Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-02-2012, n. 1844 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 6/6 – 14/6/07 la Corte d’Appello di Cagliari – sezione lavoro rigettò l’appello proposto dalla società Poste Italiane s.p.a avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Tempio, che aveva dichiarato la nullità del termine stabilito nel contratto di lavoro stipulato con S.M. in relazione al periodo 25-6-99 – 25-9-99 ed accertato, di conseguenza, l’instaurazione tra le parti di un rapporto a tempo indeterminato, dopo aver rilevato quanto segue: l’illegittimità dell’apposizione del termine al contratto, stipulato in base alla causale delle "esigenze eccezionali" di cui all’art. 8 del ccnl del 26/11/1994, era dipesa dalla sua conclusione in epoca successiva al 30/4/1998, termine previsto dagli accordi collettivi come limite temporale per il ricorso ad una tale tipologia contrattuale; l’accordo collettivo del gennaio del 2001 non poteva avere alcuna efficacia sanante rispetto alla nullità del termine dei contratti stipulati prima della sua sottoscrizione, ma dopo il mese di aprile del 1998;

l’obbligo retributivo della datrice di lavoro riviveva a seguito della sua messa in mora conseguente alla formale offerta della prestazione lavorativa avanzata dalla S. in occasione della richiesta del tentativo di conciliazione.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.p.a Poste Italiane che affida l’impugnazione a tre motivi di censura.

Resiste con controricorso la S..

La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione della L. 26 febbraio 1987, n. 56, art. 23, dell’art. 8 CCNL 26/11/94, nonchè degli accordi sindacali del 25 settembre 1997, del 16 gennaio 1998, del 27 aprile 1998, del 2 luglio 1998, del 24 maggio 1999 e del 18 gennaio 2001 in connessione con l’art. 1362 c.c., e segg. ( art. 360 c.p.c., n. 3).

Attraverso tale motivo si contesta la decisione del giudice d’appello nella parte in cui ha ritenuto di individuare nella data del 30/4/98 il termine ultimo di validità ed efficacia temporale dell’accordo integrativo del 25/9/97 e vengono, in sintesi, sottoposti all’esame di questa Corte i quesiti di diritto tendenti ad accertare le seguenti questioni: se in caso di introduzione di nuova ipotesi di stipulazione di un contratto a termine per effetto di previsione collettiva integrativa debba riconoscersi a tale nuova fattispecie contrattuale valenza ed efficacia temporale pari al contratto collettivo del quale la stessa costituisce integrazione (nel caso in esame l’accordo integrativo del ccnl 26/11/94 e del ccnl 25/9/97); se nell’interpretazione di un accordo collettivo debba tenersi conto del significato letterale delle espressioni in esso utilizzate dalle parti e del comportamento complessivo da esse tenuto anche in epoca successiva alla sua stipulazione (nella fattispecie gli accordi cosiddetti attuativi del 18/1/98, del 27/4/98, del 2/7/98 e del 18/1/01, successivi alla stipulazione dell’accordo sindacale integrativo dell’art. 8 ccnl 26/11/94 e del ccnl 25/9/97, dal momento che in essi le parti avevano dichiarato di prendere atto del permanere fino ad una certa data delle esigenze correlate al processo di ristrutturazione legittimanti la stipula di contratti a termine, per cui tali atti avevano, secondo la ricorrente, una funzione meramente ricognitiva della permanenza delle suddette esigenze e non ponevano nuovi limiti temporali alla facoltà di effettuare assunzioni a termine); se gli accordi intervenuti tra le parti successivamente al 25/9/97 e sino al 18/1/01 non avevano natura negoziale, bensì meramente ricognitiva de fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale e della necessità di stipulare o meno ulteriori contratti a termine; se i termini individuati negli accordi successivi a quello del 25/9/97 non si riferivano alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine, ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui araccordo; se la posizione giuridica attiva affermata in giudizio come meritevole di tutela poteva definirsi un diritto quesito e, quindi, indisponibile da parte degli agenti contrattuali.

