Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 19-07-2011) 27-09-2011, n. 34900 Relazione tra la sentenza e l’accusa contestata

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo – Motivi della decisione

1. Provvedimento impugnato e motivi del ricorso – Con la sentenza qui impugnata, la Corte d’appello, sia pure riducendo la pena a cinque anni di reclusione, ha confermato la condanna inflitta all’odierna ricorrente accusata della violazione dell’art. 40 cpv. c.p. e art. 609 octies c.p. per non avere impedito – avendone l’obbligo giuridico in quanto nonna materna dei (minori di dieci anni) M., D., S., nonchè madre di C.A. – che l’altra figlia, C.B., (condannata per violazione dell’art. 609 octies c.p.), ponesse in essere atti sessuali su di loro, e con loro, insieme ad altri soggetti sia maggiorenni che minorenni.

Avverso tale decisione, la M. ha proposto ricorso, tramite il difensore, deducendo:

1) violazione della legge penale essendosi data erroneamente applicazione all’art. 40 c.p., comma 2 sebbene, per quel che attiene ai fatti riguardanti l’altra figlia, A., si sia accertato solo la presenza come spettatrice della stessa ai "giochi erotici" mentre nessuna responsabilità omissiva può essere ascritta alla M. in quanto nonna dei minori perchè il fatto che la donna, pur essendo a conoscenza dei fatti, non li abbia impediti è solo socialmente spregevole ma non può implicare anche una responsabilità penale difettando all’uopo una disposizione di legge come quelle che impongono delle precise responsabilità, ad esempio, di mandare i figli a scuola;

2) vizio di motivazione con riferimento al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche per via della occasionalità della condotta.

La ricorrente conclude invocando l’annullamento della sentenza impugnata.

MOTIVI DELLA DECISIONE 2. – Il ricorso è infondato e deve essere respinto con le precisazioni e nei termini che seguono.

2.1. (quanto al primo motivo). Rispetto ai fatti posti in essere sulla figlia minore A., la responsabilità della M. ex art. 40 cpv. è per tabulas.

Non ha, infatti, accesso in questa sede di legittimità il tentativo della ricorrente di minimizzare la vicenda cercando di indurre questa S.C. ad una rivalutazione dei dati processuali tesa a circoscrivere le caratteristiche della condotta della M. a mera "assistenza" passiva ai fatti criminosi di natura sessuale posti in essere sui minori, tra i quali la figlia dell’imputata A.. Non solo, ciò non è consentito, se non a rischio di invadere l’area degli apprezzamenti riservati al giudice di merito (ex multis sez. 1^, 27.9.07, Formis, Rv. 237863; Sez. 2^ n. 11.1.07, Messina, Rv. 235716) ma, in ogni caso, tale aspetto è stato bene sviluppato in sede di merito dalla Corte.

Il sindacato di legittimità sulla valutazione dei fatti operata nei gradi di giudizio precedenti è limitato alla verifica della correttezza del ragionamento probatorio del giudice di merito, che deve fornire una ricostruzione non inficiata da manifeste illogicità e non fondata su base meramente congetturale in assenza di riferimenti individualizzanti, o sostenuta da riferimenti palesemente inadeguati (da ult. Sez. 4^, 12.11.09, Durante, Rv., 245880).

Orbene, nello specifico, la Corte ricorda come risulti confermato in modo concorde – sia dalla figlia dell’imputata, A. (verbale 12.08, f. 371), che dai nipoti S. (inc. Prob. 8.11.08 f.

1156) e D. (inc. prob. 8.11.08, f. 1098) – che la M. fosse presente in alcune delle occasioni di perpetrazione degli abusi e dei giochi erotici oggetto di imputazione" (f. 4 sent. app.).

Se, poi, si tiene conto della dettagliata ricostruzione in fatto operata nella decisione di primo grado – di cui si può tranquillamente tener conto perchè, essendo concordante con la seconda, si salda con essa formando un unico complesso corpo argomentativo (SU. 4.2.92, Musumeci, Rv. 191229; Sez. 1^, 20.6.97, Zuccaro, Rv. 208257 Sez. 1^, 26.6.00, Sangiorgi, Rv. 216906) – si colgono in modo ancora più chiaro il senso e la giustezza dell’affermazione dei giudici d’appello secondo cui "il concorso della M. per fatto omissivo ai sensi dell’art. 40 c.p., comma 2 nei delitti di violenza sessuale … ai danni … di A. (figlia della M. e sorella dell’altra imputata C. B.) deve considerarsi legittimamente configurabile in quanto la predetta M. aveva il dovere giuridico di impedire il verificarsi o, almeno, il protrarsi dei fatti delittuosi posti in essere in danno della di lei figlia A.".

