T.A.R. Calabria Catanzaro Sez. I, Sent., 17-10-2011, n. 1276 Strade pubbliche e private

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/
Svolgimento del processo

1.- Con ricorso n. 994 del 2009 Pubblicità S. s.r.l. espone di avere richiesto al Compartimento A. per la Calabria l’autorizzazione ad installare un impianto pubblicitario delle dimensioni di mt. 2.00 per 1.50 sulla S.S. al Km 135+200 lato destro e al Km. 189+590 lato destro.

L’amministrazione ha dichiarato che entrambi gli impianti non fossero conformi all’art. 23, comma 7, del d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (Nuovo Codice della strada) e al d.p.r. 16 dicembre 1992 n. 495 (Regolamento di esecuzione e di attuazione del nuovo codice della strada).

Secondo il ricorrente tali determinazioni sarebbero illegittime in quanto il citato art. 23 vieterebbe qualsiasi forma di pubblicità lungo gli itinerari internazionali che abbiano determinate caratteristiche non possedute dalla strada 106.

Si chiede, pertanto, l’annullamento delle determinazioni amministrative di rigetto delle domande proposte.

1.1.- Con un primo ricorso per motivi aggiunti è stato impugnato un ulteriore diniego sulla istanza presentata dal ricorrente in data 25 maggio 2009.

1.2.- Con un secondo ricorso per motivi aggiunti si chiede la condanna dell’A. al risarcimento dei danni, sostenendosi che, come si evince dalle copie dei contratti allegati, la ricorrente per ogni cartello avrebbe ottenuto dai propri clienti un corrispettivo di euro 1.400,00. Supponendo un lucro pari al 20%, il guadagno annuo sarebbe stato di euro 280,00 per cartello. Considerato che i cartelli sono due e gli anni di riferimento anche due si chiede la condanna al pagamento di complessive euro 1.120,00.

E" stata chiesta, inoltre, la condanna al risarcimento dei danni subiti per la impossibilità di esercitare attività professionale con conseguente incidenza negativa sul volume d’affari: il danno viene quantificato in euro 280.000,00.

Si è chiesto anche il danno all’immagine imprenditoriale quantificato in euro 100.000,00.

1.3.- Si è costituita in giudizio l’A. deducendo la inammissibilità o la infondatezza del ricorso.

2.- Con ricorso n. 995 del 2009 Pubblicità S. s.r.l. ha, altresì, impugnato il diniego opposto dall’A. ad ottenere l’autorizzazione ad installare un impianto pubblicitario di tipo "catullo" in lamiera zincata delle dimensioni di mt. 2.00 per 1.50 su pali zincati preverniciati sulla S.S. al Km 189+590 lato destro. I motivi posti a fondamento del ricorso i medesimi di quelli indicati nel primo ricorso.

2.1.- Con ricorso per motivi aggiunti la ricorrente ha impugnato l’atto del 26 luglio 2009, con cui l’A. ha negato l’autorizzazione all’installazione di altro impianto pubblicitario. I motivi a fondamento di tale ricorso sono gli stessi di questi posti a base del ricorso principale.

2.2.- Con un secondo ricorso per motivi aggiunti la ricorrente ha chiesto il risarcimento del danno subito per il rigetto delle domande proposte, che è stato quantificato nella medesima somma indicata sub 1.2.

2.3.- Si è costituita in giudizio l’A., chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o infondato.

3.- Con ricorso, recante il numero 1225 del 2010, Pubblicità S. s.r.l. ha chiesto il risarcimento dei danni subiti per avere l’A., in maniera espressa o tacita, rigettato le istanze per la installazione di ben 1.341 cartelli pubblicitari nel corso degli anni che vanno dal 1997 al 2008 (a pag. 7 del ricorso si indicato le richieste effettuate per ogni anno).

Il danno subito sarebbe complessivamente pari ad euro 4.505.760,00.

Si chiede, inoltre, la condanna al risarcimento dei danni subiti per la impossibilità di esercitare attività professionale e incidenza negativa sul volume d’affari: il danno viene quantificato in euro 1.680.000,00.

Infine, viene richiesta la condanna al risarcimento dei danni all’immagine quantificato in euro 600.000,00.

