Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 22-06-2011) 26-09-2011, n. 34786 Giudizio d’appello sentenza d’appello

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La Corte d’Appello di Lecce, con sentenza emessa il 9 marzo 2010, in parziale riforma della sentenza del 20 settembre 2009 del G.U.P. ha confermato la sentenza del Tribunale di Tarante del 18 giugno 2007, con la quale G.B. veniva condannato alla pena di sette anni di reclusione, per i reati di cui all’art. 609 bis c.p., commesso nei confronti di C.S. in (OMISSIS), perchè la costringeva a rapporti sessuali con violenza e minaccia, picchiandola e percuotendola, e minacciandola di rendere pubbliche le foto che la ritraevano in atteggiamenti intimi e scabrosi, dichiarando non doversi procedere per i reati di cui agli artt. 572, 605, 609 bis e altri commessi sino al (OMISSIS), perchè estinti per prescrizione.

L’imputato, in proprio e tramite il proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza per i seguenti motivi:

1. Inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in riferimento agli artt. 120 e 609 septies c.p., in quanto i giudici avrebbero dovuto dichiarare non doversi procedere per mancanza o tardività della querela, in quanto la persona offesa ebbe a fare le prime dichiarazioni dei reati di violenza sessuale solo nel verbale in data (OMISSIS), mentre la querela redatta il 18 luglio 2001 risulta depositata il successivo 25 luglio. Inoltre la sola contestazione di connessione con altro delitto procedibile di ufficio non sarebbe sufficiente all’operatività dell’art. 609 septies c.p..

2. Mancata assunzione di una prova decisiva ex art. 603 c.p.p.: la Corte ha ritenuto che le richieste testimonianze non avessero rilevanza in quanto le questioni attinenti al rapporto sentimentale tra imputato e persona offesa sarebbero state neutre rispetto alla decisione.

3. Mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento alla valutazione degli elementi di prova, attesa la necessità di vagliare l’attendibilità della persona offesa con estremo rigore e non essendosi tenuto conto dei motivi di risentimento della persona offesa, conseguenti alla avanzata richiesta da parte del ricorrente di restituzione di una somma prestata alla persona offesa durante la pregressa convivenza. Inoltre non potevano essere considerati validi riscontri le testimonianze de relato dei familiari ed amici della C.. In particolare la sentenza non ha fornito motivazione in ordine al contrasto di dichiarazioni relative all’episodio delle foto che la ritraevano nuda. Mancanza inoltre di elementi di riscontro circa la condotta di violenza asseritamente posta in essere dal ricorrente, atteso che i testimoni si sono limitati a narrare quanto loro riferito dalla persona offesa.

4. Inosservanza e/o erronea applicazione della legge penale, per la mancata applicazione della norma penale e della sanzione più favorevole e non corretta applicazione dell’aumento di pena per la continuazione: la pena base doveva essere individuata nella cornice edittale dell’abrogato art. 519 c.p., in quanto la consumazione del primo episodio era avvenuta sotto la vigenza di tale fattispecie.

Inoltre la sentenza impugnata non indica quali e quanti sarebbero stati gli specifici episodi (i quali hanno giustificato un aumento di un anno e mezzo di reclusione per l’art. 81 cpv. c.p.) di violenza sessuale di cui al capo e) reato che è stato ritenuto commesso, all’esito di contestazione suppletiva, a tutto l’anno 2000, anno di cessazione della relazione sentimentale tra l’imputato e la persona offesa.

Motivi della decisione

1. Occorre premettere che la Corte di Cassazione ha affermato il principio di diritto in base al quale, quando le sentenze di primo e secondo grado concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento delle rispettive decisioni, la struttura motivazionale della sentenza di appello si salda con quella precedente per formare un unico complessivo corpo argomentativo (così, tra le altre, Sez. 2, n. 5606 dell’8/2/2007, Conversa e altro, Rv. 236181; Sez 1, n. 8868 dell’8/8/2000, Sangiorgi, Rv.

