Cass. pen. Sez. V, Sent., (ud. 08-06-2011) 26-09-2011, n. 34797 Nullità e inesistenza

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza in data 1 aprile 2009 la Corte d’Appello di Napoli, in ciò confermando la decisione (in altre parti riformata) emessa dal locale giudice dell’udienza preliminare in esito al giudizio abbreviato, ha riconosciuto i soggetti più oltre indicati responsabili del delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso e di svariati reati-fine.

La prova dei commessi reati si è fondata sulle propalazioni dei collaboratori di giustizia e sull’esito delle intercettazioni telefoniche e ambientali, sulle base delle quali i giudici di merito hanno ritenuto dimostrata l’esistenza di una consorteria camorristica – del resto già accertata con precedenti sentenze passate in giudicato – operante in Napoli e facente capo a M.V. e ai di lui fratelli C. e G.; sullo stesso materiale probatorio si è basata la ricostruzione dei rapporti fra i diversi soggetti coinvolti nell’indagine, nonchè delle modalità di esecuzione dei reati.

Hanno proposto ricorso per cassazione i cinque imputati di seguito elencati.

B.S., condannato alla pena di nove anni di reclusione per il reato associativo, per il tramite del difensore ha dedotto quattro motivi.

Col primo di essi denuncia violazione di norma processuale, comportante nullità insanabile del giudizio di appello ex art. 179 c.p.p., per esserglisi impedito di partecipare in videoconferenza all’udienza del giorno 1 aprile 2009, sebbene ne avesse fatto tempestiva richiesta, trovandosi egli ristretto in carcere e sottoposto al regime di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario.

Col secondo motivo rinnova l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per carenza di motivazione, respinta dalla Corte d’Appello con motivazione a suo avviso non condivisibile.

Col terzo motivo impugna il giudizio di colpevolezza emesso nei suoi confronti, sostenendo la mancanza di riscontri individualizzanti alle propalazioni dei chiamanti in correità; sottopone, in particolare, a critica la valutazione della capacità dimostrativa delle conversazioni intercettate e contesta l’attendibilità del collaborante Pu.Sa..

Col quarto motivo lamenta che, nel determinare la pena, i giudici di merito abbiano dato applicazione al testo dell’art. 416 bis c.p. come modificato dalla L. 5 dicembre 2005, n. 251, art. 2 sebbene i fatti fossero cronologicamente anteriori; si duole, altresì, del diniego delle attenuanti generiche.

Ri.Ar., condannato alla pena di quattro anni di reclusione per il reato associativo, per il tramite del difensore ha dedotto tre motivi.

Col primo di essi rinnova a sua volta l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per carenza di motivazione.

Col secondo motivo contesta la capacità dimostrativa del quadro probatorio nei propri confronti, avuto particolare riguardo all’interpretazione data alle conversazioni captate e alla valorizzazione di un episodio (un agguato teso a tale Mi.

E.) in ordine al quale la sua partecipazione è tuttora sub iudice.

Col terzo motivo denuncia anch’egli come illegittima l’applicazione in via retroattiva dell’art. 416 bis c.p. nel testo risultante dalla modifica normativa medio tempore intervenuta; impugna a sua volta il diniego delle attenuanti generiche.

R.C., condannato alla pena di otto anni e otto mesi di reclusione per il reato associativo e per quelli di cui agli artt. 423, 611, 56 e 629 c.p. in danno di Ma.Gi., unificati dal vincolo della continuazione, ha personalmente dedotto cinque motivi. Coi primi due, congiuntamente illustrati, denuncia violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta applicabilità dell’art. 416 bis c.p. nella sua nuova formulazione, malgrado l’anteriorità dei fatti ascritti. Contesta, sotto altro profilo, la configurabilità dell’aggravante di cui al comma 4 della norma citata, lamentando carenza motivazionale sul punto.

Col terzo motivo impugna l’affermazione di responsabilità a suo carico per i reati di incendio, violenza per costringere a commettere un reato e tentata estorsione ai danni di Ma.Gi.;

rivisitato il materiale probatorio valorizzato a suo carico, contesta la sussistenza degli elementi costitutivi dei reati ascrittigli.

Col quarto e quinto motivo, illustrati congiuntamente, il R. contrasta l’applicazione data dai giudici di merito all’aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito con modificazioni nella L. 12 luglio 1991, n. 203; quanto all’incendio provocato, deduce l’applicabilità, al più, dell’art. 424 c.p. in luogo dell’art. 423 c.p..

P.S., condannato alla pena di otto anni e otto mesi di reclusione per il delitto associativo e per i reati satelliti in concorso con R.C., unificati dal vincolo della continuazione, ha personalmente dedotto cinque motivi di contenuto analogo a quelli or ora visti come formulati dal coimputato, aggiungendovi la censura di carenza motivazionale in ordine alla propria consapevolezza circa la volontà estorsiva in capo al R..

T.G., condannato alla pena di sei mesi di reclusione e 1.000,00 Euro di multa per illecita riproduzione di supporti magnetici contenenti opere musicali e cine-matografiche, aggravata L. n. 203 del 1991, ex art. 7 per il tramite del difensore ha dedotto un solo motivo. Con esso lamenta che, pur essendosi determinata la pena detentiva in misura inferiore a due anni, non gli sia stata concessa la sospensione condizionale della pena, che a suo avviso gli spetterebbe in quanto incensurato.

Motivi della decisione

Esaminando nel corretto ordine logico le molteplici questioni sollevate con i motivi di ricorso, viene prioritariamente in osservazione la denuncia di nullità che struttura il primo motivo dedotto da B.S.. Sostiene il ricorrente che il mancato accoglimento della sua richiesta di partecipazione in videoconferenza all’udienza del giorno 1 aprile 2009 ha determinato la nullità insanabile del giudizio di appello per violazione del contraddittorio.

L’assunto va disatteso per le ragioni di seguito esposte.

Essendo il B. detenuto soggetto al regime differenziato di cui all’art. 41 bis dell’ordinamento penitenziario, la sua partecipazione personale all’udienza doveva essere sostituita dalla presenza virtuale realizzata attraverso il collegamento in videoconferenza; e a ciò, in effetti, si era provveduto in altre precedenti occasioni.

L’udienza del giorno 1 aprile 2009 era stata fissata per gli adempimenti conclusivi, costituiti dalla prevista replica del Procuratore Generale alle arringhe dei difensori, cui doveva seguire il ritiro della Corte in camera di consiglio per la decisione. E’ indubbio in linea di diritto che il B., avendone fatto richiesta, dovesse essere messo in condizione di assistere, come dianzi chiarito, attraverso la videoconferenza.

Di fatto il collegamento non è stato disposto. Alla fissata udienza il Procuratore Generale ha rinunciato alla replica, per cui la Corte si è senz’altro ritirata in camera di consiglio, uscendone poi per la lettura del dispositivo.

Traendo le conseguenze giuridiche da quanto esposto, deve affermarsi che un’irritualità si è effettivamente consumata per effetto del mancato collegamento in videoconferenza; ma che da essa non è derivata alcuna compressione del diritto alla difesa del B., poichè nell’udienza alla quale egli è indebitamente mancato non si è svolto alcun atto del processo alla cui partecipazione fosse ricollegabile l’esercizio di attività difensiva in favore dell’imputato.

Non sussiste, pertanto, un interesse specifico del B. a dedurre la denunciata nullità: interesse che è condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione e che deve rapportarsi al fine di far valere una concreta e attuale situazione giuridica, atta a influire sulla decisione.

Proseguendo nella disamina viene in osservazione l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado per carenza di motivazione, già sollevata in grado di appello e qui riproposta da B. S. col suo secondo motivo e da Ri.Ar. col suo primo motivo.

Ambedue i ricorrenti sostengono, all’unisono, che la sentenza emessa dal G.U.P. reca una motivazione soltanto apparente, essendosi sostanziata nella apodittica affermazione di sussistenza della prova di colpevolezza di ciascuno dei due deducenti, seguita dalla mera trascrizione delle dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Pu.Sa.. Lamentano che la Corte d’Appello, investita dell’eccezione di nullità, l’abbia respinta genericamente affermando la correttezza della motivazione addotta dal G.U.P..

L’infondatezza dell’eccezione va confermata, ma per ragioni diverse da quelle addotte dalla Corte d’Appello. Infatti, prima ancora di verificare se il denunciato vuoto motivazionale fosse esistente oppure no, quel collegio avrebbe dovuto interrogarsi sulla deducibilità, in grado di appello, della carenza di motivazione come vizio di nullità della sentenza di primo grado; se a tanto si fosse indotto, sarebbe dovuto pervenire a conclusione negativa.