3.1.- Si è costituita in giudizio l’A. chiedendo il rigetto della domanda per infondatezza della pretesa azionata. In ogni caso si deduce come il preteso danno deriverebbe da provvedimenti amministrativi mai impugnati, con conseguente impossibilità di ottenere il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 1227, secondo comma, cod. civ. In subordine, si eccepisce l’intervenuta prescrizione per le pretese risarcitorie antecedenti il quinquennio dalla proposizione della domanda.

3.2.- La ricorrente, in prossimità dell’udienza pubblica, ha depositato una memoria con la quale ha fatto presente che, con ricorso n. 608 del 2007 proposto innanzi a questo Tar, la ricorrente ha chiesto l’accertamento dell’illegittimità e della illiceità dei dinieghi opposti, con la conseguenza che tale domanda avrebbe interrotto la prescrizione fino al quinquennio antecedente e cioè fino al 2002.

4.- Con ricorso, recante il numero 1226 del 2010, Pubblicità S. s.r.l ha impugnato dieci note dell’A., tutte adottate in data del 9 settembre 2010, con cui sono state rigettate le domande volte ad ottenere l’installazione di quarantuno cartelloni pubblicitari sulle strade 106 e 107. Le ragioni della illegittimità sono le medesime di quelle esposte con gli altri ricorsi. Per quanto attiene al risarcimento del danno per il mancato guadagno annuo si chiede la condanna dell’amministrazione resistente a versare la somma di euro 11.480,00, che andrà moltiplicato per gli ulteriori anni occorrenti per la definizione del presente giudizio.

Si chiede, inoltre, il risarcimento dei danni subiti per essergli stato impedito di operare nel mercato e di aumentare il volume di affari, con perdita di un guadagno potenziale pari a euro 140.000,00 per ogni anno. Ed, infatti, "se la ricorrente avesse operato liberalmente avrebbe certamente soddisfatto le richieste di una sempre maggiore clientela, installando sulle strade stradali in questione, aventi una lunghezza complessiva di 600 Kilometri, almeno altri 500 cartelli (…) che le avrebbe consentito un maggiore introito complessivo di euro 700.000,00 per ogni anno, con un guadagno pari al 20% e, dunque, di euro 140.000,00 per anno".

Si chiede, infine, la condanna, con criteri equitativi, dell’A. al risarcimento dei danni all’immagine imprenditoriale dell’azienda, che si quantificano in euro 50.000,00 per ogni anno, tenendo conto che "la società ricorrente, a causa delle indebite preclusioni determinate dal comportamento ostativo dell’A., non ha avuto la possibilità di farsi conoscere e di espandersi su altri territori".

4.1.- Si è costituita anche in questo giudizio l’A. chiedendo la declaratoria di infondatezza o di inammissibilità del ricorso.

Motivi della decisione

1.- Le questioni poste all’esame di questo Tribunale attengono alla illegittimità di taluni atti di diniego, descritti nella parte in fatto, all’autorizzazione all’installazione di impianti pubblicitari. In ragione della predetta illegittimità si chiede anche la condanna dell’A. al risarcimento dei danni subiti.

1.- Attesa la connessione oggettiva e soggettiva tra i ricorsi proposti gli stessi devono essere riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

2.- In via preliminare, appare opportuno illustrare, per grandi linee, il quadro normativo nell’ambito del quale si colloca la vicenda in esame.

La legge 29 novembre 1980, n. 922 (Adesione all’accordo europeo sulle grandi strade a traffico internazionaleAGR, con allegati, aperto alla firma a Ginevra dal 15 novembre 1975 al 31 dicembre 1976, e sua esecuzione) prevedeva all’Allegato I che "per ragioni di sicurezza e di estetica è vietata l’affissione di cartelloni di pubblicità commerciale ai bordi delle strade internazionali".

L’allegato 2, par. 4, della predetta legge indica in maniera dettagliata quali debbano essere le oggettive caratteristiche che le stradi in esame devono avere per potere essere qualificate come internazionali: tra l’altro, presenza di più corsie; spartitraffico; larghezza minima di carreggiata di mt. 3,50.

