Cass. civ. Sez. lavoro, Sent., 08-02-2012, n. 1842 Contratto a termine

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Con sentenza del 26/10 – 5/12/06 la Corte d’Appello di Catanzaro – sezione lavoro rigettò l’appello proposto dalle Poste Italiane s.p.a avverso la sentenza del giudice del lavoro del Tribunale di Rossano, che aveva dichiarato la nullità del termine apposto al contratto di lavoro stipulato con F.S. in relazione al periodo 19/10/98 – 30/1/99, con condanna della società a riammetterla in servizio e a corrisponderle le retribuzioni maturate dalla notifica del ricorso introduttivo, dopo aver rilevato quanto segue: era da ritenere infondata l’eccezione di risoluzione del rapporto per mutuo consenso, essendo inlnfluente il lasso temporale trascorso tra la cessazione dello stesso e la proposizione dell’azione giudiziaria;

l’illegittimità dell’apposizione del termine al contratto, stipulato in base alla causale delle "esigenze eccezionali" di cui all’art. 8 del ccnl del 26/11/1994, era dipesa dalla sua conclusione in epoca successiva al 30 maggio 1998, termine previsto dagli accordi collettivi come limite temporale per il ricorso ad una tale tipologia contrattuale; i successivi accordi collettivi del 2001 erano irrilevanti ai fini della verifica della legittimità o meno dell’apposizione del predetto termine, in quanto una tale valutazione non poteva che essere effettuata con riferimento al momento della conclusione del contratto oggetto di causa; il diritto alle retribuzioni decorreva dal momento in cui la lavoratrice aveva messo a disposizione del datore di lavoro in termini chiari ed inequivocabili la propria prestazione lavorativa attraverso la messa in mora del medesimo per il tramite della notifica del ricorso introduttivo del giudizio.

Per la cassazione della sentenza propone ricorso la s.p.a Poste Italiane che affida l’impugnazione a sei motivi di censura. Resiste con controricorso la F..

La ricorrente deposita, altresì, memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c..

Motivi della decisione

1. Col primo motivo è lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 1372 c.c., comma 1, art. 1175 c.c., art. 1375 c.c., art. 2697 c.c., art. 1427 c.c., art. 1431 c.c., art. 100 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., n. 3).

Ci si duole, in sostanza, dell’errore in cui sarebbe incorsa la Corte d’appello nel respingere l’eccezione di risoluzione del rapporto di lavoro per effetto del mutuo consenso tacito, laddove la prolungata inerzia di circa cinque anni dell’odierna intimata, la quale aveva in tal modo mostrato di disinteressarsi della propria vicenda lavorativa, l’unicità del rapporto e la sua breve durata giustificavano nel loro insieme la fondatezza del rilievo mosso. Tali circostanze, secondo la ricorrente, avrebbero dovuto far ritenere la sussistenza, nella fattispecie, di una presunzione di avvenuta risoluzione del rapporto per mutuo consenso, con conseguente onere per la lavoratrice di dimostrare il contrario; inoltre, qualora quest’ultima avesse voluto dimostrare la consapevolezza della datrice di lavoro in ordine alla illegittimità dell’apposizione del termine al contratto, avrebbe dovuto farsi carico di provare la riconoscibilità dell’errore della controparte.

2. Col secondo motivo è dedotta l’omessa e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5) nell’ambito della dedotta risoluzione del rapporto lavorativo per mutuo consenso, vale a dire l’aver trascurato, da parte del giudice d’appello, la circostanza per la quale ai sensi dell’art. 8 del ccnl 26/11/94 "in caso di esigenze assunzionali a tempo indeterminato, nell’arco della vigenza contrattuale, avranno la precedenza quei lavoratori che abbiano prestato servizio con contratto a termine, per un periodo complessivo di almeno sei mesi anche non continuativo negli ultimi tre anni"; al riguardi il medesimo giudicante aveva ritenuto che si trattava di un impegno unilateralmente assunto dall’azienda e condizionato ad eventuali future assunzioni, mentre, al contrario, il fatto che l’inerzia della lavoratrice era persistita anche dopo la scadenza del suddetto triennio avrebbe dovuto indurre a dar rilievo al disinteresse mostrato per l’attuazione del rapporto.

Osserva la Corte che i primi due motivi, che possono essere trattati congiuntamente in considerazione dell’unitarietà della questione ad essi sottesa, sono infondati.

Invero, la Corte d’appello si è espressamente pronunziata in merito all’eccezione di cui trattasi in termini logico-giuridici tali da fugare ogni sorta di dubbio sulla loro immunità dai rilievi mossi, osservando che alla luce delle allegazioni e delle prove offerte non erano rilevabili circostanze atte a manifestare un completo disinteresse della lavoratrice alla attuazione del rapporto in guisa tale da poterlo considerare risolto.

Il giudice d’appello ha, infatti, evidenziato che l’inerzia si era protratta per un periodo di tempo tale da non consentire di ritenere che ciò equivalesse alla volontà della lavoratrice di rinunciare all’azione di nullità del termine ed al conseguente ripristino del rapporto di lavoro, sia perchè occorreva tener presente la imprescrittibilità dell’azione di nullità, sia perchè era indubitabile l’esistenza di una situazione di incertezza che coinvolgeva moltissimi lavoratori assunti a termine dalle Poste, con pronunce contrastanti dei giudici di merito.

E’, inoltre, il caso di ricordare che l’indirizzo consolidato di questa stessa Sezione (Cass. sez. lav. n. 5887 dell111/3/2011; Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010; Cass. sez. lav. n. 26935 del 10/11/08; C. sez. lav. n. 17150 del 24/6/08; C. sez. lav. n. 20390 del 28/9/07; C. sez. lav. n. 23554 del 17/12/04; C. sez. lav. n. 17674 dell’11/12/02) è nel senso di ritenere che la mera inerzia del lavoratore dopo la scadenza del contratto a termine è di per sè insufficiente a ritenere sussistente una risoluzione del rapporto per mutuo consenso in quanto, affinchè possa configurarsi una tale risoluzione, è necessario che sia accertata – sulla base del lasso di tempo trascorso dopo la conclusione dell’ultimo contratto a termine, nonchè del comportamento tenuto dalla parti e di eventuali circostanze significative – una chiara e certa comune volontà delle parti medesime di porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo, sicchè la valutazione del significato e della portata del complesso di tali elementi di fatto compete al giudice di merito, le cui conclusioni non sono censurabili in sede di legittimità se non sussistono vizi logici o errori di diritto.

D’altra parte, come è noto, l’azione diretta a far valere la illegittimità del termine apposto al contrasto di lavoro, per violazione delle disposizioni che individuano le ipotesi in cui è consentita l’assunzione a tempo determinato, si configura come azione di nullità parziale del contratto per contrasto con nome imperative ex art. 1418 c.c. e art. 1419 c.c., comma 2. Essa, pertanto, ai sensi dell’art. 1422 c.c., è imprescrittibile, pur essendo soggetti a prescrizione i diritti che discendono dal rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ex lege per illegittimità del termine apposto. Ne consegue che il mero decorso del tempo tra la scadenza del contratto e la proposizione di siffatta azione giudiziale non può, di per sè solo, costituire elemento idoneo ad esprimere in maniera inequivocabile la volontà della parti di risolvere il rapporto a tempo indeterminato risultante dalla conversione ovvero, in un ottica che svaluti il ruolo e la rilevanza della volontà delle parti intesa in senso psicologico, elemento obiettivo, socialmente e giuridicamente valutabile come risoluzione per tacito mutuo consenso (v. Cass., 15/12/97 n. 12665; Cass., 25/3/93 n. 824 e da ultimo Cass. sez. lav. n. 23057 del 15/11/2010).

Comunque, consentendo l’ordinamento di esercitare il diritto entro limiti di tempo predeterminati, o l’azione di nullità senza limiti, il tempo stesso non può contestualmente e contraddittoriamente produrre, da solo e di per sè, anche un effetto di contenuto opposto, cioè l’estinzione del diritto ovvero una presunzione in tal senso, atteso che una siffatta conclusione sostanzialmente finirebbe per vanificare il principio dell’imprescrittibilità dell’azione di nullità e/o la disciplina della prescrizione, la cui maturazione verrebbe "contra legem" anticipata secondo contingenti e discrezionali apprezzamenti. Per tali ragioni appare necessario, per la configurabilità di una risoluzione per mutuo consenso, manifestatasi in pendenza del termine per l’esercizio del diritto o dell’azione, che il decorso del tempo sia accompagnato da ulteriori circostanze oggettive le quali, per le loro caratteristiche di incompatibilità con la prosecuzione del rapporto, possano essere complessivamente interpretate nel senso di denotare "una volontà chiara e certa della parti di volere, d’accordo tra loro, porre definitivamente fine ad ogni rapporto lavorativo" (v. anche Cass., 2/12/2000 n. 15403; Cass., 20/4/98 n. 4003).