La pluralità e varietà di atti sessuali realizzati su, e con, i minori quali emergono dalle parole di questi ultimi – riportate nella sentenza del G.u.p. – sono tali (coiti orali, vaginali ed anali, strofinamenti di parti intime nude, baci in bocca, toccamenti ecc.) da escludere il dubbio che una persona semplicemente "presente" potesse equivocare o non cogliere la valenza estremamente grave di tali condotte in termini di aggressione alla sfera della libertà sessuale di una ragazza adolescente.

La cosa è tanto più valida se si considera che si sta parlando di una madre che assiste a detti fatti e che è preciso dovere giuridico del genitore vegliare su un armonioso sviluppo della prole anche per quel che attiene alla realizzazione della personalità sotto il profilo sessuale. Gli incommensurabili danni che vengono causati da pratiche erotiche distorte ed intempestive (vista la giovane età, 16 anni) nell’evoluzione della personalità devono essere ben presenti in un genitore adulto cui compete, quindi, il preciso dovere di controllare perchè il proprio figlio/figlia non abbia a vivere (ma neanche solo assistere) a boccaccesche scene come quelle descritte nelle ampie e dettagliate dichiarazioni fatte B.M., B.S. e B.D..

Del resto, è proprio scorrendo la sentenza di primo grado – giustamente confermata dalla Corte – che risulta palese la inverosimiglianza della mera asserzione di "estraneità" formale della M. ai fatti ai quali la figlia A. ha assistito (ed anche – come si preciserà in prosieguo – partecipato). La molteplicità di visite effettuate da quest’ultima con la madre, a casa di L. (ove si svolgevano i fatti), e, soprattutto, la pluralità e varietà di atti sessuali da lei descritti sono tali da contraddire implicitamente l’ipotesi di una impossibilità, per la M., di comprendere cosa avvenisse quando più minori (tra i quali i propri nipotini – di cui si dirà più avanti – ed altra bambina di nome A.) partecipavano al "gioco" "obbligo o verità" (implicante, cioè, la commissione di una serie indefinita di atti sessuali e/o "schifezze"…. (spiega a riguardo il minore B.D. – ff. 8 e 9 sent. G.u.p. -: "obbligo è che uno deve fare sesso con un’altra o si deve baciare, mentre verità è che uno si deve fare fidanzato con un’altra. Durante questo gioco ho fatto sesso con mia sorella")).

Ed allora, può anche essere verosimile che, in una occasione, la M. ebbe a portar via la figlia A. (f. 27) alla vista di ciò che accadeva ma è anche vero che le visite presso quella abitazione degli orrori si sono ripetute più volte, da parte di A., in compagnia della madre M. e che la permanenza in quelle occasioni deve essere stata ben ampia e prolungata se ha permesso ad A. di raccontare in modo articolato e dettagliato i "giochi" erotici che venivano compiuti da, e con, i minori M., D. e S. nonchè da lei stessa visto che "nel prosieguo del colloquio, la minore riusciva a parlare della propria partecipazione al gioco dichiarando di essere stata indotta ad avere contatti sessuali con i nipoti D. e S. (a me hanno chiesto di fare quelle cose che ho detto, loro sempre mi dicevano: vuoi fare questo, vuoi fare quello e loro mi hanno convinto, loro mi hanno fatta fare cose con mio nipote S. e D., mi hanno fatto spogliare)" (f. 29 sent. G.u.p).

Anche a voler annettere credito alla affermazione della ragazza secondo cui la madre, M., non era presente quando "la facevano giocare", è pur vero che ella ha anche espressamente sostenuto che la madre, M.C., "aveva assistito agli abusi subiti dai nipoti M., D. e S.". Il che, sul piano della responsabilità educativa di una madre, è di estrema gravità perchè, pur essendo a conoscenza degli indicibili abusi sessuali che si compivano in quella casa, non solo, ha continuato a frequentarla insieme alla figlia A., ma, non ha neanche impedito che quest’ultima potesse rimanervi (o magari andarvi) "incustodita" con il rischio (assolutamente reale, come dimostrato) che anche la figlia fosse coinvolta in quelle deprecabili condotte (architettate e realizzate anche con la collaborazione dell’altra figlia maggiorenne B.).