L’art. 23, comma 7, del d.lgs. 30 aprile 1992 n. 285 (Nuovo Codice della Strada), nella versione originaria, stabiliva che il divieto di "qualsiasi forma di pubblicità lungo e in vista degli itinerari internazionali".

L’art. 2, comma 10, del d.p.r. 16 dicembre 1992, n. 495 prevede che "i divieti e le prescrizioni, previste dal codice e dal presente regolamento per le strade inserite negli itinerari internazionali, si applicano unicamente a quelle già in possesso delle caratteristiche richieste dagli accordi internazionali per tale classificazione".

L’art. 5 della legge 29 luglio 2010 n. 120, nel modificare il predetto art. 23 del d.lgs. n. 285 del 1992, ha consentito che anche in presenza di itinerari internazionali è ammissibile la pubblicità nelle aree.

3.- Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati.

In primo luogo, deve rilevarsi che, alla luce della normativa sopra riportata, un itinerario può considerarsi "internazionale" soltanto se presenta le caratteristiche oggettuali dettagliatamente descritte dalla legge n. 922 del 1980. La qualificazione in esame è, pertanto, il necessario corollario di una valutazione concreta della natura della strada. Qualunque dubbio a proposito è fugato dal d.p.r. n. 495 del 1992 il quale, come sottolineato, prevede che i divieti di installazione si applicano unicamente alle strade che hanno le caratteristiche richieste dagli accordi internazionali.

Alla luce di quanto appena esposto ne consegue la illegittimità dei provvedimenti amministrativi di rigetto delle domande di autorizzazione, limitatamente a quelli tempestivamente impugnati. L’amministrazione, infatti, si è limitata a richiamare l’art. 23, comma 7, del d.lgs. n. 285 del 1992, che vieta la installazione degli impianti pubblicitari su strade internazionali, omettendo di svolgere qualunque istruttoria volta a verificare la natura effettiva degli itinerari.

Nel caso in esame è stato sufficiente analizzare la documentazione prodotta in atti, senza necessità di disporre una consulenza tecnica d’ufficio, per rendersi conto del fatto che le strade in esame non hanno le caratteristiche oggettive richieste dalla normativa di settore per la loro qualificazione come strade internazionali.

4.- Dimostrata l’illegittimità degli atti di diniego, occorre adesso valutare le domande di risarcimento del danno.

5.? Come è noto, nei giudizi risarcitori, la domanda di condanna presuppone che il ricorrente dimostri la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie complessa della responsabilità civile di cui all’art. 2043 c.c.

A tale proposito, deve rilevarsi che la richiesta di risarcimento del danno da illecito civile presuppone normalmente l’accertamento delle cosiddette "regola della fattispecie" e "regola delle conseguenze".

La verifica del perfezionamento della fattispecie lesiva impone che il giudice verifichi l’esistenza dell’elemento oggettivo, dell’elemento soggettivo, del nesso di causalità materiale (o strutturale); dell’evento lesivo, rappresentato dalla lesione della situazione giuridica meritevole di protezione. In particolare, occorre accertare che il "fatto" (comprensivo dell’elemento oggettivo e di quello soggettivo) sia eziologicamente idoneo a cagionare un danno ingiusto.

In relazione al secondo profilo, il giudice deve verificare se il "fatto lesivo" sia in grado di produrre pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali (c.d. danno conseguenza). In particolare, è necessario verificare se sussista un nesso di causalità giuridica tra il fatto lesivo e i danni concretamente subiti; invero, e più precisamente, non si tratta di ricostruire un nesso eziologico, sul piano normativo, ma di determinare le conseguenze risarcitorie secondo il criterio delineato dagli artt. 1223 e 2056 c.c.

5.1.- Avendo questo Tribunale, con la presente sentenza, accertato la invalidità degli atti impugnati, deve ritenersi, innanzitutto, sussistente l’elemento oggettivo.

