Cass. civ. Sez. III, Sent., 08-02-2012, n. 1763 Collegi e ordini professionali

Sentenza scelta dal dott. Domenico Cirasole direttore del sito giuridico http://www.gadit.it/

Svolgimento del processo

1. Il Consiglio dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Udine (con decisione depositata il 6 novembre 2009) irrogava alla dott.ssa M.M. la sanzione disciplinare dell’avvertimento, ritenendo violato l’art. 21 codice deontologico durante il turno di guardia medica, in riferimento alla mancata visita domiciliare richiesta dai genitori di un neonato.

2. La dott.ssa M. proponeva ricorso alla Commissione Centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, sostenendo la non sussistenza della violazione del codice deontologico.

All’udienza di decisione eccepiva la nullità del provvedimento impugnato, ai sensi del D.P.R. 5 aprile 1950, n. 221, art. 47, per difetto della sottoscrizione di tutti i membri del Consiglio, o, quanto meno, del relatore.

La Commissione (con decisione del 9 agosto 2010) valutava inammissibile l’eccezione di nullità suddetta, per non essere stata dedotta con il ricorso originario, e respingeva il ricorso nel merito 3. Avverso la suddetta decisione la dott.ssa M. ricorre per cassazione, con due motivi, esplicati da memoria.

Resiste con controricorso l’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Udine.

Resiste con controricorso il "Ministero della Salute-Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie", eccependo il difetto di legittimazione passiva, sia del Ministero che della Commissione, pur riconoscendo che alla Commissione il ricorso era stato notificato per conoscenza.

Il Procuratore della Repubblica di Udine, ritualmente intimato, non svolge difese.

Motivi della decisione

1. Sono preliminari i profili attinenti al contraddicono, che sono privi di fondamento.

Il Ministero della Salute, che presenta controricorso quale "Ministero della salute-Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie", eccepisce il difetto di legittimazione passiva, sia del Ministero che della Commissione, pur riconoscendo che alla Commissione il ricorso era stato comunicato per conoscenza.

1.1. Va innanzitutto rilevata l’ambiguità della intestazione del controricorso, che appare proposto anche dalla Commissione centrale, incardinata presso il Ministero, quale giudice speciale, nonostante si riconosca che il ricorso è stato notificato a quest’ultima per mera conoscenza.

Ed infatti, del ricorso è stato solo "spedito avviso" alla Commissione, con la conseguenza che la stessa non è stata evocata in giudizio, non essendo indirizzato nei suoi confronti alcun ricorso.

Comunque, è pacifico nella giurisprudenza di legittimità (da ultimo Cass. 27 maggio 2011, n. 11755) che la Commissione Centrale non è contraddittore nel giudizio di cassazione, trattandosi del giudice speciale la cui decisione è impugnata.

1.2. Quanto al difetto di legittimazione passiva del Ministero della salute, l’eccezione è manifestamente priva di fondamento. Nella giurisprudenza di legittimità è consolidato il principio, secondo cui "In tema di professioni sanitarie, venute meno, L. 13 marzo 1958, n. 296, ex art. 6, le competenze del prefetto (in materia di sanità pubblica), trasferiti alle Regioni gli uffici dei medici e dei veterinari provinciali ed affermata la competenza dello Stato relativamente agli ordini e collegi professionali, il Ministro della Sanità (e non più il Prefetto o il Medico provinciale) è legittimo contraddittore – insieme con il Procuratore della Repubblica e l’ordine professionale – sia nel giudizio avente ad oggetto un ricorso contro decisione della Commissione centrale per gli esercenti le professioni sanitarie, in materia di iscrizione all’albo o di sanzioni disciplinari, sia nella precedente fase giurisdizionale davanti a tale Commissione, a seguito d’impugnazione del provvedimento amministrativo adottato dall’ordine locale." (da ultimo, Cass. 27 maggio 2011, n. 11755; Cass. 20 luglio 2011, n. 15889).

2. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 47, in una con il difetto di motivazione della ritenuta inammissibilità dell’eccezione di nullità del provvedimento del Consiglio provinciale, per difetto della sottoscrizione di tutti i membri, o, quanto meno, del relatore, proposta in udienza.

