemente provengono, che ha perentoriamente affermato di non aver mai emesso i documenti medesimi.

La valutazione in fatto, aderente alle risultanze processuali e in sè coerente, non appare controvertibile se non con un sindacato in fatto non consentito in questa sede (cfr. Cass. 22901/05, 15693/04, 11936/03).

Con il quinto motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione dell’art. 229, par. 2 lett. b, Cod. Dog. Com. e dell’art. 28 reg. C.e.e. n. 3719/88 – censura la decisione impugnata per non aver ritenuto applicabile l’esimente di cui all’evocata disposizione del codice doganale.

La doglianza è inammissibile. Introduce, infatti, una questione "nuova", almeno in prospettiva di autosufficienza del ricorso, prospettando un tema di decisione che, nè dalla sentenza impugnata nè dal ricorso per cassazione, risulta proposto e trattato davanti al giudice del merito (v. Cass. 20518/08, 14590/05, 13979/05, 6656/04 5561/04).

Con il sesto motivo di ricorso, la società contribuente – deducendo violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 14 e dell’art. 102 c.p.c. – censura la decisione impugnata per non aver disposto l’integrazione del contraddittorio nei confronti degli altri coobbligati al pagamento.

La doglianza è infondata, posto i rapporti intercorrenti tra Dogana ed i vari coobbligati al pagamento del dazio non sono legati da vincoli di inscindibilità. 6) – Alla stregua delle considerazioni che precedono – corretta nei termini sopra evidenziati la motivazione della sentenza impugnata – s’impone il rigetto del ricorso.

Per la soccombenza, la società contribuente va condannata alla refusione delle spese processuali, liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

la Corte: rigetta il ricorso; condanna la società contribuente al pagamento delle spese processuali, liquidate in complessivi Euro 2.100,00 (di cui Euro 2.000,00 per onorario), oltre spese generali ed accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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