5.2.- Per quanto attiene all’elemento soggettivo, la giurisprudenza amministrativa è costante nel ritenere che non è "richiesto al privato danneggiato da un provvedimento amministrativo illegittimo un particolare impegno probatorio per dimostrare la colpa della p.a. (…). Infatti, pur non essendo configurabile, in mancanza di una espressa previsione normativa, una generalizzata presunzione (relativa) di colpa dell’amministrazione per i danni conseguenti ad un atto illegittimo o comunque ad una violazione delle regole, possono invece operare regole di comune esperienza e la presunzione semplice, di cui all’art. 2727 c.c., desunta dalla singola fattispecie. Il privato danneggiato può, quindi, invocare l’illegittimità del provvedimento quale indice presuntivo della colpa o anche allegare circostanze ulteriori, idonee a dimostrare che si è trattato di un errore non scusabile. Spetterà a quel punto all’amministrazione dimostrare che si è trattato di un errore scusabile, configurabile in caso di: a) contrasti giurisprudenziali sull’interpretazione di una norma; b) di formulazione incerta di norme da poco entrate in vigore; c) di rilevante complessità del fatto; d) di influenza determinante di comportamenti di altri soggetti, di illegittimità derivante da una successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata" (ex plurimis, Consiglio di Stato, sez. VI, 9 marzo 2007, n. 1114).

Nel caso in esame, alla luce del suesposto orientamento giurisprudenziale, deve ritenersi che la ricorrente, in mancanza della dimostrazione da parte della p.a. dell’errore scusabile, abbia assolto al proprio onere probatorio, mediante la dimostrazione dell’illegittimità del provvedimento.

5.3.- Per quanto attiene, sempre in relazione alla regola della fattispecie, la ricorrente ha dimostrato che il comportamento, oggettivo e soggettivo, dell’amministrazione ha leso la sua posizione di interesse legittimo pretensivo. Non ha, invece, dimostrato la lesione del diritto all’immagine.

Sul punto è bene sottolineare come, venendo in rilievo una società di capitatali dotata di personalità giuridica, il diritto all’immagine si connota in modo differente rispetto alle persone fisiche. Tale diritto deve, infatti, essere riferito alla proiezione esterna dell’attività imprenditoriale nel settore di riferimento e alla lesione che tale attività ha subito in ragione del comportamento contestato.. Orbene, questo Collegio ritiene che il rigetto di domande di autorizzazione ad installare impianti pubblicitari in una parte del territorio nazionale non sia di per sé in grado di ledere l’immagine della società, come sopra intesa, e dunque di produrre conseguenze pregiudizievoli risarcibili. Inoltre, il ricorrente non ha prodotto neanche un principio di prova volto a dimostrare in che modo i dinieghi di autorizzazione abbiano comportato un danno conseguente alla lesione di un "diritto personale" della società.

6.- Dimostrata la sussistenza del "fatto lesivo" – che non include, per le ragioni esposte, la lesione del diritto all’immagine – occorre adesso valutare, in relazione alle regole delle "conseguenze", l’entità del risarcimento dei danni subiti e dunque la sussistenza della causalità giuridica. In questo ambito si fa applicazione della teoria della regolarità causale, escludendo il risarcimento di tutti quei danni che non siano conseguenza diretta e immediata del fatto lesivo (cfr. art. 1223 c.c.). Ed è in tale contesto che si inserisce la condotta che deve tenere il danneggiato al fine di escludere o eliminare il danno subito.

6.1.- Con riferimento a questo profilo deve, in primo luogo, essere esaminato il contenuto del ricorso n. 125 del 2010, con cui si è chiesto il risarcimento dei danni subiti per avere l’A., in maniera espressa o tacita, rigettato le istanze per la installazione di ben 1.341 cartelli pubblicitari nel corso degli anni che vanno dal 1997 al 2008.

Nel caso in esame non risulta che il ricorrente abbia ritualmente impugnato i provvedimenti amministrativi di rigetto. Si tratta, pertanto, di stabilire se sia ammissibile la cosiddetta azione risarcitoria autonoma.

La questione deve essere esaminata alla luce della normativa esistente prima dell’adozione del codice del processo amministrativo, il quale ha previsto, all’art. 30, la configurabilità di tale azione che, però, deve essere proposta entro il termine decadenziale di centoventi giorni dalla conoscenza del provvedimento lesivo.

Il Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, sentenza n. 3 del 2011 ha dimostrato – con pregevoli argomentazioni, che questo Collegio condivide e a cui fa integrale rinvio – come anche prima dell’adozione del Codice fosse ammissibile la proposizione di una autonoma azione risarcitoria. Ne consegue che era, anche prima del codice, possibile proporre tale azione nel termine, allora, prescrizionale di cinque anni. Lo stesso Consiglio di Stato ha, però, ritenuto che occorre comunque accertare in concreto l’entità del danno risarcibile alla luce del comportamento del danneggiato. Si applica, infatti, l’art. 1127 del codice civile, il quale stabilisce che "il risarcimento del danno non è dovuto per i danni che il creditore avrebbe potuto evitare usando l’ordinaria diligenza".

Pur se l’art. 1227 c.c. utilizzi l’espressione "diligenza" l’orientamento interpretativo prevalente, fatto proprio anche dal Consiglio di Stato, ritiene che si debba leggere come "buona fede". La lettura correttiva dell’espressione letterale impiegata dal legislatore è imposta dall’esigenza di collocare correttamente la condotta del danneggiato nella fase di determinazione del danno. Se, infatti, la regola di condotta fosse quella della diligenza la conseguenza, non accettabile, sarebbe quella di ritenere che il creditore è destinatario di un obbligo giuridico "pieno" non compatibile con la posizione che lo stesso riveste nell’ambito dell’accertamento della responsabilità. Il rispetto di tale dovere, nella sua assolutezza, è imposto soltanto al debitore danneggiante.

Deve, pertanto, ritenersi che il legislatore abbia inteso fare applicazione, nella fase successiva al perfezionamento del fatto lesivo, della regola della buona fede. Si tratta anche in questo caso di una regola di condotta che rispetto a quella costruita con il parametro della diligenza si caratterizza per il fatto di imporre un "dovere attenuato" nei limiti dell’apprezzabile sacrificio. Come è noto il legislatore ha espressamente chiesto l’osservanza di tali regole in quasi tutti i momenti del rapporto obbligatorio, compresa, appunto, la fase che viene in rilievo in questa sede. La regola della buona fede opera, inoltre, non solo sul piano sostanziale ma si proietta anche su quello processuale imponendo che il diritto di azione venga esercitato in modo non abusivo.

Per comprendere come funziona la regola posta dalla norma in commento, occorre distinguere tre fasi rappresentate: a) dalla costruzione della regole di condotta; b) dalla verifica dello "scarto" esistente tra il comportamento concretamente posto in essere e lo standard di condotta predefinito; c) dall’individuazione delle "conseguenze" derivanti dall’accertamento del predetto scarto.

L’aspetto più delicato è certamente quello della elaborazione delle regole di comportamento imposte dalla correttezza. Ogni concetto giuridico indeterminato, infatti, impone di stabilire, per esigenze di certezza, quali siano le modalità di determinazione del concetto stesso. La giurisprudenza ha proceduto ad effettuare una sorta di "tipizzazione" delle condotte che possono ritenersi contrarie alla buona fede. Il Consiglio di Stato, nella sentenza citata, con orientamento già espresso dalla Corte di Cassazione, che questo Collegio condivide, ha ritenuto che, in presenza della responsabilità della pubblica amministrazione, esigenze di certezza dei rapporti giuridici possono imporre la previa impugnazione dell’atto amministrativo. Il valore di stabilità dei rapporti amministrativi può involgere anche quelli patrimoniali al fine di consentire alla pubblica amministrazione di potere programmare la propria azione in ossequio al principio di buona amministrazione. Nell’ambito dei "comportamenti tipizzati", imposti dalla regola di correttezza, deve, pertanto, essere inclusa anche la condotta che si sostanzia nella proposizione tempestiva dell’azione di annullamento. L’art. 30 cod. proc. amm., ancorchè non applicabile ratione temporis, ha codificato questa regola stabilendo che il giudice "esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l’ordinaria diligenza, anche attraverso l’esperimento degli strumenti di tutela previsti". Per evitare qualunque incertezza si è passati pertanto da una "tipizzazione giurisprudenziale" ad una "tipizzazione legislativa" dei comportamenti conformi alla regola della buona fede.

La seconda fase non pone particolari problemi, dovendo il giudice limitarsi a verificare se la condotta realizzata dal danneggiato sia o meno conforme alla regola predefinita di correttezza quale risulta dalla tipizzazione legislativa o giurisprudenziale.

Infine, occorre stabilire se quella condotta, esigibile alla luce della verifica di corrispondenza sopra indicata, sarebbe stata idonea ad evitare o diminuire il danno. Esistono certamente delle ipotesi in cui la condotta che in astratto potrebbe essere pretesa non sarebbe stata comunque in grado di incidere sulla sussistenza e quantificazione del danno, come avviene, ad esempio, nel caso in cui l’opera pubblica sia stata già realizzata. Esistono, specularmente, fattispecie in relazione alle quali la condotta del danneggiato sarebbe stata idonea ad escludere del tutto i danni richiesti. In una posizione mediana si pongono le ipotesi in cui il comportamento conforme a correttezza avrebbe "soltanto" diminuito i danni subiti.

Applicando questi principi al caso in esame ne discende la insussistenza del danno risarcibile derivante dai provvedimenti non tempestivamente impugnati.

La regola di correttezza in questo caso avrebbe imposto una tempestiva impugnazione: esiste, infatti, uno scarto tra la condotta concreta e quella "tipizzata" di buona fede. L’accertamento giudiziale della illegittimità dei singoli provvedimenti di rigetto avrebbe impedito una prosecuzione del comportamento illecito da parte dell’A.. Siamo, dunque, nell’ambito di quelle fattispecie in cui un comportamento conforme a correttezza da parte del danneggiato avrebbe escluso completamente i danni patrimoniali che oggi la ricorrente pretende in relazione al periodo temporale che viene in esame in questo ambito. Né sono stati addotti elementi idonei a fare ritenere che non poteva nello specifico essere pretesa una simile condotta.

6.2- Chiarito ciò, con riguardo alle domande risarcitorie proposte autonomamente, deve essere adesso valutata la sussistenza del danno lamentato con riguardo a quelle domande proposte contestualmente con l’azione di condanna.

Con riguardo al danno da lucro cessante derivante dalla perdita di occasioni favorevoli – connesse, da un lato, all’impossibilità di installare impianti pubblicitari per la esistenza degli impugnati provvedimenti di rigetto della domanda, dall’altro, all’impedimento ad ampliare la propria attività di impresa quale conseguenza dell’illecito – lo stesso è risarcibile essendo stata dimostrata la sua esistenza.

Per quanto attiene quantificazione del danno il Collegio intende utilizzare lo strumento di cui all’art. 34 del codice del processo amministrativo, il quale prevede che, in caso di mancata opposizione delle parti, il giudice può stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine.

In applicazione di tale norma, nella determinazione del danno le parti devono osservare i seguenti criteri:

a) prendere in esame il contenuto specifico dei singoli contratti che non stati eseguiti per l’adozione dei provvedimenti di rigetto, impugnati in questa sede, delle domande di autorizzazione all’installazione;

b) tenere conto anche delle occasioni perdute dalla ricorrente soltanto però se la stessa allega documentazione idonea dalla quale risulti che la società è stata costretta a rifiutare di stipulare il contratto o comunque di raggiungere un accordo in ragione dei già intervenuti provvedimenti di rigetto.

7.- In conclusione, le domande di annullamento sono fondate. Le domande risarcitorie sono infondate nella parte in cui si basano su provvedimenti non ritualmente impugnati e nella parte in cui hanno ad oggetto la lesione del diritto all’immagine. Sono invece fondate per il resto. 8.- Condanna, in applicazione del principio della soccombenza, parte resistente a rifondere alla ricorrente le spese processuali che liquida in complessive euro 5.000,00, oltre Iva e cpa.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria (Sezione Prima)

riuniti i ricorsi indicati in epigrafe, annulla i provvedimenti impugnati e, nei limiti e secondo le modalità indicate nella motivazione, condanna l’A. a risarcire il danno subito dalla ricorrente.

Condanna l’A. a rifondere alla ricorrente le specie processuali che liquida in complessiva euro5.000,00, oltre Iva e cpa.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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