216906; Sez. 2, n. 11220 del 5/12/1997, Ambrosino, Rv. 209145). Tale integrazione tra le due motivazioni si verifica allorchè i giudici di secondo grado abbiano esaminato le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli usati dal primo giudice e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione e, a maggior ragione, quando i motivi di appello non abbiano riguardato elementi nuovi, ma si siano limitati a prospettare circostanze già esaminate ed ampiamente chiarite nella decisione di primo grado (Cfr. la parte motiva della sentenza Sez. 3, n. 10163 del 12/3/2002, Lombardozzi, Rv. 221116). Nel caso di specie, i giudici di secondo grado, che pure hanno fatto riferimento alle esaustive argomentazioni sviluppate nel dettaglio nella sentenza di primo grado, hanno fornito una valutazione autonoma dei motivi di appello sui punti specificamente indicati, verificando sia le ragioni dell’attendibilità della persona offesa, sia gli elementi probatori di riscontro dei fatti.

2. Per quello che concerne il primo motivo di ricorso, lo stesso è infondato. Vale infatti il principio che in caso di perseguibilità di ufficio di tali delitti per effetto della connessione, ove il reato procedibile di ufficio si estingua per il decorso della prescrizione, la perseguibilità di ufficio del reato sessuale non viene meno quando le indagini preliminari abbiano comunque dovuto avere ad oggetto anche tale reato "valicando quella soglia di riservatezza posta a base della perseguibilità a querela dei reati sessuali" (in tal senso sez. 3, n. 17846 del 19/3/2009, C, Rv.243759).

3. Quanto alla doglianza avanzata, circa la mancata rinnovazione probatoria in appello, è bene premettere che il giudice d’appello ha l’obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, quando ritenga invece di respingerla, può anche motivarne il rigetto in maniera implicita, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità penale (cfr. Sez. 3, n. 24294 del 25/6/2010, D.S.B., Rv. 247872; si veda anche Sez. 4, n. 47095 dell’11/12/2009, Sergio e altri, Rv. 245996). Nel caso di specie i giudici hanno anche espresso le ragioni per le quali hanno ritenuto che le testimonianze richieste non potessero comunque fornire elementi diversi, per cui la censura risulta infondata.

3. Del pari infondate le lagnanze circa la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, per le ragioni già poste in premessa. Per quanto attiene poi alla specifica censura relativa alla attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, secondo i principi ormai consolidati affermati da questa Corte, il giudice può trarre il proprio convincimento circa la responsabilità dell’imputato anche dalle sole dichiarazioni rese dalla persona offesa, sempre che la stessa sia stata sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all’art. 192 c.p.p., commi 3 e 4 che richiedono la presenza di riscontri esterni (cfr., per tutte, Sez. 1, n. 29372 del 27/7/2010, Stefanini, Rv. 248016). E in tale ambito, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito, ma quello di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni. Nessuna illogicità quindi si ravvisa nella sentenza impugnata, la quale ha dato conto delle ragioni per le quali le dichiarazione della persona offesa dovessero ritenersi attendibili.

4. Risulta invece fondato l’ultimo motivo di ricorso.

Il giudice di primo grado nel determinare la pena per il capo e) ha fatto riferimento "al reato più grave", quando si trovava invece a determinare la sanzione per l’unico reato rimasto e si è riferito al fatto che dovesse stabilire un aumento per la continuazione, peraltro non espressamente contestata nell’imputazione. Sulla specifica doglianza, i giudici di appello non hanno fornito puntuale risposta, quanto alla prova dei plurimi e distinti episodi ed ai criteri di dosimetria sanzionatoria riferiti alla reiterazione delle condotte violente. Pertanto la sentenza deve essere annullata con rinvio, limitatamente al trattamento sanzionatorio, ad altra sezione della Corte di appello di Lecce.

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata, limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Lecce. Rigetta nel resto.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *