Cass. civ. Sez. I, Sent., 08-02-2012, n. 1791 Indennità di espropriazione

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

La s.n.c. Ing. Campo, proprietaria di un terreno in Comune di Favignana di mq. 2.650 espropriato dal Comune per l’esecuzione di un piano di Edilizia Residenziale Pubblica, ha lamentato l’inadeguatezza della indennità di esproprio, determinata in Euro 5,60 a mq., all’uopo convenendo il Comune innanzi alla Corte di Palermo. La Corte adita, con sentenza 2.11.2009 ha determinato l’indennità di espropriazione dovuta in Euro 190.962,50, della quale ha ordinato il deposito presso la Cassa DD. e PP., con gli interessi legali dal 27.12.2000. Nella motivazione della sentenza, e per quel che rileva, la Corte di Palermo ha affermato che l’area espropriata era edificabile perchè ricadente nella zona C1 di cui al Programma di Fabbricazione come modificato dalla delibera del consiglio comunale in data 7.7.1988, che per la determinazione dell’indennità occorreva far capo al criterio di cui alla L. n. 2359 del 1865, art. 39, che il CTU aveva individuato il valore unitario a mq in Euro 60 mediando tra dato del criterio analitico e dato del criterio della permuta, che non coglievano nel segno le censure della società che si riferivano a valori immobiliari di anni successivi a quello dì interesse, che il dato peritale andava però corretto alla luce del più corretto dato di permuta e quindi pervenendosi al valore di Euro 68,75 a mq, che si determinava pertanto il valore dei terreno in Euro 182.187,50 cui si dovevano aggiungere i valori del pozzo trivellato e del muretto a secco pervenendosi alla somma finale di Euro 190.962,5. Per la cassazione di tale sentenza il Comune di Favignana ha proposto ricorso il 20.12.2010 al quale la soc. Ing. Campo Antonino & C. ha opposto il proprio controricorso. La controricorrente ha depositato memoria finale ed i difensori hanno discusso oralmente la causa.

Motivi della decisione

Nell’unico motivo il Comune si duole del fatto che la Corte di Palermo abbia tratto gli indici di edificabilità 0,75 mc/mq dalla modificazione al PdF apportata dalla variante approvata dal consiglio comunale con delibera del 7.7.1988: ad avviso del ricorrente la Corte non si sarebbe avveduta del fatto che detta variante non era stata approvata dall’Assessorato Regionale come imposto dalla detta L.R. n. 71 del 1978, artt. 3 e 4 e come disposto dalla stessa delibera la quale era, pertanto, in difetto di approvazione, affatto inesistente o quantomeno inefficace. Si sarebbe dovuto invece far capo al previgente indice, pari a 0,08 mc/mq. Peraltro, a criterio del ricorrente Comune, al punto 8 della delibera si dava testualmente atto della operatività delle disposte varianti solo al momento della emissione del decreto di approvazione da parte dell’Assessorato Regionale competente. Osserva di contro l’Impresa controricorrente che il ricorso taceva della stessa esistenza della norma di cui all’art. 19 della menzionata legge, per la quale, tutte le delibere approvative di strumenti urbanistici e quindi anche quelle adottanti mere varianti, acquisivano efficacia,anche in difetto di approvazione, decorso il termine di legge (all’epoca di 90 giorni della L.R. n. 71 del 1978, ex art. 5, comma 1 e art. 19, comma 1):

nè – ancora – sempre ad avviso della parte controricorrente sarebbe valso far capo al disposto del p. 8 della delibera del 1988, ex adverso inteso come invocante le approvazioni quali condizioni di efficacia della variante, volta che l’atto deliberativo non poteva apportare deroghe alla legge. Il controricorso si addentra poi nella confutazione dei parametri invocati in fatto dalla parte ricorrente, con argomenti non sottoponibili alla Corte di legittimità. Ritiene il Collegio, nel dar atto che non vi sono precedenti della Corte di legittimità sulla indicata normativa speciale della R.S., che le censure formulate in ricorso non colgono nel segno. Si premette che con numerosi precedenti questa Corte, con riguardo al necessario completamento con affissione della fattispecie deliberativa preceduta dalla approvazione regionale, in stretto collegamento con a norma di salvaguardia L. n. 765 del 1967, ex art. 17, ha rammentato che, essendo gli strumenti urbanistici atti complessi ineguali, la acquisizione di loro efficacia necessita del completamento della fattispecie deliberativa (in tal senso Cass. 147 del 1993-166 del 1999-10561 del 2001-17692 del 2009-74 dei 2011).