La possibilità, per il giudice di appello, di rimuovere con effetto rescindente la pronuncia di primo grado è prevista dall’ordinamento processuale per i soli casi di restituzione degli atti al primo giudice previsti dall’art. 604 c.p.p., fra i quali non rientra la mancanza – sia pur assoluta – di motivazione della sentenza di primo grado. In tale ipotesi, invece, il giudice chiamato a decidere in seconda istanza ha il potere-dovere di riesaminare il merito e di provvedere a integrare la motivazione nelle parti mancanti, ovvero anche, occorrendo, a sostituirla integralmente con la propria. In tal senso si è ripetutamente espressa la giurisprudenza di legittimità, anche a Sezioni Unite (Cass. Sez. Un. 27 novembre 2008 n. 3287/09; v. anche la più recente Cass. 12 novembre 2009 n. 9922/10).

Non vi è dunque spazio per una rinnovata denuncia del vizio, assertivamente inficia n te la pronuncia di primo grado, nel giudizio di cassazione: nel quale la correttezza della motivazione viene in esame solo con riferimento al prodotto unico e inscindibile derivante dalla fusione della sentenza di primo grado con quella di appello, ove quest’ultima sia – come è, in punto a responsabilità, nel caso presente – interamente confermativa della prima (v. Cass. 13 novembre 1997 n. 11220: nonchè le successive conformi Cass. 20 gennaio 2003 n. 11878; Cass. 7 febbraio 2003 n. 23248; Cass. 10 gennaio 2007 n. 5606).

Inammissibili, in quanto volti a sollecitare un riesame del merito non consentito nel giudizio di cassazione, sono le censure dedotte col terzo motivo del ricorrente B., col secondo motivo del Ri., col terzo motivo del R. e del P.. Ciascuna di esse, invero, pur nella individualità della posizione processuale del singolo ricorrente, s’indirizza a sollecitare la rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e, talora, l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti: il che eccede i limiti del controllo sulla motivazione esperibile in sede di legittimità.

La Corte d’Appello ha dato pienamente conto delle ragioni che l’hanno indotta a ravvisare, nel materiale probatorio acquisito, la sussistenza di elementi dimostrativi idonei a supportare l’affermazione di colpevolezza degli imputati in ordine ai reati a ciascuno ascritti. Quanto al B. ha osservato che la sua partecipazione all’associazione camorristica facente capo a M.V., affermata dai collaboratori di giustizia L.G. e Pu.Sa., trova conferma nel tenore di numerose intercettazioni telefoniche e ambientali, da cui è dato cogliere l’assunzione, da parte sua, dei compiti più delicati, unitamente alla disponibilità a commettere omicidi dietro incarico del M. e a porsi come intermediario nell’autorizzare omicidi ad opera di altri sodali. Del Ri. ha ritenuto provata l’appartenenza al gruppo camorristico in virtù della sua partecipazione al tentato omicidio di Mi.El., sul quale ha riferito Pu.Sa. con ricchezza di precisazioni coerenti e circostanziate (e per ciò stesso attendibilmente); i riscontri ex art. 192 c.p.p., comma 3 sono stati individuati in una serie di conversazioni telefoniche immediatamente antecedenti e successive all’agguato, attraverso le quali si è potuta ricostruire la vicenda e si è avuta conferma del coinvolgimento del Ri..

Quanto al R., la Corte territoriale ha ravvisato la sua responsabilità per il reato di cui all’att. 416 bis c.p. in base al tenore delle conversazioni telefoniche, attraverso le quali egli ha dimostrato una perfetta conoscenza delle dinamiche associative, delle strategie, delle alleanze, delle decisioni assunte dal capo, delle attività delittuose svolte, dei profitti realizzati, di cui solo un partecipe della consorteria poteva essere al corrente; circa i restanti reati ascrittigli (di cui agli artt. 423, 611, 56 e 629 c.p.), ha ritenuto che le intercettazioni dimostrassero le seguenti condotte da parte sua: la richiesta a Ma.Gi. (gestore dell’esercizio di alimentari Beneduce) di una falsa attestazione del rapporto di lavoro, che gli consentisse di non tornare in carcere; la decisione di forzare il Ma., dopo il suo motivato rifiuto, attraverso l’incendio del negozio; l’ottenimento della disponibilità di P.S. ad aiutarlo a tal fine; la realizzazione effettiva dell’incendio, appiccato alla saracinesca del negozio del Ma.. Circa la riconducibilità alla persona del R. delle utenze sottoposte a intercettazione e la conseguente individuazione dello stesso imputato quale partecipe ai dialoghi captati, la Corte ha evidenziato la corrispondenza del nome di battesimo, la menzione del suo cognome da parte di taluni interlocutori, le chiamate al numero di casa seguite da conversazioni con i familiari, i contatti telefonici con la donna cui era legato e dalla quale aveva avuto una figlia.

