Cass. civ. Sez. II, Sent., 08-02-2012, n. 1805 Onorari

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

Su ricorso di S.M. e S., quali eredi dell’avvocato S.M., che aveva rappresentato e difeso F.L. in una controversia svoltasi nei confronti della società Safim Factor s.p.a ed altri soggetti innanzi al Tribunale di Roma, il Presidente del Tribunale di Bari emise decreto ingiuntivo in data 1.6.05 nei confronti del suddetto cliente, per il pagamento della somma di Euro 637.633,35, pari a due terzi (in ragione delle quote ereditarie degli istanti) delle residue spettanze professionali; a tale provvedimento si oppose il F., deducendo l’esaustività dell’avvenuto pagamento, dalla controparte ammessoci L. 40.000.000, in virtù di espresso accordo, in considerazione dei rapporti di amicizia con il professionista, ed in subordine l’erroneità della parcella posta a base dell’ingiunzione.

Costituitisi gli S., contestarono la sussistenza dell’accordo suddetto e ribadirono l’esattezza della parcella, segnatamente con riferimento all’indicazione del valore della causa, a loro avviso non indeterminabile, ma determinato in Euro 204.398.253, 82, pari a quello di L. 395.770.206.929 accertato in corso di causa con consulenza tecnica di ufficio, sulla base della quale la domanda della società attrice era stata quantificata; insiste vano, altresì, gli opposti nella richiesta di rimborso del parere di congruità espresso dall’ordine professionale.

All’esito del giudizio, nel corso del quale venne concesso sequestro conservativo, confermato in sede di reclamo, sui beni del F. per l’importo di Euro 65.000,00, ed il rito trasformato in quello speciale di cui alla L. n. 794 del 1942, artt. 29 e 30, l’adito tribunale, con ordinanza in data 15/26.6.2007 revocò il decreto ingiuntivo, liquidò a ciascuno degli opposti, in ragione dei rispettivi diritti ereditari, la somma di Euro 19.000, 31, oltre agli interessi legali decorrenti dal 22.5.03, previa determinazione delle spettanze dovute all’avvocato S. in Euro 699,77 per spese, Euro 8579,79 per diritti ed Euro 51.592,32 per onorario, oltre I.V.A., C.A.P. e contributo forfetario per complessivi Euro 75.109,19, e detrazione dell’acconto pari ad Euro 20.658,27, compensando infine interamente le spese processuali.

Tale decisione, risulta basata sulle seguenti essenziali ragioni:

a) mancata prova dell’accordo dedotto dagli opponenti;

b) determinabilità del valore della causa, in concreto individuato sulla scorta dell’accertamento contenuto nella consulenza tecnica di ufficio;

c) conseguente liquidazione dei diritti di procuratore secondo il corrispondente scaglione tabellare;

d) applicabilità tuttavia, agli effetti della liquidazione degli onorari, delle disposizioni correttive contenute nei commi secondo e quarto del D.M. n. 585 del 1994, art. 6, comportanti la liquidazione a carico del cliente in ragione del valore effettivo della causa, diverso da quello presunto a norma dell’art. 10 c.p.c. e ss., da ritenersi nella specie palesemente sproporzionato all’interesse connesso alla specifica posizione del F., in un contesto nel quale la difesa di quest’ultimo si era fondata sulla tesi, poi accolta in sentenza, dell’estraneità del medesimo ai fatti di causa, per essere cessato dalla carica di amministratore prima del periodo in cui si era verificato il dissesto della società;

d) conseguente più adeguata applicazione dei criteri relativi alle controversie di valore indeterminabile, sia pure applicando i massimi tariffari e quadruplicando ex art. 5, comma 3, in ragione della straordinaria importanza della controversia, i relativi importi.

Avverso tale provvedimento gli S. hanno proposto ricorso per cassazione ex art. 111 Cost., affidato ad otto motivi.

Ha resistito il F. con controricorso contenente ricorso incidentale.

Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa.

Motivi della decisione

Va preliminarmente disposta la riunione dei ricorsi ai sensi dell’art. 335 c.p.c..

Deve essere esaminato con precedenza il ricorso incidentale, attesa la priorità logico – giuridica, rispetto alle questioni formanti oggetto del ricorso principale, del motivo con il quale si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 14 c.p.c., in cui il tribunale barese sarebbe incorso nel ritenere la controversia di valore indeterminabile.

Si sostiene che, nel caso di specie, in cui la domanda risarcitoria non era stata quantificata nell’atto introduttivo, ma soltanto all’esito della consulenza tecnica di ufficio, in mancanza di criteri obiettivi e predeterminati, la controversia avrebbe dovuto essere considerata di valore indeterminabile, con conseguente diretta applicabilità del relativo scaglione tabellare, agli effetti della liquidazione sia dei diritti, sia degli onorari, senza necessità dunque di ridimensionamento in base ai criteri correttivi di cui all’art. 6, commi 2 e 4, della tariffa forense, approvata con D.M. n. 585 del 1994.