Di certo – e contrariamente a ciò che impropriamente sembrano affermare i giudici di appello (v. ultimo periodo a f. 4 sent. app.) – nessuna responsabilità "in vigilando" e tanto meno per omesso impedimento dell’evento – può essere ascritta alla M. per i fatti delittuosi posti in essere da C.B., ma è altrettanto chiaro che, invece, ex art. 147 c.c. alla M. faceva capo un preciso "obbligo giuridico, non solo morale" di proteggere la crescita e la stessa educazione sessuale dell’altra figlia minore A..

Conducendola, ripetutamente in quell’appartamento e lasciandovela anche da sola – pur essendo a conoscenza di ciò che vi avveniva – ha sicuramente contravvenuto a tale dovere e, quindi, offerto un contributo causale di tipo omissivo al verificarsi dell’evento criminoso in danno della figlia A..

Diversamente deve concludersi con riguardo ai reati sessuali posti in essere in danno degli altri minori dei quali la M. era nonna, e non madre.

Effettivamente, come si osserva nel ricorso, l’assenza di una norma precettiva che imponga anche all’ascendente di secondo grado di attivarsi per impedire eventi delittuosi preclude la possibilità di asserire che la M. possa essere dichiarata responsabile, di quanto fatto ai nipotini, ai sensi del capoverso dell’art. 40 c.p., comma 2. La norma è chiara, infatti, nel richiedere un "obbligo giuridico" (non solo morale, quindi, come certamente ricorreva nella specie).

In tal senso, perciò, la motivazione della Corte è censurabile. Si tratta, tuttavia di un errore di diritto nella motivazione che non produce l’annullamento della sentenza impugnata perchè la responsabilità della M. è stata comunque correttamente sostenuta e può essere ribadita da questa S.C., ai sensi dell’art. 619 c.p.p., comma 1 con le precisazioni che seguono.

In primo luogo, deve ribadirsi che – se la circostanza di essere nonna dei minori abusati non può giustificare un addebito alla M. per non avere impedito l’evento – è pur vero che il dato di fatto oggettivo di "quel" suo grado di parentela con i bambini vittime di abusi sessuali è di una rilevanza tale da non potersene prescindere nel valutare la complessiva condotta dell’imputata.

In secondo luogo, deve soggiungersi che – come già parzialmente emerso nell’esaminare la posizione della minore A. – è dato di fatto altrettanto incontrovertibile che la M. si sia recata più volte nell’abitazione di G.L. e R.A., frequentata anche dall’altra figlia maggiorenne, C. B., ove si svolgevano i giochi erotici ampiamente descritti nella decisione del G.u.p., assistendovi certamente ma anche partecipandovi.

Ciò lo affermano – come visto – non solo la figlia A., ma anche i bambini più piccoli. Precisamente, B.D. dice "a casa di L. veniva pure la nonna C., lei non partecipava ma guardava, veniva con A., mia zia… anche lei guardava, ha visto anche lei che facevamo sesso io e M. (v. verb. s.i.t. in atti)" (f. 11 sent. G.u.p.). Ed ancora, si legge nella stessa sentenza che B.S., alla domanda circa i partecipanti al "gioco" ha risposto: "io, A., che è il marito di L., M., mamma, A., che è la sorella di L., A. che è la figlia della nonna, D., S., che è la figlia di L., P. che è il fratello di S. e M.". Anche B.M. (f. 14 sent. G.u.p.) dice testualmente che la "nonna C…. qualche volta è venuta… non sempre" e che con lei portava "mia zia A.".

Sottolinea, altresì, il G.u.p. (f. 16), "con riferimento alla nonna M.C., M. ha riferito che, talora, si limitava ad assistere al gioco e, quindi, anche alle "penitenze" subite dai nipoti ed altre volte vi partecipava compiendo atti sessuali, soprattutto con R.A., mentre con il nipote B.S. e la figlia C.B. vi erano Stati solo dei palpeggiamenti (v. pagg. 31 e ss. della trascrizione)".