E’, in ogni caso, onere della parte che faccia valere in giudizio la risoluzione per mutuo consenso allegare prima e provare poi siffatte circostanze (v. Cass. sez. lav. n. 2279 dell’1/2/2010, n. 16303 del 12/7/2010, n. 15624 del 6/7/2007), non potendo ritenersi, quindi, sufficiente la sola allegazione delle stesse.

3. Col terzo motivo viene denunziata a violazione e falsa applicazione degli artt. 414, 434, 112 c.p.c. ( art. 360 c.p.c., n. 3) sostenendosi che in primo grado la lavoratrice aveva dedotto la nullità dell’apposizione del termine al contratto sulla base della eccepita insussistenza delle esigenze eccezionali sottese alla sua assunzione e non sulla diversa ragione della previsione collettiva del termine finale del 30/4/98 per la stipula di contratti a termine contraddistinti dalla predetta causale; invece, il giudice di secondo grado aveva illegittimamente ampliato il tema di indagine a quest’ultima causa di nullità non tempestivamente dedotta dalla controparte.

Il motivo è infondato.

Invero, il "thema decidendum" è stato sempre lo stesso, vale a dire l’accertamento della legittimità o meno dell’apposizione del termine al contratto oggetto di causa alla luce degli accordi collettivi richiamati dalle parti, per cui la circostanza per effetto della quale la Corte d’appello ha fornito una diversa interpretazione della valenza da attribuirsi alle scansioni temporali del 30 aprile e del 31 maggio 1998 contenute in quegli accordi, da leggere necessariamente nella loro globalità, interpretazione che le ha consentito di pervenire egualmente alla decisione di accoglimento della domanda, seppur in base ad un diverso ragionamento logico- giuridico, non rappresenta un vizio di ultrapetizione.

4. Col quarto motivo è denunziata la violazione e falsa applicazione della L. 28 febbraio 1987, n. 56, art. 23, dell’art. 8 ccnl 26/11/94, nonchè degli accordi sindacali del 25/9/97, del 16 gennaio 1998, del 27 aprile 1998, del 2 luglio 1998, del 24 maggio 1999 e del 18 gennaio 2001 in connessione con l’art. 1362 c.c., e segg. ( art. 360 c.p.c., n. 3).

A conclusione del motivo, attraverso il quale si contesta la decisione della Corte di merito nella parte in cui ha ravvisato la sussistenza di una limitata efficacia temporale al 30/5/98 dell’accordo integrativo del 25/9/97, vengono formulati i seguenti quesiti di diritto: 1) "Dica la Suprema Corte se in applicazione dei principi che regolano la successione dei contratti collettivi nel tempo, in termini di efficacia e validità, ad un accordo collettivo che integra il contratto collettivo con riguardo alla introduzione di una nuova ed ulteriore ipotesi di legittimo ricorso alla stipulazione a termine, deve riconoscersi valenza ed efficacia, anche temporale, pari al contratto collettivo di cui costituisce integrazione (nel caso di specie l’accordo integrativo del ccnl 26/11/94, del 25/9/97, introduttivo di una ulteriore ipotesi di legittima apposizione del termine, in quanto non prevedente nel suo contenuto alcun termine finale di validità, assumeva la stessa efficacia temporale del ccnl che ha integrato)". 2) "Dica la Suprema Corte se nell’interpretare un accordo collettivo si deve tener conto del significato letterale delle espressioni in esso utilizzate dalle parti e del comportamento complessivo da esse tenuto anche in epoca successiva alla sua stipulazione (nel caso di specie gli accordi c.d. attuativi, successivi alla stipulazione dell’accordo sindacale – integrativo dell’art. 8 ccnl 26.11.94 – del 25 settembre 1997 e, in particolare, gli accordi del 18 gennaio 1998, del 27 aprile 1998, del 2 luglio 1998 e del 18 gennaio 2001, poichè in esse le parti hanno espressamente dichiarato che "si danno atto" del permanere fino ad una certa data delle esigenze correlate al processo di ristrutturazione in corso – legittimanti la stipula di contratti a termine ai sensi dell’accordo del 25/9/97 – costituiscono atti con funzione meramente ricognitiva della permanenza delle esigenze sottese alla riconosciuta necessità di stipulare ulteriori contratti a termine e non pongono nuovi limiti temporali alla facoltà di effettuare assunzioni con l’apposizione di un termine alla durata del contratto)" 3) "Dica la Suprema Corte degli accordi ed i verbali intervenuti tra le parti successivamente al 25.9.97 e sino al 18.1.2001, non avevano natura negoziale bensì meramente ricognitiva del fenomeno della ristrutturazione e riorganizzazione aziendale in atto e della necessità di stipulare o meno ulteriori contratti a termine". 4) "Dica la Suprema Corte se i termini individuati negli accordi successivi a quello del 25.9.97 non si riferiscono alla scadenza dell’autorizzazione a stipulare contratti a termine ma alla durata delle assunzioni, una volta accertata la persistenza delle esigenze riorganizzative di cui all’accordo". 5) "Dica la Suprema Corte se la posizione giuridica attiva affermata in giudizio meritevole di tutela possa definirsi "diritto quesito" e quindi indisponibile da parte degli agenti contrattuali anche qualora l’accertamento preliminare della sua esistenza non sia stata ancora oggetto di verifica giudiziale per il tramite di sentenza passata in giudicato". 5. Col quinto motivo è dedotta l’omessa ed insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio ( art. 360 c.p.c., n. 5), ovvero in ordine alla fonte di individuazione della volontà delle parti collettive di fissare, alla data ultima del 30 aprile 1998, il termine finale di efficacia dell’accordo integrativo del 25/9/97, sostenendosi che nella sentenza impugnata non sarebbero state sufficientemente esposte le ragioni circa il rapporto che sarebbe sussistito tra il contratto collettivo, l’Accordo sindacale del 25 settembre 1997 ed i successivi accordi cosiddetti attuativi in relazione al supposto limite temporale al quale sarebbero state subordinate le assunzioni a termine.

Osserva la Corte che il quarto ed il quinto motivo possono essere trattati congiuntamente in considerazione della identità della questione affrontata, seppur sotto diversi aspetti, vale a dire quella dell’esistenza o meno di un limite temporale di efficacia per il ricorso al sistema di assunzione a termine riconducibile alla causale oggetto di causa di cui al richiamato contratto collettivo.

Ebbene, entrambi i motivi sono infondati.

Invero, occorre partire dalla considerazione che la Corte di merito, tra l’altro, ha attribuito rilievo decisivo alla considerazione che il contratto in esame è stato stipulato, per "esigenze eccezionali conseguenti alla fase di ristrutturazione e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso, ed in ragione della graduale introduzione di nuovi processi produttivi, di sperimentazione di nuovi servizi ed in attesa dell’attuazione del progressivo e completo equilibrio sul territorio delle risorse umane" – ai sensi dell’art. 8 del ccnl del 1994, come integrato dall’accordo aziendale 25 settembre 1997 – in data successiva al 30 aprile 1998, vale a dire, per il periodo 19/10/98 – 30/1/99. Tale considerazione – in base all’indirizzo ormai consolidato in materia dettato da questa Corte (con riferimento al sistema vigente anteriormente al ccnl del 2001 ed al D.Lgs. n. 368 del 2001) – è sufficiente a sostenere l’impugnata decisione, in relazione alla nullità del termine apposto al contratto "de quo".

Al riguardo, sulla scia della pronunzia delle Sezioni Unite di questa Corte (Cass. S.U. 2-3-2006 n. 4588), è stato precisato che "l’attribuzione alla contrattazione collettiva, della L. n. 56 del 1987, ex art. 23, del potere di definire nuovi casi di assunzione a termine rispetto a quelli previsti dalla L. n. 230 del 1962, discende dall’intento del legislatore di considerare l’esame congiunto delle parti sociali sulle necessità del mercato del lavoro idonea garanzia per i lavoratori ed efficace salvaguardia per i loro diritti (con l’unico limite della predeterminazione della percentuale di lavoratori da assumere a termine rispetto a quelli impiegati a tempo indeterminato) e prescinde, pertanto, dalla necessità di individuare ipotesi specifiche di collegamento fra contratti ed esigenze aziendali o di riferirsi a condizioni oggettive di lavoro o soggettive dei lavoratori ovvero di fissare contrattualmente limiti temporali all’autorizzazione data al datore di lavoro di procedere ad assunzioni a tempo determinato" (v. Cass. 4-8-2008 n. 21063, v. anche Cass. 20-4-2006 n. 9245, Cass. 7-3-2005 n. 4862, Cass. 26-7-2004 n. 14011). "Ne risulta, quindi, una sorta di "delega in bianco" a favore dei contratti collettivi e dei sindacati che ne sono destinatari, non essendo questi vincolati alla individuazione di ipotesi comunque omologhe a quelle previste dalla legge, ma dovendo operare sul medesimo piano della disciplina generale in materia ed inserendosi nel sistema da questa delineato." (v., fra le altre, Cass. 4-8-2008 n. 21062, Cass. 23-8-2006 n. 18378).