La censura è infondata, essendosi il tribunale attenuto all’indirizzo, ormai prevalente nella più recente giurisprudenza di legittimità (v., in particolare, Cass. 5905/04, 3372/07, 226/11)), cui questo collegio aderisce, secondo cui ai fini della determinabilità del valore della controversia poco o punto rileva la circostanza che l’attore non abbia determinato ab initio il quantum della propria domandaci servandosi di farlo successivamente (come molto spesso si verifica nelle controversie risarcitorie), allorquando la pretesa sia comunque suscettibie, in ragione dell’obiettiva valutabilità del "bene della vita" oggetto della richiestaci determinazione economica.

Anche in questi casi sussiste, infatti, la possibilità di quantificazione, alla stregua della quale il valore da attribuirsi alla causa va desunto dall’accertamento compiuto in corso di causa, precipuamente finalizzato alla concreta determinazione economica di quella richiesta, che la parte aveva omesso di precisare, tuttavia rimettendosi alle successive risultanze istruttorie. Considerato che il concetto di indeterminabilità non coincide con quelle di indeterminatezza iniziale della domanda, in questo secondo caso il quantum della pretesa, che, nell’ambito della competenza del giudice adito, ben può essere esplicitato fino alla precisazione delle conclusioni, è quello risultante dalla definitiva formulazione della stessa.

Il ricorso incidentale va, pertanto, respinto.

Con il primo motivo del ricorso principale viene dedotta violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 14 c.p.c., del D.M. n. 585 del 1994, art. 6, commi 2 e 4, anche con riferimento all’art. 12 preleggi, censurandosi la ritenuta applicabilità, sulla base di interpretazione normativa non rispettosa del dato "semantico" della disposizione, dei criteri correttivi del valore della controversia contenuti nelle norme tariffarie in questione, ad una fattispecie nella quale detto valore sarebbe stato determinabile in base a criteri codicistici precisi ed obiettivi, desumibili dalla domanda, e non anche presuntivi, come richiesto dal tenore letterale del secondo comma del citato art. 6 citato. A tal riguardo si sostiene che il potere di adeguamento della liquidazione degli onorari, nei rapporti tra avvocato e cliente, valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile", sarebbe limitato ai soli casi in cui la determinazione del valore della controversia sia dal codice di rito ancorata a parametri legali di natura presuntiva (come nei casi previsti dall’art. 15, per i beni immobili, e dall’art.13, per le prestazioni alimentari e le rendite perpetue), e non anche al dato concreto ed effettivo desumibile dal quantum domandato.

La censura non merita accoglimento, proponendo un’interpretazione eccessivamente restrittiva della disposizione, che pur traendo spunto da alcune pronunzie di legittimità (tra cui S.U. n. 5615/98, tuttavia non vincolante ex art. 374 c.p.c., non essendo stato il principio affermato in funzione della risoluzione del contrasto, costituente oggetto precipuo della decisione, ma soltanto recepito, sulla base di mero richiamo a precedenti pronunzie sezionali), deve ritenersi superata dalla più recente giurisprudenza di questa Corte, nella quale, sulla base di una lettura del citato comma 2, adeguatamente coordinata con quella del quarto Quella liquidazione degli onorari a carico del cliente, per la determinazione del valore effettivo della controversia deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi sostanzialmente perseguiti dalle parti"), si è affermato e consolida il diverso principio, di generale applicazione (v. in particolare nn. 13229/10, 15685/06), secondo il quale, nei rapporti tra avvocato e cliente (diversamente che ai fini della liquidazione delle spese a carico della parte soccombente, nei quali, ai sensi del primo comma, il valore della lite si determina secondo i criteri codicistici, salva l’adozione di quello del decisum, nelle cause di pagamento e risarcimento di danni), sussiste sempre la possibilità di concreto adeguamento degli onorari al valore effettivo e sostanziale della controversia, ove sia ravvisabile una manifesta sproporzione con quello derivante dall’applicazione delle norme del codice di rito.

Tale interpretazione, aderente al criterio finalistico, secondo cui il dato letterale va opportunamente coordinato con la ricerca dell’intenzione del legislatore (art. 12 preleggi, comma 1, u.p.), deve ritenersi preferibile, siccome più aderente all’esigenza cui combinato disposto delle due norme tariffarie risulta palesemente improntato, vale a dire all’osservanza di quel "principio generale di proporzionalità ed adeguatezza degli onorari di avvocato nell’opera professionale effettivamente prestata", che le Sezioni Unite di questa Corte (sent. n. 19014/07) hanno ritenuto appunto desumibile dall’interpretazione sistematica delle disposizioni in questione. La portata generale di tale principio informatore della materia risulterebbe palesemente frustrata dalla restrittiva accezione ermeneutica proposta nel motivo di ricorso, che relegandone l’applicazione soltanto a limitati settori del contenzioso civile, escluderebbe ogni possibilità, da parte del giudice, di porre rimedio a quelle situazioni, ricorrenti nella pratica giudiziaria, caratterizzate dall’evidente sproporzione tra pretese economiche manifestamente esorbitanti ed il valore effettivo del bene o della prestazione controversi. E’ da ritenersi, pertanto, che nel richiamo al "valore presunto a norma del codice di procedura civile", la disposizione tariffaria abbia semplicemente inteso riferirsi a tutte le regole dettate dal codice di rito, ivi compresa quella ex artt. 10 e 14, correlata all’indicazione del quantum nella domanda nelle cause relative a somme di danaro o beni mobili, per la determinazione valore della controversia, attribuendo al giudice una generale facoltà discrezionale, ove ravvisi la suesposta manifesta sproporzione tra il formale petitum e l’effettivo valore della controversia, desumibile dai sostanziali interessi in contrasto, di adeguare la misura dell’onorario all’effettiva importanza della prestazione, in relazione alla concreta valenza economica della controversia.