Dopo aver messo in evidenza che la decisione del Consiglio provinciale è stata sottoscritta solo dal Presidente, dal verbalizzante e dal segretario, e non da tutti i membri che vi avevano partecipato e, neanche dall’estensore (secondo quanto richiesto dalla giurisprudenza di legittimità), la ricorrente sostiene che la Commissione ha errato nella parte in cui ha ritenuto inammissibile l’eccezione di nullità della decisione del Consiglio, per non essere stata proposta con il ricorso, ma solo in udienza.

Argomenta la propria tesi, sostenendo che la nullità per difetto di idonea sottoscrizione della decisione, resa in sede amministrativa, è sottoposta al regime della nullità assoluta e insanabile, equiparabile alla inesistenza, previsto per le decisioni giurisdizionali dal codice di procedura civile (in particolare art. 132, n. 5 e art. 161, comma 2), con conseguente irrilevanza della mancata deduzione della nullità con il ricorso avverso la stessa, essendo la nullità rilevabile d’ufficio senza limitazioni. In particolare, sostiene che è pacifica l’applicabilità analogica delle suddette norme al "processo amministrativo", con conseguente richiesta di cassazione della decisione e rimessione al Collegio provinciale per il riesame del merito.

2.1. Il motivo è infondato.

La Commissione centrale ha correttamente ritenuto inammissibile l’eccezione, proposta in udienza e non nel ricorso; ma è opportuna l’integrazione della motivazione, anche in ragione della novità della questione.

La questione all’attenzione della Corte è se il mancato rispetto del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 47, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso della necessaria sottoscrizione della decisione emessa dal Consiglio dell’ordine provinciale da parte del Presidente e dell’estensore, sia sottoposto o meno at regime delle nullità previsto per la mancata sottoscrizione delle sentenze civili.

Ritiene il Collegio che la risposta al quesito debba essere negativa.

2.2. La risposta è strettamente connessa alla natura amministrativa del procedimento e dell’atto conclusivo dello stesso, con il quale viene irrogata la sanzione disciplinare. Natura, da cui la giurisprudenza di questa Corte ha tratto la conseguenza che la violazione delle norme che regolano tale fase determina una illegittimità amministrativa e non una nullità processuale.

Costituisce principio pacifico che il potere disciplinare del Consiglio dell’Ordine provinciale dei medici non si esercita attraverso un’attività giurisdizionale. La funzione disciplinare si attua attraverso una attività di natura amministrativa, in quanto svolta, nei confronti di appartenenti ad un gruppo organizzato, da un organo che di questo costituisce diretta emanazione, e nell’interno del gruppo, in relazione alla violazione di interessi propri di questo.

Pure pacifico è che l’intervento della giurisdizione avviene dopo l’esercizio dei potere del gruppo, a garanzia dei singoli, ed ha luogo mediante l’esame dell’atto amministrativo che ha posto termine al procedimento. Di conseguenza, non vi è un doppio grado di giurisdizione disciplinare, ma un procedimento amministrativo, chiuso con un provvedimento, ed un processo in sede di impugnativa di questo, definito con sentenza. Da tale caposaldo, in più occasioni (cfr. per una presa di posizione esplicita, Cass. 30 novembre 2006, n. 25494; Cass. 30 luglio 2001, n. 10389; Cass. 27 agosto 1999, n. 8995), questa Corte ha fatto derivare la conseguenza che la violazione delle norme che regolano la fase procedimentale amministrativa determina una illegittimità amministrativa, che, secondo i principi relativi alla impugnativa degli atti amministrativi, può essere fatta valere solo, dal soggetto nel cui interesse la norma violata è stata dettata, con l’impugnazione davanti alla Commissione centrale. Ed ha espressamente escluso che tale violazione comporti una nullità processuale; a maggior ragione una nullità eccepibile in ogni stato e grado e rilevabile anche d’ufficio.

2.3. I suddetti principi, e le conseguenze derivanti in tema di violazione delle norme che regolano la fase amministrativa, sono stati confermati anche dalla giurisprudenza (Sez. Un. 28 giugno 2006, n. 14850, riprendendo, Cass. 11 gennaio 2001, n. 323) che ha ritenuto disapplicabile il D.P.R. n. 221 del 1950, art. 47, comma 1, nella parte in cui richiede la sottoscrizione della decisione del Consiglio dell’ordine da parte di tutti i membri che vi hanno preso parte, in quanto contrastante con il principio generale dell’ordinamento vigente, secondo cui le sentenze rese da un giudice collegiale devono essere sottoscritte solamente dal presidente e dall’estensore.

Infatti, tale conclusione (cfr. sentenza del 2001, in motivazione) si fonda sulle seguenti argomentazioni essenziali. a) Nell’ambito del procedimento disciplinare, di natura amministrativa, l’art. 47 in argomento prevede un requisito, la cui inosservanza determina un vizio di legittimità dell’atto amministrativo conclusivo del procedimento disciplinare. b) La deroga ivi prevista (sottoscrizione di tutti) rispetto al principio secondo cui l’atto amministrativo collegiale è sottoscritto solo dal presidente (e dal segretario), trova giustificazione nella natura contenziosa del procedimento disciplinare, e nella conseguente influenza del paradigma processuale, costituito dalla sentenza resa in sede giurisdizionale, per la quale la disciplina dell’epoca richiedeva la completezza della sottoscrizione dei giudici componenti il collegio;

c) Essendo successivamente mutato il paradigma processuale, nel senso che le sentenze rese da un giudice collegiale devono essere sottoscritte soltanto dal presidente e dall’estensore, poichè alla norma regolamentare non è consentito discostarsi da un principio generale dell’ordinamento, deve ritenersi sufficiente la sola sottoscrizione del presidente e dell’estensore, con conseguente disapplicazione dell’art. 47. 2.3.1. In definitiva, l’operatività dell’art. 132 c.p.c., comma 3 come principio generale dell’ordinamento, idoneo a disapplicare una norma regolamentare contrastante, e a regolare in conformità una fase del procedimento amministrativo contenzioso, che aveva assunto la precedente norma processuale a modello di riferimento, non comporta – già nella prospettiva interpretativa assunta dalla Corte nelle sentenze richiamate, l’equiparazione dell’invalidità del provvedimento amministrativo alle nullità processuali, regolate, rispetto alla sottoscrizione del giudice, dall’art. 132 c.p.c. e art. 161 c.p.c., comma 2. Ogni equiparazione è esclusa dalla più volte ribadita valenza del mancato rispetto sul piano della illegittimità dell’atto amministrativo, da far valere con lo strumento del ricorso avverso lo stesso. A conferma della coerenza ordinamentale della soluzione, basti pensare alla totale incoerenza che deriverebbe se si accedesse alla testi sostenuta dalla ricorrente, dovendosi, in tal caso, rimettere la causa all’organo amministrativo (quale il Consiglio dell’ordine) che ha omesso la sottoscrizione del relatore, per il completo esame della causa nel merito.

2.4. Nè la soluzione accolta è incompatibile con quelle linee evolutive della giurisprudenza di legittimità che hanno ammesso la difesa tecnica e la necessaria contestazione dell’imputazione, nell’ambito di un procedimento amministrativo preordinato alla fase giurisdizionale. Infatti, mentre in quei casi si trattava di allargare l’ambito della tutela nella fase amministrativa del procedimento di irrogazione della sanzione, nel nostro la tutela giurisdizionale esiste, essendo data dal ricorso al giudice speciale davanti al quale possono essere fatte valere tempestivamente le illegittimità della fase amministrativa. Invece, equiparare tali violazioni alle nullità processuali significherebbe introdurre una commistione impropria tra attività amministrativa e giurisdizionale, oltre che allungare i tempi per la definizione del giudizio, in contrasto con le esigenze di celerità imposte dall’art. 111 Cost., senza che tempi più lunghi trovino giustificazione nella doverosa tutela del diritto di difesa e del contraddittorio.

2.5. In conclusione, il motivo va rigettato in applicazione del seguente principio di diritto: il mancato rispetto del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 47, come interpretato dalla giurisprudenza di legittimità, nel senso della necessaria sottoscrizione della decisione emessa dal Consiglio dell’ordine provinciale da parte del Presidente e dell’estensore, integra una invalidità dell’atto amministrativo, quale è il provvedimento conclusivo del procedimento amministrativo contenzioso con cui è irrogata la sanzione disciplinare, che la parte interessata può far valere con il ricorso giurisdizionale previsto avverso lo stesso provvedimento, e non una nullità processuale, ai sensi dell’art. 132 c.p.c. e art. 161 c.p.c., comma 2, rilevabile, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo.