A prescindere dal rilievo che tali affermazioni hanno anche una enorme valenza accusatoria nel ribadire la – già trattata – responsabilità della M. rispetto alla figlia minore A., è di tutta evidenza che tali emergenze "colorano" in modo chiaro e definitivo la posizione dell’odierna ricorrente anche per quel che concerne la sua responsabilità verso gli abusi commessi sugli altri minori (tra i quali i nipotini).

Ed infatti, questa S.C., nei suoi interventi in tema di violenza sessuale di gruppo, si è mantenuta coerente dall’inizio (Sez. 3^, 5.4.00, Giannuzzi, Cass. pen. 2002, 2382 e Guida dir. 2000, 26, 79;

Sez. 3^, 9.11.05 Cass. pen. 2007,617) nell’asserire – e ribadire – che, ai fini della configurabilità del reato in esame, è necessario che più persone riunite partecipino alla commissione del fatto anche, se, tuttavia, non si richiede che tutti i componenti del gruppo compiano atti di violenza sessuale. E’, infatti, sufficiente che, dal compartecipe, sia comunque fornito un contributo causale alla commissione del reato; è stato, addirittura esclusa la necessità che i componenti del gruppo assistano al compimento degli atti di violenza sessuale, bastando la loro presenza nel luogo.

In altri termini, ciò che si è ritenuto di dover valorizzare è che – a caratterizzare la nuova fattispecie delittuosa di cui all’art. 609 octies introdotta nel 1996 – sono (da un lato) la circostanza che la determinazione dell’autore materiale dell’abuso viene rafforzata dalla consapevolezza della presenza del gruppo e (dall’altro) la condizione della vittima, che è aggravata dalla consapevolezza di essere in balia di più persone, con accrescimento, quindi, del suo stato di prostrazione ed ulteriore diminuzione della possibilità di sottrarsi alla violenza.

Mutatis mutandis nella specie, va ricordato che si è in presenza di bambini di età inferiore a dieci anni che venivano coinvolti in giochi erotici con altri bambini e/o adulti ai quali presenziavano e partecipavano, oltre alla madre di alcuni di loro ( C. B.), persino la nonna materna. Non è difficile, quindi, immaginare, il forte significato simbolico della presenza anche di una figura di garanzia (quantomeno morale) quale è quella della nonna ad una serie di "giochi" la cui "illiceità" ed "atipicità" erano sicuramente stati percepiti dai bambini.

Questi ultimi, infatti, nei loro racconti, descrivono il contesto anche di "clandestinità" che caratterizzava quegli incontri tanto, ad esempio, da non dirlo a G. ("perchè è spione" – f. 6 sent. G.u.p.) o da dar esprimere ( D.) il rammarico che "nonna C." non fosse intervenuta "a dirgli alla mamma: ammuninni a casa" (- f. 12 sent. g.u.p.) (espressione dialettale che esprime chiaramente – ed emblematicamente – l’implicita aspettativa e speranza del bambino che almeno la nonna intervenisse in sua difesa invitando la madre a portarsi il figlio a casa).

Il concetto è stato ribadito dal piccolo S. (ff. 21 e 22 sent. g.u.p.) quando, alla psicologa, riferisce che "nonna C…..veniva a guardare e portava la zia A. (che n.d.r.)… giocava pure lei" ed ha risposto negativamente alla domanda della psicologa se la nonna avesse mai detto di smetterla perchè quel gioco non le piaceva.

Evidente, anche solo da questi sprazzi di dichiarazioni, il senso di frustrazione di bambini abusati ed in qualche modo "traditi" proprio dalle persone che dovrebbero proteggerli, come lo è una madre, ma, sicuramente – almeno ai loro occhi (anche se la cosa non ha un valore giuridico) – come lo è pure la nonna.

E la responsabilità di questa nonna è diretta perchè, già solo con la propria presenza reiterata sul palcoscenico delle nefandezze, ha rafforzato l’azione degli autori materiali, una dei quali era addirittura la figlia B. (con quel che intuibilmente ciò significa sotto il profilo della rassicurazione dell’azione criminosa di quest’ultima che, certamente, si era sentita "rafforzata" nel proprio agire dall’"avallo" implicito fornito dalla presenza/partecipazione proprio della madre, M.C.).