Anche riguardo al P. la prova di responsabilità per il reato associativo e per i reati satelliti, ascrittigli in concorso col R., è consistita sostanzialmente nel contenuto delle conversazioni intercettate, nelle quali egli è stato identificato con certezza attraverso i riferimenti espliciti tratti dai dialoghi intrattenuti dal fratello Gi.. L’affermazione del suo consapevole e volontario concorso nell’episodio riguardante l’incendio ai danni del Ma. si è fondata sugli stessi elementi probatori valorizzati a carico del R., cioè sul contenuto della conversazione nella quale aveva espresso a quest’ultimo la propria volontà di collaborare con lui nell’azione incendiaria, e quella con cui il R. aveva successivamente comunicato a P.G. il buon esito dell’operazione, informandolo che l’azione era stata compiuta principalmente dal di lui fratello S..

Tutti i passaggi motivazionali testè sommariamente riassunti sono immuni da qualsiasi caduta di logica consequenzialità che emerga ictu oculi dal testo stesso del provvedimento; mentre il tentativo dei ricorrenti di contestare la capacità dimostrativa degli elementi probatori valorizzati – ora contestando l’attendibilità del collaborante Pu., ora ponendo in dubbio la riferibilità delle utenze ai singoli imputati, ora negando la pertinenza delle conversazioni ai fatti ascritti anche in rapporto alla collocazione temporale, ora offrendo una diversa interpretazione del loro contenuto, ora richiamandosi (come fa il Ri.) alla perdurante mancanza di un giudicato in ordine al tentato omicidio ai danni di Mi.El., ora adducendo (come fa il P.) la propria inconsapevolezza della finalità estorsiva perseguita dal R. – si risolvono nella prospettazione di una lettura del materiale probatorio alternativa a quella fatta propria dal giudice di merito:

il che non può trovare spazio nel giudizio di cassazione.

Al riguardo non sarà inutile ricordare che, per consolidata giurisprudenza, pur dopo la modifica legislativa dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. c) introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46, art. 8 al giudice di legittimità resta preclusa – in sede di controllo sulla motivazione – la rivisitazione degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass. 15 marzo 2006 n. 10951); e il riferimento ivi contenuto anche agli "altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" non vale a mutare la natura del giudizio di legittimità come dianzi delimitato, rimanendovi comunque estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass. 22 marzo 2006 n. 12634).

Sotto il profilo della qualificazione giuridica dei fatti ascritti, corre l’obbligo di annotare che la configurabilità del delitto di partecipazione ad un’associazione criminale di tipo mafioso (sulla cui esistenza e tipologia camorristica non vi è contestazione) si delinea chiaramente in base al consapevole contributo da ciascuno fornito al sodalizio: vuoi assumendo, come nel caso del B., il ruolo di collaboratore del M. e intermediario fra costui e gli altri sodali, come già dianzi evidenziato; vuoi concorrendo, come nel caso del Ri., alla realizzazione di uno dei reati-fine dell’organizzazione malavitosa; vuoi curando nell’interesse del gruppo le attività di falsificazione di CD e DVD, di spaccio di stupefacenti, di gestione dei parcheggi abusivi, come nel caso del R. (pag. 33 della sentenza impugnata); vuoi facendo fronte comune con gli altri affiliati in occasione di contrasti con clan rivali, come nel caso del P. (pag. 38 della sentenza).