3. Con il secondo motivo si deduce la "violazione dell’art. 111 Cost. e dell’art. 360 c.p.c., nn. 3 e 5 per violazione di legge ed omessa e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia in relazione al D.P.R. n. 221 del 1950, art. 39 e all’art. 21 codice deontologico e all’art. 67 dell’accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale del 23 marzo 2005". 3.1. Il motivo è in parte inammissibile, in parte manifestamente infondato.

3.1.1. La lunga e contorta esplicazione del motivo si snoda attraverso deduzioni, generiche e ripetitive, svolte, con continue sovrapposizioni, nei confronti e della decisione del Consiglio dell’Ordine e della decisione della Commissione Centrale, con conseguente manifesta inammissibilità dei profili che riguardano la decisione che conclude la fase amministrativa.

La lamentata mancata acquisizione delle prove per l’accertamento dell’"esatto svolgersi dei fatti", dedotta anche rispetto al giudizio dinanzi alla Commissione Centrale, risulta del tutto generica e non rispettosa del principio di autosufficienza, con la conseguenza che la Corte non è posta in grado di valutarne la decisività.

La gran parte delle argomentazioni si sostanziano nella riproposizione di quelle avanzate nel ricorso proposto alla Commissione Centrale e nella prospettazione di una lettura diversa dei fatti, al fine di escludere l’integrazione della violazione del codice deontologico, con conseguente richiesta alla Corte di una inammissibile rivalutazione del merito. In sostanza, la parte preponderante del motivo non si traduce in autonome e specifiche censure alla decisione impugnata, con conseguente inammissibilità. 3.1.2. L’unica specifica censura enunciabile è quella, relativa alla violazione del D.P.R. n. 221 del 1950, art. 39, per il mancato rispetto del principio della corrispondenza della imputazione contestata alla decisione disciplinare. In sostanza, la ricorrente deduce che, nonostante l’imputazione fosse basata sulla violazione dell’art. 21 codice deontologico, la decisione si sia incentrata sulla riscontrata violazione dell’art. 3 del suddetto codice.

La censura, rilevante solo nella parte in cui si riferisce alla decisione della Commissione Centrale, è manifestamente infondata. Da un lato rileva la non inconciliabilità ed, anzi, l’integrazione, tra il dovere del medico di tutelare la vita, la salute anche psichica dell’uomo, e di dare sollievo alla sofferenza (art. 3) e l’impegno richiesto allo stesso di affrontare ogni problematica con il massimo scrupolo e disponibilità (art. 21).

Dall’altro, la circostanza che la decisione impugnata, nel confermare quella del Consiglio, imputa alla dott.ssa. M. proprio la mancanza di impegno e di disponibilità nel valutare, con la dovuta sensibilità, una situazione di allarme medico prospettata dalla madre di un neonato, consigliando una visita specialistica pediatrica senza effettuare prima una visita. E, quindi, proprio la violazione dell’art. 21, senza dare rilievo al mancato sollievo alla sofferenza.

4. Quanto alle spese processuali: seguono la soccombenza nei confronti dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Udine; sono integralmente compensate nei confronti del Ministero della salute, in ragione del rigetto del difetto di legittimazione passiva, eccepito nonostante la giurisprudenza consolidata in senso contrario; non sussistono le condizioni per la pronuncia rispetto alla Procura della Repubblica di Udine, non avendo svolto attività difensiva.

P.Q.M.

LA CORTE DI CASSAZIONE rigetta il ricorso e condanna M.M. al pagamento, in favore dell’Ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della Provincia di Udine, delle spese processuali del giudizio di cassazione, che liquida in Euro 3.200,00, di cui Euro 3.000,00 per onorari, oltre alle spese generali ed agli accessori di legge;

compensa integralmente le spese nei confronti del Ministero della salute.

Testo non ufficiale. La sola stampa del bollettino ufficiale ha carattere legale.

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