E’ per questo motivo che, anche se si volesse ritenere che la M. – come sostiene difendendosi – si sia limitata a "vedere", si dovrebbe comunque concludere per una sua partecipazione concorsuale, quantomeno morale, che, però – nella peculiarità della fattispecie criminosa in esame – ha un peso specifico rilevante perchè, come detto, ai fini della sussistenza del reato, non vi è la necessità che ciascun compartecipe ponga in essere un’attività tipica di violenza sessuale, nè che realizzi l’intera fattispecie nel concorso contestuale dell’altro o degli altri correi, potendo il singolo realizzare soltanto una frazione del fatto tipico ed essendo sufficiente che la violenza o la minaccia provenga anche da uno solo degli agenti (sez. 3^, 13.11.03, Giust. pen. 2005, n, 157).

Che, d’altro canto la "presenza" della M. fosse, nella specie, "qualificata" (nel senso che non si è trattato di un suo passaggio fugace ed estemporaneo bensì di una presenza continuativa e consapevole di ciò che accadeva) lo testimoniano proprio le parole dei piccoli quando descrivono, tra i vari "giochi", episodi di vero e proprio "voyeurismo". Ad esempio, B.D. racconta (f. 11 sent. G.u.p.) che, in quella casa, veniva anche " R. che faceva sesso con un altro maschio, sempre amico di mia madre, a casa mia nella mia stanza, io mia sorella e S., aprivamo la porta e li guardavamo pure dal balcone. La mamma lo sapeva era lei che li faceva venire. A casa di L. veniva pure la nonna C., lei non partecipava ma guardava".

Del resto, è stato, altresì, precisato (sez. 3^, 12.10.07, Rv.

238149) che non è nemmeno necessario che l’atto sessuale sia compiuto contemporaneamente da tutti i partecipanti essendo sufficiente la mera presenza di tutti, anche se l’atto viene posto in essere a turno da ciascuno dei partecipanti.

L’assiduita e ripetitività della frequentazione della M. nella abitazione incriminata sono dunque tali da escluderne la casualità o "occasionalità" che vorrebbe la difesa della ricorrente.

Al contrario – come visto – le testimonianze dei minori vanno anche più in là riferendo una condotta addirittura attiva della M.. Alla domanda se la nonna partecipasse a propria volta ai giochi, M. risponde: "certe volte si e certe volte no", quindi, alla domanda sul tipo di "penitenze" fatte dalla nonna, ha replicato:

"tipo…e le stesse penitenze che facevamo tutti". La bambina ha poi soggiunto che la nonna, essendo grande, faceva le "penitenze" con i grandi "tipo con A. che era più grande" ma precisa "…no con i bambini, con noi no. Però con S. mi ricordo che lo toccava… toccava il sedere a mia madre mentre facevamo ‘ste cose obbligo o verità" (f. 16 sent. G.u.p.).

In modo piuttosto chiaro, pertanto, dalle parole delle piccole vittime di questa squallida vicenda trapelano riferimenti a condotte della M. ben più fattive della mera "presenza" evocata nel ricorso in esame.

Il tutto va a rafforzare la giustezza della declaratoria di responsabilità nei suoi confronti per violazione dell’art. 609 octies non, però, in senso mediato (come sostenuto nella motivazione impugnata) bensì in modo diretto avendo ella concorso, sia, con la propria presenza rafforzatrice dell’azione altrui (specie della stessa figlia B.), sia, con qualche partecipazione parziale ai giochi erotici delle "penitenze".

Nè vi è motivo di dubitare che la diversa qualificazione giuridica della sua responsabilità possa dar luogo ad alcuna violazione del principio di correlazione tra accusa e sentenza posto che, perchè ricorra tale eventualità, è necessaria una "trasformazione radicale" nei suoi elementi essenziali della fattispecie concreta sì da pervenire ad "incertezza sulla imputazione" (su. 19.6.96, dì Francesco, Rv. 205619).

Di certo tale non è il caso in esame posto che, ab initio, la condotta di cui la M. è stata chiamata a rispondere era rappresentata proprio dal fatto di non essere intervenuta, sebbene presente (ed avendo assistito) agli atti sessuali su (e con) i minori (che la figlia B. ed altri adulti ponevano in essere dando luogo a violenze sessuali di gruppo). In altri termini, il dato di fatto della sua presenza era obiettivo e la circostanza che l’accusa abbia formalmente strutturato l’imputazione di cui all’art. 609 octies sotto il profilo dell’omissione di atti che impedissero l’evento è il risultato di un errore prospettico che ha determinato la valutazione impropria di una condotta che era – ed è stata sempre – quella di avere "presenziato".