In tale quadro, ove però, come nel caso di specie, un limite temporale sia stato previsto dalle parti collettive (anche con accordi integrativi del contratto collettivo), la sua inosservanza determina la nullità della clausola di apposizione del termine (v. fra le altre Cass. 23-8-2006 n. 18383, Cass. 14-4-2005 n. 7745, Cass. 14-2-2004 n. 2866).

In particolare, quindi, come questa Corte ha costantemente affermato e come va anche qui ribadito, "in materia di assunzioni a termine di dipendenti postali, con l’accordo sindacale del 25 settembre 1997, integrativo dell’art. 8 del c.c.n.l. 26 novembre 1994, e con il successivo accordo attuativo, sottoscritto in data 16 gennaio 1998, le parti hanno convenuto di riconoscere la sussistenza della situazione straordinaria, relativa alla trasformazione giuridica dell’ente ed alla conseguente ristrutturazione aziendale e rimodulazione degli assetti occupazionali in corso di attuazione, fino alla data del 30 aprile 1998; ne consegue che deve escludersi la legittimità delle assunzioni a termine cadute dopo il 30 aprile 1998, per carenza del presupposto normativo derogatorio, con la ulteriore conseguenza della trasformazione degli stessi contratti a tempo indeterminato, in forza della L. 18 aprile 1962, n. 230, art. 1" (v., fra le altre, Cass. 1-10-2007 n. 20608; Cass 28-1-2008 n. 28450; Cass. 4-8-2008 n. 21062; Cass. 27-3-2008 n. 7979, Cass. 18378/2006 cit.).

In base a tale orientamento consolidato ed al valore dei relativi precedenti, pur riguardanti la interpretazione di norme collettive (cfr.. Cass. 29-7-2005 n. 15969, Cass. 21-3-2007 n. 6703), va, quindi, confermata la declaratoria di nullità del termine apposto al contratto de quo, risultando superfluo l’esame di ogni altra censura ai riguardo.

Nè può trovare ingresso nella disamina dei motivi la questione, evidenziata con la memoria di cui all’art. 378 c.p.c., inerente la natura "part-time" del contratto oggetto di causa e dei suoi riflessi sulla legittimità dell’apposizione del termine, posto che tale questione non è stata proposta nei quesiti di diritto, così come prescritto a pena di inammissibilità dall’art. 366-bis c.p.c..

6. Oggetto del sesto ed ultimo motivo di censura è la denunzia della violazione e falsa applicazione di norme di diritto ( art. 360 c.p.c., n. 3) in relazione agli artt. 1217 e 1233 c.c., attraverso il quale si contesta la decisione del giudice di appello nella parte in cui ha condannato la società a pagare le retribuzioni dalla data di notifica del ricorso di primo grado ed a conclusione dello stesso è posto il seguente quesito di diritto: "Dica la Suprema Corte se per il principio di corrispettività della prestazione, il lavoratore – a seguito dell’accertamento giudiziale dell’illegittimità del contratto a termine stipulato – ha diritto al pagamento delle retribuzioni soltanto dalla data di riammissione in servizio, salvo che abbia costituito in mora il datore di lavoro, offrendo espressamente la prestazione lavorativa nel rispetto della disciplina di cui all’art. 1206 cod. civ., e segg.".

Osserva il Collegio che il quesito riguardante la "mora credendi" risulta del tutto generico e non pertinente rispetto alla fattispecie, in quanto si risolve nella enunciazione in astratto delle regole vigenti nella materia, senza enucleare il momento di conflitto rispetto ad esse del concreto accertamento operato dai giudici di merito (in tal senso v. fra le altre Cass. 4/1/2011 n. 80 e Cass. 29/4/2011 n. 9583).

Il quesito di diritto richiesto a pena di inammissibilità del relativo motivo, in base alla giurisprudenza consolidata di questa Corte, deve infatti essere formulato in maniera specifica e deve essere chiaramente riferibile alla fattispecie dedotta in giudizio (v. ad es. Cass. SU. 5/1/2007 n. 36), dovendosi, pertanto, ritenere come inesistente un quesito generico e non pertinente. In particolare deve comprendere l’indicazione sia della "regula iuris" adottata nel provvedimento impugnato, sia del diverso principio che il ricorrente assume corretto e che si sarebbe dovuto applicare in sostituzione del primo e la "mancanza anche di una sola delle due suddette indicazioni rende il ricorso inammissibile." (v. Cass. 30-9-2008, n. 24339). Del resto è stato anche precisato che "è inammissibile il motivo di ricorso sorretto da quesito la cui formulazione si risolve sostanzialmente in una omessa proposizione del quesito medesimo, per la sua inidoneità a chiarire l’errore di diritto imputato alla sentenza impugnata in riferimento alla concreta fattispecie" (v.

Cass. S.U. 30-10-2008 n. 26020), dovendo in sostanza il quesito integrare (in base alla sola sua lettura) la sintesi logico-giuridica della questione specifica sollevata con il relativo motivo (cfr.

Cass. 7-4-2009 n. 8463).

Peraltro, neppure può ignorarsi che nella fattispecie l’illustrazione del motivo risulta del tutto generica e priva di autosufficienza in quanto si incentra nella doglianza circa la mancanza di una verifica da parte della Corte territoriale sul punto, senza che la ricorrente indichi se e in che modo il punto stesso (per nulla trattato nell’impugnata sentenza) sia stato oggetto di specifico motivo di appello da parte della società (cfr. Cass. 15/2/2003 n. 2331, Cass. 10-7-2001 n. 9336). Del pari, per quanto concerne "l’aliunde perceptum" (in relazione al quale manca del tutto il quesito) alcunchè di specifico viene poi indicato dalla ricorrente, laddove al riguardo era pur sempre necessaria una rituale acquisizione della allegazione e della prova (pur non necessariamente proveniente dal datore di lavoro in quanto oggetto di eccezione in senso lato – cfr., Cass. 16-5-2005 n. 10155, Cass. 20-6-2006 n. 14131, Cass. 10-8-2007 n. 17606, Cass. S.U 3-2-1998 n. 1099).

Nè potrebbe ritenersi ammissibile in questa sede la doglianza (ignorata nel quesito) relativa al mancato accoglimento della richiesta (peraltro meramente esplorativa) di esibizione dei modelli 101 01 e 740 della lavoratrice (v. Cass. 16-11-2010 n. 23120, Cass. 29-10-2010 n. 22196, Cass. 23-2-2010 n. 4375, Cass. 2-2-2006 n. 2262, nonchè Cass. 20-12-2007 n. 26943).

Così risultato inammissibile il terzo motivo, riguardante le conseguenze economiche della nullità del termine, neppure potrebbe incidere in qualche modo nel presente giudizio lo "ius supenveniens", rappresentato dalla L. 4 novembre 2010, n. 183, art. 32, commi 5, 6 e 7, in vigore dal 24 novembre 2010.

Al riguardo, infatti, come questa Corte ha più volte affermato, in via di principio, costituisce condizione necessaria per poter applicare nel giudizio di legittimità lo ius supenveniens che abbia introdotto, con efficacia retroattiva, una nuova disciplina del rapporto controverso, il fatto che quest’ultima sia in qualche modo pertinente rispetto alle questioni oggetto di censura nel ricorso, in ragione della natura del controllo di legittimità, il cui perimetro è limitato dagli specifici motivi di ricorso (cfr. Cass. 8 maggio 2006 n. 10547, Cass. 27-2-2004 n. 4070).

In tale contesto, è altresì necessario che il motivo di ricorso che investe, anche indirettamente, il tema coinvolto dalla disciplina sopravvenuta, oltre ad essere sussistente, sia altresì ammissibile secondo la disciplina sua propria (v. fra le altre Cass. 4-1-2011 n. 80 cit.).

Orbene tale condizione non sussiste nella fattispecie.

In definitiva il ricorso va respinto.

Le spese del presente giudizio seguono la soccombenza della ricorrente e vanno poste a suo carico nella misura liquidata come da dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente alle spese del presente giudizio nella misura di Euro 3000,00 per onorano, Euro 50,00 per esborsi, oltre I.V.A., C.P.A. e spese generali ai sensi di legge con attribuzione all’avv. Vincenzo Feraudo dichiaratosi antistatario.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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