Il motivo va, conclusivamente, respinto.

La reiezione del primo motivo comporta quella anche del secondo, con il quale si deduce violazione e falsa applicazione del L. n. 794 del 1942, art. 24, D.M. n. 585 del 1994, artt. 4, 5 e 6, artt. 10 e 14 c.p.c., per assunta violazione della regola di inderogabilità dei minimi tariffari, in assenza del necessario parere del competente Consiglio dell’Ordine.

E’ agevole al riguardo osservare che il potere discrezionale, in precedenza evidenziatoci individuazione dell’effettivo valore della controversia, diverso da quello desumibile dai criteri codicistici, comporta la conseguente applicabilità della scaglione tabellare ritenuto in concreto applicabile, entro i cui limiti il giudice è tenuto ad operare la liquidazione dell’onorario, senza necessità di munirsi del sopra menzionato parere, non comportando tale operazione alcuna violazione dei limiti, che sarebbero stati applicabili in assenza dell’esercizio di tale facoltà, che proprio perchè prevista dalla tariffa forense, non può integrare una violazione della stessa.

Con il terzo motivo si deduce, in via gradata, violazione e falsa applicazione degli artt. 10 e 14 c.p.c., e dell’art. 6, commi 2 e 4, D.M., per aver il giudice di merito, nell’esercizio del potere di cui alla citate disposizioni tariffarie, instaurato un improprio raffronto tra il valore determinato (o determinabile) della controversia a norma del codice di rito e quello, ritenuto non determinabile, degli interessi della parte convenuta nel processo, che in quanto non valutabile economicamente, non avrebbe potuto essere comparato al primo e ritenuto quello effettivo.

Il motivo è fondato, evidenziando una palese illogicità dell’apparato argomentativo della decisione, che si traduce in una falsa applicazione delle sopra citate, pur astrattamente applicabili, disposizioni tariffarie.

L’effettività del valore della controversia, cui il giudice può attenersi ai fini della liquidazione degli onorari, ove l’applicazione dei criteri codicistici possa condurre, tenuto conto della particolarità del caso, a risultati iniqui ed inadeguati rispetto ai concreti interessi in gioco, esige l’individuazione di una corrispondente ed altrettanto concreta individuazione della valenza economica della causa, che, superiore o inferiore a quella dichiarata o desumibile dai criteri anzidetti, deve essere comunque determinata, non potendo un raffronto comparativo essere instaurato tra due entità economiche disomogenee, l’una certa e l’altra incerta. Il giudice di merito (l’esercizio del cui potere discrezionale in materia deve risultare non arbitrario ed adeguatamente motivato: v. la già citata Cass. n. 15685/06), nel caso di specie, dopo aver ritenuto la controversia di valore determinabile, ha, con inadeguata motivazione correlata non al raffronto con un ipotetico diverso valore, rispetto a quello formalmente desumibile dagli artt. 10 e 14 c.p.c., bensì alle difese (estraneità del F. alle condotte di mala gestio ascritte, in considerazione della non coincidenza temporale delle stesse con il breve esercizio di mansioni di amministrative nell’ambito della società attrice) fatte valere dal convenuto (e poi accolte) ai fini della reiezione della domanda risarcitoria, ha ascritto il connotato dell’indeterminabilità (così facendolo rientrare dalla "finestra", dopo averlo fatto uscire dalla "porta") all’intera controversia, sulla base della sola eccezione del convenuto e, peraltro, senza comunque operare quella necessaria comparazione tra le due sostanziali entità economiche definite, che l’art. 6, commi 2 e 4 cit. esige.

Un valore effettivo non può essere indeterminabile, per la contraddizione che non lo consente.

L’accoglimento di tale motivo comporta l’assorbimento dei rimanenti, logicamente subordinati (il quarto, quinto e sesto, deducenti vizi vari della motivazione, il settimo e l’ottavo censuranti la riduzione, conseguente a quella degli onorari, del rimborso della tassa di parere dell’ordine professionale).

La ordinanza impugnata va, conclusivamente, cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio per nuovo esame ad altra sezione del tribunale di provenienza, cui si demanda anche il regolamento delle spese del presente giudizio.

P.Q.M.

La Corte, riuniti i ricorsi, accoglie il principale, nei limiti di cui in motivazione, rigetta quello incidentale, cassa l’ordinanza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per le spese del presente giudizio, ad altra sezione del Tribunale di Bari.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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