Vi è da dire, peraltro, che – come si è già evidenziato attraverso una disamina più attenta delle emergenze processuali illustrate dagli stessi giudici di merito – la "presenza" della M. è stata, in realtà, molto più attiva di quanto la stessa difesa sia, comunque, disposta a riconoscere nel momento in cui richiama l’attenzione sull’affermazione che la "nonna C. e la di lei figlia C.A. si limitavano a guardare gli altri giocare" (f. 1 ricorso). In ogni caso – anche a volersi attenere solo a questa frase riportata dalla ricorrente – si coglie già, a pieno, la obiettività dell’elemento materiale del reato di cui all’art. 609 octies che vede, cioè, la donna: 1) rafforzare l’azione degli altri autori materiali degli abusi (tra i quali, in particolare la propria figlia B.) con la "semplice" propria "presenza" (mai negata). 2) accrescere il livello di isolamento (anche) dei nipotini minori che, dietro il ridicolo pretesto del "gioco" "obbligo o verità", subivano veri e propri abusi sessuali posti in essere materialmente, tra gli altri, dalla loro madre la cui azione – ripetesi – era implicitamente avallata proprio dalla nonna (in tal modo realizzando a pieno i dieta di questa S.C. circa la sufficienza – per la configurazione del delitto di cui all’art. 609 octies – di una presenza "rafforzatrice" dell’altrui azione abusiva e la ricorrenza di maggior sudditanza delle vittime rispetto agli atti abusivi altrui).

Il principio di correlazione tra imputazione e sentenza sarebbe stato violato se, nei fatti (rispettivamente, descritti e ritenuti), non fosse possibile individuare un nucleo comune, con la conseguenza di porsi i fatti stessi, tra di loro, non in rapporto di continenza, bensì di eterogeneità (sez. 6^, 6.11.08, Zecca, Rv. 242368); ma tale eventualità non ricorre nella specie ove – come testimonia lo stesso tenore della difesa del presente ricorso – Si discute, della qualificazione giuridica da annettere sempre alla stessa condotta – addebitata dall’accusa ed ammessa dall’imputata – e cioè, la sicura presenza della donna a fatti che hanno visto come vittime di abusi sessuali di gruppo (tra gli altri) anche i suoi nipotini.

Perciò, anche se i giudici di merito hanno ascritto il comportamento della M. a titolo di responsabilità omissiva, il dato di fatto obiettivo della sua "presenza" era implicito nell’accusa come formulata.

Riprova definitiva della giustezza dell’asserto è, del resto, nella circostanza che la stessa difesa è stata svolta proprio in questi termini, sforzandosi, cioè, di circoscrivere la portata di detta presenza.

A tale stregua, dunque, è da escludere il rischio di una violazione del principio contenuto nell’art. 521 c.p.p. che, come si sa, è posto a salvaguardia della possibilità, per l’accusato, di difendersi rispetto al medesimo fatto (che deve essere "noto" – vaie a dire, conosciuto e compreso – sia nella qualificazione originaria che in quella successivamente ritenuta).

Non vi è dubbio che, nel caso di cui si discute, nonostante una certa imprecisione dell’accusa, l’avere la difesa dell’imputata sviluppato argomenti tesi a delimitare la rilevanza della propria "presenza" rappresenta una implicita dimostrazione, sia, della piena comprensione dell’accusa mossa, sia, della accettazione del contraddittorio sul punto.

La ricorrente ha puntato a sostenere la tesi che quella sua presenza era stata neutra ed irrilevante ai fini della consumazione del reato.