Nella Regione siciliana la normativa applicabile ha però previsto un componimento delle esigenze di certezza, celerità e sostituzione attraverso una scansione di termini diretta a consentire ogni integrazione approvativa ma anche ad assicurare l’efficacia dello strumento deliberato dal Comune: ed in tal senso la normativa ha fatto ricorso al meccanismo della formazione del silenzio assenso.

Da un canto la L.R.S. n. 71 del 1978, art. 5, comma 1 afferma che il R.E. ed il P.d.F. sono approvati con decreto assessoriale (A.R.T.A.) entro novanta giorni dalla loro presentazione all’Assessorato.

Dall’altro canto la L.R.S. n. 71 del 1978, art. 19, comma 1 (integrato dalla norma interpretativa di cui alla L.R.S. n. 159 del 1980, art. 2) prevede un primo termine per l’approvazione incondizionata o per la restituzione "rielaborativa" degli strumenti urbanistici di cui agli artt. 4 e 5, ed al comma 2 – come modificato dalla L.R.S. n. 37 del 1985, art. 33, comma 2 – contempla che la delibera di approvazione consequenziale a tali interventi sia da assumere entro 180 giorni , conclusivamente precisandosi che si applichi comunque la clausola di salvaguardia di cui alla legge statale 1902 del 1952 (che prevede interventi interinali del Sindaco a garanzia dell’attuazione dello strumento in via di approvazione).

Il Comune, pertanto, denunzia erroneamente la inesistenza giuridica (rectius: inefficacia) della delibera approvativa del PdF e quindi la sua inidoneità a determinare effetti sulla conformazione urbanistica ai fini espropriativi: è il Comune stesso ad affermare che nessuna approvazione seguì da parte dell’ARTA e quindi ad ammettere che si sarebbe potuto formare il silenzio assenso.

Ma il Comune afferma anche, pur con singolare laconicità, che la delibera approvativa del PdF venne al punto 8 espressamete condizionata nella sua efficacia all’approvazione dell’ARTA. Siffatta condizione non parrebbe affatto essere inserita contra legem – come sostiene controricorrente – non essendo punto impedito all’Ente, che deliberi una variante ad efficacia legale predeterminata per silenzio assenso dell’organo "sovraordinato", espressamente derogare alla previsione di legge per escludere siffatta ragione di acquisizione di efficacia.

Si tratterebbe pertanto di valutare non se una espressa delibera di condizionamento della efficacia del deliberato stesso alla positiva approvazione regionale sia corretta sul piano del "dovuto" (essendo ad avviso del Collegio derogabile dal deliberante t’effetto di automatismo nella mancata espressa approvazione del deliberato) ma se nella specie tanto sia predicabile sul piano del "voluto". E la risposta è negativa.

A tale conclusione il Collegio perviene non già all’esito di una (non consentita) interpretazione del punto 8 della delibera comunale ma sulla base della sola presa d’atto della totale assenza di alcuna censura di omessa motivazione sul punto: se è vero che la Corte di merito nulla ha argomentato nè in diritto nè in fatto in ordine alle condizioni legali ed amministrative di efficacia della variante in discorso, è pur vero che le argomentazioni in diritto sono esaminabili e sostituibili da questa Corte nel sindacato di cui all’art. 360 c.p.c., n. 3 ma è anche vero che la esistenza di una condizione amministrativa espressa in deroga alla previsione legale del silenzio assenso deve essere addotta con puntualità e la mancata considerazione della condizione stessa deve essere altrettanto puntualmente denunziata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 5, così attivandosi il controllo della rilevanza della omissione argomentativa. Nella specie il Comune si limita ad "offrire" il dato testuale senza iscriverlo in una censura di omessa motivazione e poichè la eloquenza del dato testuale è contestata ex adverso, non si consente neanche a questa Corte di valutare la rilevanza della omessa considerazione dei dato e quindi della possibilità che da esso discendano effetti coincidenti con la tesi del ricorrente.

Si rigetta pertanto il ricorso con le conseguenze sulle spese.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il Comune a pagare ala società contro ricorrente per spese di giudizio Euro 5.200 (di cui Euro 200 per esborsi) oltre a spese generali e accessori di legge.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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