In definitiva, la tesi di parte ricorrente è che all’accordo collettivo del 25/9/97, in quanto integrativo della disciplina del ccnl del 1994 con esclusivo riguardo alla introduzione di una nuova ed ulteriore ipotesi di legittimo ricorso alla stipulazione di contratti a termine, dovrebbe riconoscersi efficacia temporale pari al contratto di cui costituisce integrazione; inoltre, valutandosi anche il comportamento tenuto dalle parti collettive, sia prima che dopo l’accordo del 25/9/97, nel quale nessun termine finale era stato previsto, si perverrebbe al convincimento che gli accordi successivi sino al 18/1/01 avrebbero avuto solo una valenza ricognitiva del fenomeno di ristrutturazione e riorganizzazione aziendale, dovendosi, pertanto, escludere che le parti avessero inteso fissare un termine finale alla facoltà riconosciuta alla società postale di far ricorso ai contratti a termine.

2. Col secondo motivo è dedotta l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), ovvero in ordine alla fonte di individuazione della volontà delle parti collettive di fissare, alla data ultima del 30 aprile 1998, il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 25/9/97, sostenendosi che nella sentenza impugnata non sarebbero state sufficientemente esposte le ragioni circa il rapporto che sarebbe sussistito tra il contratto collettivo, l’Accordo sindacale del 25 settembre 1997 ed i successivi accordi cosiddetti attuativi in relazione al supposto limite temporale al quale sarebbero state subordinate le assunzioni a termine.

Osserva la Corte che i primi due motivi possono essere trattati congiuntamente in considerazione della identità della questione affrontata, seppur sotto diversi aspetti, vaie a dire quella dell’esistenza o meno di un limite temporale di efficacia per il ricorso al sistema di assunzione a termine riconducibile alla causale oggetto di causa di cui al richiamato contratto collettivo.

Ebbene, entrambi i motivi sono infondati.

Invero, occorre partire dalla considerazione che la Corte di merito, tra l’altro, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto concluso nel giugno del 1999 fu stipulato per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, ed in ragione della graduate introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998 (dagli atti risulta che tale contratto, costituente il primo di quelli intercorsi tra le parti, interessò il periodo 25/6/99 – 25/9/99).

Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto "de quo".

Al riguardo, sulla scia della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588), è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass. 28-1-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n- 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr.. Cass. 29-7-2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va, quindi, confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, risultando superfluo l’esame di ogni altra censura al riguardo.

3. Oggetto del terzo motivo di censura è la violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1233 c.c., attraverso la quale, da una parte, viene contestato che la richiesta del tentativo di conciliazione contenesse, ai fini della messa in mora, la formale offerta della prestazione lavorativa, e, dall’altra, si obietta che l’entità del risarcimento avrebbe dovuto essere determinata tenendosi conto dell’eventuale "aliunde perceptum".

A conclusione del motivo è formulato il seguente quesito di diritto:

"Per il principio di corrispettività della prestazione, ii lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui agli artt. 1206 cod. civ., e segg.".

Tuttavia, tale quesito non riguarda il tema "dell’aliunde perceptum" e comunque, anche in ordine all’argomento della "mora crederteli" risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4-1-2001 n. 80). Il quesito di diritto, richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. S.U. 5-1-2007 n. 36), dovendosi pertanto ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v. Cass. SU. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr. Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro, neppure può ignorarsi che nella fattispecie l’illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15/2/2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne l’aliunde perceptum (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr. Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U. 3-2-1998 n. 1099).

Nè potrebbe ritenersi ammissibile in questa sede la doglianza (ignorata nel quesito) relativa al mancato accoglimento della richiesta (peraltro meramente esplorativa) di esibizione dei modelli 101 e 740 della lavoratrice (v. Cass. 16-11-2010 n. 23120, Cass. 29/10/2010 n. 22196, Cass. 23-2-2010 n. 4375, Cass. 2-2-2006 n. 2262, nonchè Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incìdere in qualche modo nel presente giudizio lo "ius superveniens", rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius superveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie. in definitiva il ricorso va respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorario ed Euro 50,00 per esborsi, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali ai sensi di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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