E’, invece, avviso di questa S.C. che (anche prescindendo dal dato obiettivo che la donna ha fattivamente partecipato ad alcuni atti sessuali) – considerate proprio le peculiarità sopra richiamate della fattispecie di cui all’art. 609 octies c.p. – la sua semplice condotta di "presenziare" (nei termini descritti) non sia affatto equiparabile a quella di una mera ed ininfluente spettatrice ma, al contrario, – sottolineato anche che non era neanche casuale – essa ha svolto un significativo ruolo di rafforzamento dell’azione materiale altrui (specie, come detto, della figlia B.), per l’avallo implicito che quella sua ricorrente presenza comportava ai fini della realizzazione di grotteschi giochi erotici, che vedevano coinvolti adulti e minori (i quali ultimi, in tal modo, si sentivano ancor più abbandonati a sè stessi).

A tale stregua, la M. ha offerto un contributo causale diretto alla commissione delle ipotizzate violenze di gruppo che venivano poste in essere nell’abitazione di G.L. e R. A. e la conferma della sua declaratoria di responsabilità è corretta.

Nessun pregio ha, infine, l’ulteriore cenno difensivo circa la presunta incertezza in ordine alla norma applicata nella specie (se cioè, l’art. 609 octies ovvero l’art. 609 quater) perchè il riferimento a tale ultima disposizione nella pag. 5 della sentenza, oltre ad essere improprio, non rileva dal momento che ciò che conta è l’imputazione formale (ove si parla solo di art. 609 octies) e che non risulta essere mai stata modificata in sentenza.

2.2. (quanto al secondo motivo). Il motivo è ai limiti dell’inammissibilità e, comunque, da respingere.

Come affermato più volte, il riconoscimento delle circostanze di cui all’art. 62 bis c.p. non costituisce nè un diritto quesito per l’imputato nè una "benevola concessione" da parte del giudice. In particolare esse non derivano automaticamente dall’assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto. La loro funzione di adeguamento della pena al caso concreto è correlata alla sussistenza obiettiva di situazioni o circostanze non rientranti tra quelle già codificate ma che presentano connotazioni tanto rilevanti e speciali da esigere una più incisiva e particolare, considerazione. Si richiedono, in altri termini, elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle circostanze in parola (Sez. 1^, 22.9.93, stentano, Rv. 195339).

In ogni caso, il loro "riconoscimento o meno è un giudizio di fatto lasciato alla discrezionalità del giudice, che deve motivare nei soli limiti atti a far emergere in misura sufficiente la sua valutazione circa l’adeguamento della pena concreta alla gravità effettiva del reato e alla personalità del reo" (sez. 1^, 4.11.04, p.g. in proc. Palmisani, Rv. 230591).

Questo è quanto, per l’appunto, avvenuto nella specie ove si constata che già la Corte ha operato un ulteriore adeguamento della pena al caso concreto considerando, ex art. 133 c.p. la incensuratezza della donna. Peraltro, nel respingere l’analoga richiesta di attenuanti, ha evidenziato come a ciò ostasse la "pluralità ed estrema gravità delle condotte criminose". Non solo, quindi, non sono state rinvenute ragioni positive peculiari per accogliere quanto richiesto ma sono stati evidenziati elementi negativi.

La ricorrente, per contro, asserisce che i fatti dovrebbero essere giudicati benevolmente in ragione della loro "occasionante" cosa che, non solo, è smentita dalla diversa, e ragionevole, lettura dei giudici di merito – che hanno per contro sottolineato che le condotte si erano "protratte peraltro per un consistente lasso di tempo" -, ma, configge con il ruolo di questa S.C. cui non si può chiedere una nuova valutazione dei medesimi fatti dai quali siano, a seconda delle prospettive, inferibili conclusioni diverse.

Resta da soggiungere, ad abundantiam, che la correttezza del diniego delle attenuanti si rinviene anche riflettendo su tutto quanto sviluppato nel paragrafo che precede a proposito delle peculiarità del caso e della posizione "qualificata" della M. la quale ha inciso nella complessiva commissione dei reati, non solo, per il semplice fatto della propria "presenza", ma anche – e perchè – si trattava della nonna di tre dei bambini abusati (e non deve dimenticarsi che la diversa posizione di certi parenti è valorizzata anche dall’ordinamento in altre disposizioni attraverso la previsione di aggravanti – 609 quater, comma 2 – ovvero ai fini della procedibilità – art. 609 septies, comma 3, n. 2).

Nel respingere il ricorso, segue, per legge, la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Visti gli artt. 615 e ss. c.p.p. rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella pubblica udienza, il 19 luglio 2011.

Depositato in Cancelleria il 27 settembre 2011

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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