Circa la natura estorsiva dell’azione concretatasi nell’incendio del negozio Beneduce, la Corte d’Appello ha ritenuto che il R. non avesse accettato il rifiuto opposto da Ma.Gi. alla sua richiesta di formalizzare una falsa assunzione (non appartenendo siffatta acquiescenza al costume delle associazioni di tipo mafioso), e che pertanto avesse concepito il piano criminoso col duplice scopo di dare una lezione alla vittima, rea di non averlo "rispettato", e nel contempo indurla a una revisione del suo atteggiamento. A tale conclusione è pervenuto quel collegio nell’esercizio del potere di valutazione delle risultanze probatorie, che è proprio del giudice di merito: onde rimane esclusa la possibilità di un suo sindacato nel giudizio di cassazione.

Sulla descritta premessa fattuale la Corte territoriale ha osservato che il risultato prefissosi dal R. quale effetto dell’azione condotta con la collaborazione del P. (ottenere la falsa attestazione di un rapporto di lavoro, in realtà insussistente, con la ditta Beneduce), consisteva non soltanto nella commissione di un reato (donde la perseguibilità ex art. 611 c.p.), ma altresì nel conseguimento di un profitto cui avrebbe corrisposto un ingiusto danno per il Ma., costretto ad aprire una posizione assicurativo-previdenziale e fiscale per non incorrere nei rigori della legge; così configurandosi il concorrente delitto di tentata estorsione. La determinazione adottata in tal senso è conforme a legge e resiste al vaglio di legittimità.

Analogamente è a dirsi del giudizio espresso in ordine alla qualificazione giuridica del fatto concretatosi nell’aver appiccato il fuoco alla saracinesca del negozio del Ma.. La giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente chiarito quali siano gli elementi differenziali dei due reati di cui agli artt. 423 e 424 c.p., precisando che si configura il delitto di incendio, e non quello di danneggiamento seguito da incendio, se l’autore agisce, oltre che col fine di danneggiare, con la coscienza e volontà di cagionare un fatto di entità tale da assumere le dimensioni di un fuoco di non lievi proporzioni (così, da ultimo, Cass. 3 febbraio 2009 n. 6250; v. anche Cass. 7 maggio 2003 n. 25781; Cass. 15 gennaio 1997 n. 217). Avendo ritenuto logicamente inaccettabile la possibilità che gli autori del fatto, dopo che il R. aveva annunciato la propria intenzione di incendiare il negozio, avessero cosparso di liquido infiammabile la saracinesca e le avessero dato fuoco senza l’intenzione di provocare un incendio, correttamente la Corte di merito ha ravvisato nella fattispecie gli estremi del delitto di cui all’art. 424 c.p..

Venendo ora alla disamina delle questioni attinenti al trattamento sanzionatorio, corre l’obbligo di soffermarsi dapprima sulla denunciata applicazione retroattiva dell’art. 416 bis c.p. nel testo risultante dalla modifica apportatavi dalla L. n. 251 del 2005, art. 2 in rapporto a una fattispecie assertivamente risalente ad epoca pregressa: pertanto in violazione, nell’ottica del gravame, dei principi in materia di diritto intertemporale codificati nell’art. 2 c.p.. L’eccezione è sollevata dal B. col suo quarto motivo, dal Ri. col suo terzo motivo, dal R. e dal P. coi motivi primo e secondo da ciascuno dedotti.

La doglianza non ha ragion d’essere in quanto, a monte di ogni altra considerazione, non risulta che la condanna statuita dal giudice di primo grado – in ciò confermata da quello di appello – abbia comportato la violazione del precetto recato dall’art. 416 bis c.p. nella formulazione anteriore alla modifica apportata dalla citata L. n. 251 del 2005. Infatti a nessuno dei ricorrenti è stata applicata, per il delitto in questione, una pena base superiore ai dieci anni di reclusione, che costituiva all’epoca il massimo edittale per la partecipazione ad associazione mafiosa avente la disponibilità di armi.

E’ appena il caso di annotare che la contestazione circa la concreta applicabilità dell’aggravante di cui al quarto comma dell’articolo dianzi citato esula dalla questione concernente la successione di norme nel tempo e attiene tipicamente al merito, onde non trova spazio nel giudizio di legittimità. Nè può fondatamente dedursi una carenza di motivazione sul punto, essendo invece l’argomento trattato nella sentenza impugnata alla pagina 12: ivi è ben rimarcato come l’esistenza di armi a disposizione del gruppo facente capo al M. sia dimostrata, per un verso, dalla contrapposizione armata con altri clan per la supremazia sul territorio e, per altro verso, dalle propalazioni del collaborante Pu.Sa. (testualmente riprodotte, in parte qua, nella motivazione) e dal contenuto delle conversazioni intercettate, ove il riferimento alle armi è esplicito e ripetuto.

L’aggravante di cui al D.L. 13 maggio 1991, n. 152, art. 7 convertito con modificazioni nella L. 12 luglio 1991, n. 203, è stata correttamente applicata ai reati satelliti ascritti al R. e al P., essendo manifestamente riscontrabile l’esercizio del metodo mafioso nelle modalità con le quali è stata portata la minaccia a Ma.Gi.. La motivazione della sentenza, tra l’altro, non manca di evidenziare – sia pure in un passo diverso da quello dedicato all’aggravante in parola – l’accusa, mossa al Ma. per il tramite del suo socio, di non aver portato al R. il dovuto "rispetto"; di essa è chiaramente apprezzabile il significato evocativo della supremazia esercitata dalle consorterie mafiose nel controllo del territorio. Non ha quindi fondamento la censura mossa sul punto dai ricorrenti R. e P. nei loro motivi quarto e quinto.

Nel quarto motivo del B. e nel terzo motivo del Ri. è espressa la doglianza per la negata applicazione delle attenuanti generiche, che a loro avviso avrebbe ricondotto la sanzione irrogata entro i limiti di una più corretta proporzionalità ai fatti loro addebitati.

La doglianza è priva di fondamento.

Merita di essere ricordato, innanzi tutto, che le attenuanti generiche non possono essere intese come una benevola concessione del giudice, ma come il riconoscimento di situazioni, non contemplate specificamente dalla legge, tali da esigere una più incisiva considerazione in vista di una riduzione di pena che, altrimenti, non spetterebbe (così Cass. 28 maggio 1999 n. 8668; v. anche Cass. 14 gennaio 1999 n. 2642; Cass. 23 agosto 1990 n. 12280). Tanto premesso, va rimarcato che i ricorrenti non hanno indicato altro motivo, atto a giustificare la riduzione di pena ex art. 62 bis c.p., se non la pretesa eccessività della sanzione applicata: il che si traduce nella richiesta di revisione, ad opera della Corte di Cassazione, di una statuizione che l’ordinamento rimette invece al discrezionale apprezzamento del giudice di merito; per altro verso occorre considerare che la Corte d’Appello, nell’esprimere la valutazione ad essa spettante, ha assegnato dirimente valenza agli elementi di segno contrario costituiti dalla estrema gravità dei fatti accertati, nonchè dalla negativa personalità degli imputati, evidenziata dalle modalità delle condotte, oltre che – nella maggior parte dei casi – dai pessimi precedenti penali.

La linea argomentativa così addotta non presta il fianco a censura, non essendo necessario, a soddisfare l’obbligo della motivazione, che il giudice prenda singolarmente in osservazione tutti gli elementi di cui all’art. 133 c.p., ma essendo invece sufficiente l’indicazione di quegli elementi che, nel discrezionale giudizio complessivo, assumono e-minente rilievo.

Viene da ultimo in considerazione il ricorso proposto da T. G., del quale va dichiarata l’Inammissibilità per manifesta infondatezza del suo unico motivo.

Pur nell’ipotesi di contenimento della pena detentiva entro il limite fissato dall’art. 163 c.p., comma 1, la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena non consegue automaticamente alla mancanza di precedenti penali ostativi, come mostra di ritenere il ricorrente, ma è condizionata all’esito positivo di un giudizio prognostico in ordine alla capacità dell’imputato di astenersi, in futuro, dalla commissione di nuovi reati. Orbene, poichè la valutazione complessiva del fatto ha indotto il giudice di merito ad astenersi dall’esercizio di tale discrezionale facoltà, non è riscontrabile alcuna violazione della norma invocata.

L’esito processuale comporta la condanna di ciascuno dei ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento; in aggiunta va posto a carico del T., stante l’inammissibilità del suo ricorso, il pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che appare equo quantificare in Euro 1.000,00.

P.Q.M.

la Corte dichiara inammissibile il ricorso del T., che condanna al pagamento delle spese processuali ed al versamento alla Cassa delle Ammende della somma di Euro 1.000,00;

rigetta i ricorsi del B., del P., del R. e del Ri. e condanna ciascuno di loro al pagamento delle spese processuali.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *